[Forumlucca] I: [decrescita] Rallentiamo il mondo

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Author: Elena Bertoli
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To: forumlucca
Subject: [Forumlucca] I: [decrescita] Rallentiamo il mondo

-----Messaggio originale-----
Da: Patrick Marini [mailto:patrick_marini@excite.it]
Inviato: venerdì 7 luglio 2006 14.22
A: decrescita@???
Oggetto: [decrescita] Rallentiamo il mondo



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"http://patrickmarini.wordpress.com/2006/06/22/rallentiamo-il-mondo/"RAL
LENTIAMO IL MONDO


L’Espresso - di Giorgio Ruffolo

Il capitalismo è un treno in corsa verso un abisso. Fermarlo? Si può. Ma
solo con una rivoluzione antropologica. Che realizzi l’utopia di
un’economia sostenibile e solidale

Dé-penser l’economie. È il titolo del saggio di un sociologo francese,
Alain Caillé, direttore della “Rivista del Mauss”, che significa
Mouvement antiutilitariste en sciences sociales, ma è anche il nome di
un famoso antropologo e sociologo francese cui quella rivista si ispira.
Titolo barocco e provocatorio ma significativo, perché annuncia con
qualche baldanza il tramonto del paradigma dominante che occupa il
nostro spazio e scandisce il nostro tempo; e che, tuttavia, mostra
sempre più vistose incrinature.
L’egemonia ancora indiscussa del paradigma economico si spiega con
l’avvento storico dell’economia capitalistica di mercato: processo di
progressiva emancipazione dell’economia dalla società nella quale per
millenni è stata incastrata (embedded) in una spirale di sviluppo
accelerato che, generata in Europa, ha investito con la sua potenza
esplosiva l’Occidente e, oggi, il mondo intero. Dopo il crollo
dell’alternativa comunista, dissolta come un grattacielo che crolla
sullo schermo di un video silenzioso, il capitalismo,
domina incontrastato, non solo come sistema economico dell’economia, ma
come struttura della società e come forma del suo immaginario.
Definitivamente? Ovviamente, non c’è nulla di definitivo nella storia.
Ma non si vedono proprio alternative credibili al capitalismo,
all’orizzonte. Fallita clamorosamente e tragicamente quella comunista
(presente oggi solo come nostalgia inoffensiva o come logo pubblicitario
scaduto) le alternative si sono ritirate nello spazio della
contestazione o dell’utopia. Al primo tipo appartengono i movimenti no
global, efficaci, talvolta molto efficaci, nel denunciare le iniquità,
le devastazioni, i rischi ecologici e sociali del capitalismo, ma del
tutto incapaci e disinteressati a offrire progetti alternativi. Le
pretese a una ispirazione marxista che talvolta questi movimenti
esibiscono sono del tutto improprie. La denuncia degli “orrori”
(”Sangue, lacrime, fango”) connessi soprattutto con le origini del
capitalismo era del tutto estranea a un tipo di retorica che Marx
bollava come «pathos dimostrativo». Quegli orrori erano considerati
infatti come il costo “necessario” di una evoluzione che avrebbe
provocato l’autodistruzione del capitalismo e la sua trasfigurazione in
una società socialista generata dalle sue stesse contraddizioni. Non
solo: Marx non si limitava a denunciare gli orrori, ma descriveva con
autentica ammirazione, nel “Manifesto”, l’avventura rivoluzionaria di
una borghesia che aveva trasformato il mondo, strappandolo al torpore
delle civiltà contadine e sottraendola al dispotismo delle aristocrazie.
Era un convinto sostenitore della crescita e della globalizzazione. Nel
secondo tipo, quello delle utopie, si inscrivono le proposte di nuove
forme di organizzazione economica non capitalistica. E queste a loro
volta si distinguono in utopie radicali alla Illich, del ritorno alla
semplicità conviviale attraverso la destrutturazione delle istituzioni,
che Marx avrebbe certamente considerato reazionarie; e in utopie
