[NuovoLab] articoli su afganista

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Szerző: antonio bruno
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Tárgy: [NuovoLab] articoli su afganista
liberazione 14 luglio 2006

Iraq e Afghanistan
Per la sinistra
è il tempo della responsabilità
Domenico Gallo
L’emanazione, il 5 luglio, del decreto legge di rifinanziamento di tutte le
missioni militari italiane, ivi comprese quelle in Iraq e quelle in
Afghanistan, ed il prossimo dibattito parlamentare per l’approvazione della
legge di conversione, rende stringenti i tempi del dibattito e della
decisione politica.

L’appello lanciato da personalità da sempre impegnate sul fronte della
pace, della solidarietà e della giustizia internazionale, come Luigi
Ciotti, Tonio Dell’Olio, Gino Strada, Alex Zanotelli, perché ci sia una
svolta in politica estera con il ritiro delle truppe italiane impegnate
nelle missioni in Iraq ed in Afghanistan, sta provocando un vivace
dibattito ed ha fatto emergere i nodi irrisolti della politica estera
dell’Unione, restia ad allontanarsi dal solco della tradizionale
subalternità filoatlantica.

In realtà, sul piano delle scelte strategiche e degli orientamenti in
materia politico-militare la distinzione fra il polo del centro-sinistra è
quello del centro-destra è molto più sfumata di quanto non appaia, in
quanto entrambi gli schieramenti condividono lo stesso orientamento
“filoatlantico”. Le differenze riguardano soltanto il grado di subalternità
all’alleato americano, che nel corso del governo Berlusconi ha raggiunto
livelli inusitati.

Per questo il compito delle forze politiche della sinistra critica presenti
nell’Unione è molto difficile: esse non possono mettere in discussione i
cardini della politica estera e militare italiana senza provocare una
rottura nell’alleanza e la ricomposizione di un nuovo fronte, fondato sul
collante della “fedeltà atlantica”, che è molto più forte dei vincoli di
coalizione imposti dal bipolarismo. Del resto ciò è già avvenuto nel 1998,
quando all’uscita di Rifondazione (forza sgradita alla Nato) dall’area di
governo, ha corrisposto l’ingresso nella maggioranza di una frazione del
centro-destra, per consentire la formazione di un governo affidabile in
vista della già programmata azione militare della Nato nei confronti della
Jugoslavia.

I margini per l’azione politica della sinistra critica (Rifondazione, Verdi
e Pdci) sono ristretti, ma non vuol dire che siano inesistenti. Molto
dipenderà dall’interazione fra l’azione istituzionale dei parlamentari e la
mobilitazione dell’opinione pubblica. Non si tratta di fare una politica di
riduzione del danno, ma di fare politica, cioè di utilizzare il rapporto di
fiducia fra alleati esistente nell’Unione per introdurre degli elementi di
cambiamento, anche quando non sono possibili svolte radicali.

Per questo non mi appassiona il dibattito se occorre votare sì al
rifinanziamento della partecipazione italiana alla missione Isaf in
Afghanistan, per mantenere in buona salute la maggioranza, ovvero se
occorre votare no per fedeltà al principio costituzionale del ripudio della
guerra. Il problema è un altro. Occorre capire cosa possono fare le forze
politiche seriamente impegnate per la pace per ottenere dei cambiamenti nel
contesto politico dato.

Orbene, rispetto alla presenza del contingente militare italiano in
Afghanistan, anche se ne è auspicabile il rientro, la questione si pone in
termini diversi rispetto alla missione in Iraq, che è nata come pure
missione di supporto all’occupazione militare dell’Iraq, dopo l’aggressione
americana del 2003. La missione Isaf nasce da un accordo siglato a Bonn
dalle varie fazioni afghane e recepito dal Consiglio di Sicurezza con la
Risoluzione n. 1386 del 20 dicembre 2001. Nella sua genesi è una missione
di mantenimento della pace in una situazione disastrata da un conflitto
bellico. Il problema è che da quando la Nato (nell’agosto del 2003) ha
assunto il comando ed il coordinamento dell’Isaf, la missione ha subito una
torsione di natura bellicista, in quanto gli Stati Uniti cercano di
utilizzare le forze Nato a sostegno della loro campagna, mai conclusa, di
guerra ai Talebani.

Per questo il Segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, sta
facendo il giro delle capitali europee per chiedere truppe ed aerei, da
impiegare in una sorta di guerra per procura. Questo è proprio quello che
bisogna scongiurare. Rispetto a questa politica dobbiamo dissociarci per
dovere costituzionale. Il problema del come, fa parte dell’arte della
politica. Avere ottenuto che il contingente italiano in Afghanistan non sia
rinforzato e che non siano mandati i mezzi aerei richiesti dalla Nato per
scagliare nuove offensive militari può essere un risultato apprezzabile,
però occorre ottenere garanzie - anche sul piano del rapporto fiduciario di
governo - che il contingente italiano non verrà impiegato in azioni di
controguerriglia, di rastrellamento o di riconquista di territori ostili.
In ogni caso, sia la missione in Afghanistan, sia quella, ancora presente
in Iraq, agiscono in un teatro bellico. Per questo non può essere
contestato - di per sé - il ricorso al codice penale militare di guerra,
previsto dall’art. 16 del decreto legge, in continuazione di quanto già
stabilito con la normativa precedente. In questo codice infatti, anche a
seguito di recenti modifiche, sono contenute le norme che recepiscono le
Convenzioni internazionali del diritto umanitario e vietano gli atti
illeciti di guerra, come ricorrere alla tortura o aprire il fuoco contro le
ambulanze.

