Autore: massimiliano.piacentini@tin.it Data: To: forumlucca Oggetto: [Forumlucca] Un movimento contro la guerra senza se e senza ma
(Piero Maestri)
Un movimento contro la guerra senza se e senza ma.
Il dibattito che si
è aperto, dentro il movimento contro la guerra e nelle diverse
istituzioni politiche, sulle scelte riguardo alle missioni militari
all'estero è l'ennesima dimostrazione di quanto l'opposizione alla
guerra abbia segnato la politica di questi ultimi anni. Non a caso il
movimento si è costituito e ha sviluppato la propria iniziativa
politica e sociale proprio "contro la guerra e contro il liberismo". E
il primo appuntamento significativo di questo movimento è stata la
manifestazione del 10 novembre 2001 a Roma, contro l'intervento
statunitense in Afghanistan, che avevamo ben chiaro avrebbe
rappresentato l'accelerazione della politica interventista degli Usa e
dei loro alleati, decisa nel quadro della "guerra globale permanente".
Questi aspetti sono chiari a tutte/i coloro hanno contribuito alle
mobilitazioni di questi anni, e richiamarli non vuole in alcun modo
assumerli come motivo di divisione tra diverse posizioni oggi espresse
riguardo il decreto di rifinanziamento delle missioni militari: al
contrario, quella consapevolezza riguardo alla natura dell'intervento
in Afghanistan continua a essere elemento condiviso nel movimento.
Dobbiamo però provare a giudicare le decisioni che il Parlamento e il
Governo stanno per assumere alla luce di questa consapevolezza, e della
ribadita volontà pacifista di chiudere con il capitolo degli interventi
militari "di pace", segnando in questo modo l'inizio di discontinuità
politica necessaria a inaugurare una politica estera alternativa.
La lettura del decreto approvato dal Consiglio dei ministri purtroppo
non fornisce alcun elemento forte di discontinuità nella logica degli
interventi, malgrado contenga l'importante decisione del ritiro dei
militari italiani dall'Iraq.
Due sono le considerazioni che portano a
questo giudizio.
In primo luogo nella relazione illustrativa del
decreto e nel contenuto del provvedimento è chiara la scelta di
mantenere la propria presenza in Afghanistan nel quadro del contesto
definito da "Enduring freedom", cioè dall'intervento di guerra
statunitense: questo è dimostrato dall'aumento dello stanziamento per
questa operazione militare, ma anche dalle considerazioni più volte
lette (anche su "il manifesto") sullo stretto legame esistente tra Isaf
e "Enduring freedom".
E che sia una missione di guerra è chiaro anche
dalla scelta di sottoporre i militari impegnati al Codice penale
militare di guerra (come in Iraq e a differenza da tutte le altre
missioni).
Questa scelta di continuità con le decisioni del passato
(il decreto - nella parte sull'Afghanistan - ricalca anche nelle parole
quello approvato più volte nella scorsa legislatura) affiora purtroppo
anche quando si esprime la scelta del ritiro dall'Iraq, per il quale è
previsto il mantenimento di una forma di intervento "tramite la
partecipazione (con risorse umane e finanziarie) ad iniziative delle
Agenzie delle Nazioni Unite e la prosecuzione dell'impegno nelle
Missioni UE e NATO" (dalla relazione illustrativa del decreto).
Con
questo non si vuole in alcun modo rendere ininfluente la decisione del
ritiro dall'Iraq - che è il frutto soprattutto della mobilitazione di
questi anni e della diffusione dell'opposizione all'intervento espressa
da milioni di donne e uomini. Dobbiamo però aver chiaro che le due
scelte sono legate e che il Governo ha operato uno scambio con gli
"alleati": il ritiro dall'Iraq dovrà essere compensato dalla permanenza
in Afghanistan e dalla rinnovata fedeltà alla Nato.
Questo ci porta
alla seconda considerazione. Il decreto è scritto a partire dalla
scelta di rispettare i legami delle "alleanze occidentali", in
particolare della Nato. Questo era chiaro fin dall'intervento di
D'Alema di fronte alle Commissioni esteri di Camera e Senato dello
scorso 14 giugno, quando affermava "la presenza militare italiana in
Afghanistan non è in discussione, a mio giudizio. Il Governo italiano
lo ha garantito nei giorni scorsi al Segretario generale della Nato in
visita a Roma". Ma il governo italiano non dovrebbe prima discutere le
scelte dentro la propria maggioranza e nel paese, prima di "garantire"
qualcosa al segretario della Nato?
Quello che deve essere chiaro
allora è che la missione in Afghanistan rappresenta la sperimentazione
necessaria affinché la Nato possa assumere fino in fondo le sue
caratteristiche che dal 1991 sta preparando, per diventare "agente
globale di sicurezza", come l'ha definita un suo funzionario (noi
preferivamo chiamarla "braccio armato della globalizzazione").
In una
relazione presentata all'Assemblea parlamentare della Nato dello scorso
maggio, intitolata "L'Afghanistan e il futuro dell'Alleanza", il
parlamentare olandese Bert Koenders, scrive: "L'Afghanistan è il
principale teatro delle operazioni Nato e la cartina di tornasole per
la capacità di quest'ultima di agire e di mantenere le promesse date
dai suoi Stati membri. Da questa missione dipende la credibilità
dell'Alleanza. Pertanto l'esito della missione afgana avrà conseguenze
rilevanti per la sua coesione militare e politica e sarà
inscindibilmente legato al dibattito sulla sua trasformazione".