solidaristiche, di una economia avanzata, ma fondata sulla cooperazionea
anziché sulla competitivita. Delle prime non mette conto parlare
seriamente, anche se nella critica delle istituzioni (la sanità, la
scuola) si trovano analisi illuminanti. Le altre, non eversive ma
riformiste, colgono invece un aspetto concreto: la distruttività della
crescita capitalistica, la necessità di trovare altre vie possibili e
“sostenibili” a una economia capitalistica altrimenti votata al
disastro. La domanda che esse pongono è questa: è possibile un’altra
economia, non capitalistica, ma altrettanto efficace? La risposta di
Caillé, che sottoscrivo, è no. A meno che non si esca dal paradigma
egemonico dell’economia. Vediamo. Qualunque riflessione seria sul
capitalismo deve riconoscere il suo enorme contributo allo sviluppo
della specie umana: della sua potenza, della sua ricchezza, del suo
benessere. Quali che siano stati i suoi orrori - e sono stati immensi -
non sono certo superiori a quelli delle civiltà che l’hanno preceduto,
fondate sulla schiavitù, sull’oppressione, sulla violenza; mentre
altrettanto immensamente superiori sono i suoi meriti: l’incomparabile
promozione delle forze produttive, la
diffusione prodigiosa delle innovazioni tecnologiche e, nei tempi più
recenti, il compromesso politico con l’altra grande forza della
modernità: la democrazia.
Una riflessione seria non può, d’altra parte, non riconoscere il
rovescio della medaglia: non solo l’esaltazione di Faust, ma anche la
sua dannazione. Il capitalismo ha scatenato poderose forze distruttive
dell’ambiente naturale e della coesione sociale, fino a minacciare la
sopravvivenza stessa della specie. Il suo è come quel treno di un film
famoso, lanciato verso l’abisso di Charing Cross. La sua “dannazione”
sta nell’assurdità della sua logica della crescita illimitata. In natura
non esistono processi di crescita sterminati, che non siano votati allo
sterminio. I bambini non crescono come giganti, gli alberi non crescono
fino al cielo. Solo gli interessi composti crescono indefinitamente, ma
distruggendo il capitale su cui si fondano. A un tasso di sconto del 5
per cento l’equivalente della ricchezza mondiale dei prossimi 200 anni è
il prezzo attuale di un buon appartamento; al tasso del 10 percento, di
una auto usata. L’illusione della ricchezza finanziaria si dissolve nel
tempo. Le alternative alla minaccia di Charing Cross sono: scendere dal
treno, e cioè la decrescita, suggerita dall’ecologia estremista;
tapparsi dentro il treno oscurando i finestrini; cambiare direzione. La
prima, a parte la sua desiderabilità, appare impossibile. La seconda è
quella che stiamo praticando, e non sembra molto saggia. In che cosa può
consistere la terza? Anzitutto, nell’arrestare la crescita globale più o
meno al livello attuale, realizzando lo “stato stazionario”: una
prospettiva che gli economisti classici consideravano non solo
realistica, ma inevitabile (stazionario non significa statico, ma
dinamico; e però, solo nella composizione e nella qualità del prodotto:
un lago aperto, non uno stagno). Questa deviazione, dalla crescita
all’equilibrio, comporterebbe una formidabile redistribuzione delle
risorse tra i ricchi e i poveri del mondo, non essendo concepibile che
la crescita possa essere stoppata per entrambi all’attuale livello di
disuguaglianza, comporterebbe inoltre, all’interno di ogni paese, la
fissazione di qualche limite del reddito, minimo e massimo. E, comunque,
la sterilizzazione delle possibilità di accumulazione della moneta. Un
eccentrico bavarese, Silvio Gesell, immaginò nel secolo scorso un
sistema ingegnoso, il denaro bollato, che consisteva nel gravare il
possesso di moneta di una tassa progressiva nel tempo, conservandola
come mezzo di scambio, ma rendendola inefficace come strumento di