Il problema è che nel codice penale militare di guerra sono contenute anche
delle norme, come gli art. 72, 73, 74 e 75, che mettono il bavaglio
all’informazione e vietano la diffusione delle notizie che non siano
autorizzate dalle autorità militari, punendo con pene durissime sia i
militari, sia i civili (per es. giornalisti o cooperanti italiani) che
concorrono nel reato militare.

Nel momento in cui si trovano al governo nel nostro paese delle forze
democratiche, non sarebbe il caso di ripristinare la libertà
dell’informazione, in modo che i cittadini italiani possano essere
compiutamente informati di quello che succede nei teatri dove operano le
nostre truppe e giudicare, con cognizione di causa, il comportamento degli
esecutivi?
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13 luglio 2006

C’è una sproporzione
nelle nostre discussioni
Piero Sansonetti
Scusate se scrivo una frase in latino, ma è una frase famosissima, di Tito
Livio, grande storico dell’epoca di Augusto: «Dum Romae consulitur Saguntum
espugnatur» (mentre a Roma discutono Sagunto è espugnata). Si riferiva alla
presa di Sagunto, città spagnola, da parte dell’esercito di Annibale
(intorno al 220 a. c.), che Roma non riuscì ad impedire perché i suoi
poteri erano impegnati in infinite e sofisticate discussioni. Livio era uno
storico - diremmo oggi - di destra, e anche la frase, nel suo senso
generale, è abbastanza di destra, perché sembra incitare ad agire, a
combattere (fare la guerra) piuttosto che perdersi in complicati
ragionamenti. Però quella frase viene in mente, oggi, per un motivo
diverso. Se guardate i giornali italiani vi convincete facilmente che la
situazione politica internazionale vive una drammatica impasse perché non
si riesce a trovare un accordo sulla partecipazione o meno di truppe
italiane alla spedizione occidentale in Afghanistan.

La mia opinione è che le truppe italiane devono lasciare l’Afghanistan e
ogni altro teatro di guerra al più presto (e spero che la mozione
parlamentare che sarà stesa oggi dai dirigenti della maggioranza, su
richiesta del Prc, contenga in qualche modo questa indicazione, o almeno
apra spiragli in questa direzione) ma penso anche che la crisi politica
mondiale sia cosa assai più complessa dell’affare Afghanistan. E
francamente resto abbastanza allibito vedendo che la gran parte dei
giornali italiani, e delle televisioni, trovino del tutto trascurabili
avvenimenti enormi, come la crisi mediorientale, che da giorni ha raggiunto
punti altissimi, con decine di morti, e ora è precipitata dopo gli scontri
in Libano e l’invasione israeliana. Nella striscia di Gaza ieri - solo ieri
- sono state uccise 16 persone (non erano dirigenti di Hamas, ammesso e non
concesso che uccidere dirigenti di Hamas sia attività commendevole) e tra
queste persone c’era una intera famiglia e sette bambini. Sono state
uccise, queste persone, dall’esercito israeliano. Che a sua volta è stato
colpito al confine con il Libano da un attacco di Hezbollah, e questo
attacco ha provocato sette vittime tra i militari israeliani e il rapimento
di altri due soldati (il fatto che in questo caso le vittime siano
militari, e non civili, cambia le cose dal punto di vista giuridico ma non
certo umano: un morto è un morto anche se porta la divisa, e sua madre, suo
padre, i suoi fratelli e suoi figli piangeranno lacrime uguali a quelle dei
poveri palestinesi che con l’esercito non hanno a niente a che fare).

Sagunto è espugnata, nel senso che la Palestina sta perdendo le sue ultime
speranze di sopravvivenza e di futuro. E le sta perdendo nella più
completa, assoluta, tetra indifferenza dell’Europa, dell’Italia, di gran
parte dell’opinione pubblica, di tutta - praticamente tutta - la stampa e
la Tv.

Io non voglio fare alcuna polemica col mondo politico italiano che
giustamente si accapiglia sul finanziamento della missione in Afghanistan
(ci sono dei problemi molto seri legati a questa questione) ma nessuno al
mondo mi convincerà che non esiste una sproporzione tra il dibattito
politico che si sta svolgendo in questi giorni, la sua intensità (e
l'attenzione che suscita nei mass media) e la tragedia palestinese. Non
credo che sia possibile discutere in modo approfondito e serio di politica
estera italiana, se non si pone al centro la questione mediorientale e
palestinese, e se non si parte dal fatto che l’Italia, e l’Europa, su
questo terreno sono tragicamente, colpevolmente, eternamente assenti: la
vera discontinuità nei confronti del precedente governo, sulla politica
estera, inizia qui, solo qui può iniziare. Cioè dall’idea che la salvezza
della Palestina è un obbligo per il mondo e per la civiltà, e che è anche
la condizione per la salvezza di Israele.

Altrimenti si rischia di dare l’impressione che per noi la politica estera
sia semplicemente una variabile, o un camuffamento, della politica interna.
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il manifesto 14 luglio 2006