Il
movimento contro la guerra non può far finta di non saperlo: la scelta
di rimanere in Afghanistan diventa parte integrante di una politica
estera che accetta le logiche interventiste della Nato. e a questo
proposito dovremo saper rispondere con chiarezza che la Nato non può
far parte della "logica multipolare", perché si tratta di un'alleanza
militare offensiva e destinata a proteggere gli interessi dei "padroni
della globalizzazione".
Al decreto si è aggiunta ieri la mozione di
indirizzo che lo accompagnerà in Parlamento. Da quanto risulta, in
questo caso sembrano maggiori gli elementi positivi - almeno in
direzione di una discussione più ampia sulla realtà della missione in
Afghanistan - e questo non è un fatto politico indifferente, anche
perché penso sia frutto anche dell'iniziativa di chi si sta opponendo
alle scelte attuali. Rimangono però ancora molte ambiguità sulla natura
della missione in Afghanistan e sull'idea che questa sia conseguente
ad una scelta da fare con i "nostri alleati" - in primo luogo, ancora
una volta, la Nato. E non è di fatto prevista alcuna "exit strategy".
E rimane il dubbio che lo strumento della mozione sia quello adatto,
una volta che il decreto va in direzione di una riaffermazione
dell'impegno militare così com'è.
Evidentemente non possiamo
pensare di fare dell'uscita della Nato il terreno attuale di
discussione e quindi obiettivo politico immediato del movimento. Ma non
possiamo nemmeno subire i ricatti atlantisti di chi deve rispettare il
suo DNA - come fece nel 1999 al vertice di Washington dell'Alleanza
atlantica, quello che approvò una modifica del "concetto strategico"
mai discussa dal Parlamento italiano (e nemmeno presente nel programma
dell'Unione, mi verrebbe da dire).
Ha ragione chi sostiene che il
movimento non deve subire il dibattito istituzionale, e tantomeno
essere schiavo delle alchimie parlamentari - e nemmeno subordinare la
propria iniziativa alle dinamiche governative (come successe nel 1999
quando gli organizzatori della Perugia-Assisi invitarono il Presidente
del Consiglio D'Alema a partecipare alla marcia pacifista pochi mesi
dopo la fine dei bombardamenti su Belgrado - per "ricucire lo strappo"
con il governo). Per questo dobbiamo guardare ai contenuti, e quello
che leggiamo finora nel decreto del Governo non si avvicina per nulla
ad un passo avanti verso la discontinuità politica.
Una modifica
sostanziale del decreto, che porti davvero ad affermare una progressiva
linea di ritiro dei militari italiani dall'Afghanistan, rafforzerebbe
questa richiesta di discontinuità e segnerebbe un successo delle
posizioni del movimento nel suo insieme.
Il movimento deve saper
affermare la sua autonomia e ribadire la sua posizione che chiede il
rientro dei militari italiani anche dalla guerra in Afghanistan; questo
secondo me significa ribadire il no a quel decreto e rilanciare in
tutte le forme possibili l'iniziativa del movimento.
L'assemblea
del 15 luglio a Roma rappresenta allora un'occasione estremamente
importante per mostrare la forza e le ragioni di chi si è sempre
mobilitato contro la guerra senza se e senza ma, e ha saputo
conquistare buona parte della società italiana a questa posizione.
Mostrerà il dissenso non rispetto ad una scelta parlamentare
contingente, ma verso l'idea di una politica estera "bipartisan" senza
contenuto alternativo.
E naturalmente sono importanti tutte le
iniziative che si stanno organizzando, a partire dai presidi in
occasione del voto alla Camera e al Senato, per chiedere un voto
contrario al rifinanziamento.
Dobbiamo però sapere anche che il
movimento contro la guerra non si ritirerà dopo il voto parlamentare
sulle missioni, qualsiasi sia il risultato, anche se questo lascerà
segni sul movimento stesso. Abbiamo al contrario bisogno che il
movimento - oltre alla sua autonomia - sappia riaffermare la sua
radicalità e la sua unità, per poter davvero incidere sulle scelte
politiche di fondo, a partire dalla prossima importante legge
finanziaria.
Abbiamo bisogno di tutte/i noi per poter porre con forza
l'esigenza di discontinuità e alternativa nella politica estera e della
difesa: a partire dall'esigenza di una sostanziale riduzione delle
spese militari (come ben argomentava Mario Pianta su "il manifesto" del
9 luglio scorso), non dimenticando la necessità di un impegno forte del
nostro paese per favorire il rispetto del diritto internazionale e la
pace in Medioriente (magari cominciando dalla sospensione dell'accordo
militare con Israele, approvato scandalosamente più di un anno fa dal
Parlamento a maggioranza berlusconiana) - impegno che le vicende
tragiche di questi giorni rendono urgente, così come rendono urgente
l'iniziativa del movimento.
La proposta di un incontro il 22 luglio a
Genova proposto da Vittorio Agnoletto e altre/i può essere un momento
utile in questa direzione: facciamolo diventare uno spazio condiviso e
un'occasione di rilancio del movimento, con un dibattito anche aspro ma
aperto e indirizzato a trovare terreni di iniziativa comuni, lasciando
da parte l'idea che qualcuna/o di noi possa rappresentarlo nel suo
insieme.