accumulazione. La proposta, che in pratica significherebbe la fine
dell’economia finanziaria, suscitò scandalo, ma anche attenzione, in
particolare da parte di Keynes: un’altra ragione dei benpensanti per
detestarlo! Infine, la deviazione da Charing Cross richiederebbe un
rovesciamento delle priorità tra beni collettivi e beni privati. Oggi il
finanziamento dei beni collettivi è ottenuto prelevandolo dai redditi
primari: insomma, direbbe elegantemente Beriusconi, mettendo le mani in
tasca ai cittadini, i quali non gradiscono affatto. Il che spiega la «
resistenza fiscale e la netta prevalenza nella soddisfazione dei
desideri privati rispetto ai bisogni pubblici. Un “mercato dei beni
pubblici” forniti da imprese sociali direttamente a cooperative di
cittadini autogovernate darebbe a questi ultimi il controllo delle
scelte e della spesa relativa eliminando i costi della burocrazia e
l’iniquità dell’evasione fiscale.
Siamo certo, non ai margini, ma nel pieno di un’utopia concreta. Siamo
dentro a un’economia solidale, come la definiscono i sostenitori del
Mauss. Al punto che c’è da chiedersi se quella così sommariamente
tracciata sia ancora economia nel senso in cui noi la intendiamo, e cioè
di una produzione e distribuzione delle risorse fondata sugli interessi
degli individui e non su quelli della società: i quali, con buona pace
del pensiero unico, non coincidono affatto “automaticamente” con i primi
attraverso il meccanismo del libero mercato. Quel che è certo, è che un
radicale riorientamento della specie umana dall’attuale corsa
letteralmente insensata verso una condizione di equilibrio, dalla
competizione alla cooperazione, non richiede soltanto una riforma
dell’economia, ma una rivoluzione culturale, o addirittura
antropologica. Uno sviluppo della coscienza, anziché una crescita della
potenza. Dell’essere, rispetto all’avere. La fine del paradigma
economico; e cioè dell’autonomizzazione dell’economia e il suo “rientro”
(reembeddment) nell’ambito di una società che abbia riacquistato la
consapevolezza dei limiti naturali e dei bisogni di solidarietà sociale.
Prima di domandarsi se una tale rivoluzione è possibile bisognerebbe
chiedersi se l’attuale tendenza alla crescita insensata è sostenibile.
In altri termini, se sia possibile un suo indefinito percorso in un
futuro privo di storia. Se la risposta è negativa, se il capitalismo,
come altre precedenti grandi formazioni economiche e sociali, ha i
secoli contati, bisogna pure immaginare un percorso nuovo, per quanto
improbabile. Di rivoluzioni culturali che hanno mutato il suo senso, la
storia ne ha conosciute: il cristianesimo, l’illuminismo… La fonte da
cui sgorgano non è, come Marx pensava, la lotta di classe, ma la
fertilità del cervello, l’arma segreta della specie umana: insomma, la
produzione intellettuale. Il senso di una rivoluzione culturale che
deviasse lo sviluppo umano dall’avere all’essere comporterebbe, secondo
la famosa sentenza marxiana, che gli intellettuali (Marx diceva i
filosofi) smettessero di spiegare il mondo e s’impegnassero a cambiarlo.
Che gli economisti progettassero un’economia orientata all’equilibrio.
Che i sociologi disegnassero le sue istituzioni, i filosofi,
socraticamente, le forme della buona vita, gli psicanalisti, realizzando
un auspicio di Freud, i modi di guarire una società malata. Purtroppo,
l’intelligenza critica del divenire sociale è spesa oggi, per lo più, o
nella apologia, o nella contestazione dell’esistente: due forme sterili.
Per non parlare poi di quella letteratura pseudo filosofica che si è
impadronita del discorso sul tardo capitalismo per sommergerlo in
elucubrazioni enigmatiche ed autoerotiche che, nello sforzo di mimare
Heidegger, finiscono per parodiare Totò.


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