[NuovoLab] (senza oggetto)

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Finestra con vista su Bolzaneto
Tommaso Fattori (osservatore internazionale processi Bolzaneto e Diaz del
13 e 14 giugno 2006)



Spaventa il silenzio della "grande" (?) stampa nazionale sui processi
genovesi. Un passaggio ancora sanguinante della storia contemporanea -la
più imponente sospensione di massa dei diritti civili in Europa dal secondo
dopoguerra, secondo Amnesty International- rimosso e sepolto vivo. La
voglia di obliare pare imperante, soprattutto nei palazzi.
Le parole della tortura restano nelle aule di tribunale (dove peraltro non
si può giudicare il reato di tortura, semplicemente perchè non c'è), in
un'atmosfera surreale (un crocifisso domina in alto, alle spalle dei
giudici).
Forse anche il giornalismo è così distratto, penso, perchè ha assorbito e
riprodotto quell'assuefazione cinica al male e alla violenza che il potere
mostra oggi in modo perfetto: lo stato di diritto è un concetto astratto,
che poco s'accorda con la dura "governance" del reale, fatta di cose che
non si possono dire ma si devono fare. E' Genova 2001 ma anche il Patriot
Act. E' la cultura dello pseudo-realismo, sempre pronta a rendere logiche e
necessarie le guerre e le torture. Torture che sono tanto piu' brutali
quanto più le vittime sono ritenute inferiori (non-umane): gli iracheni di
Abu Ghraib o Guantanamo sono ancora piu' bestie dei no-global di Bolzaneto.
Mentre ascolto mi ripeto ancora una volta che la storia deve essere
guardata dal punto di vista delle vittime, per essere compresa. Forse
stavolta sto osservando un po' anche me stesso: chiunque fosse in quei
giorni a Genova, ora, in quell'aula di tribunale, osserva un po' anche sé.
Per puro caso mi trovo io al di qua, affacciato a questa strana finestra su
Bolzaneto, e il ragazzo spagnolo al di là, prima rinchiuso nella caserma
genovese e ora seduto in tribunale a deporre.

Adolfo faceva parte del gruppo Pink, il cui motto era manifestare contro il
G8 utilizzando la "frivolezza tattica" e la fantasia nelle sue diverse
forme artistiche: musica, danza, teatro. Avevano costruito un corteo di
"azione diretta non-violenta", presto dissolto dalle cariche della polizia;
decidono allora di confluire in piazza Manin, con la Rete di Lilliput, ma
la piazza è stata già dispersa e occupata dalla forze dell' "ordine".
Adolfo, alla ricerca dei suoi amici, entra in piazza con le mani alzate e
si blocca di fronte a un corpo che giace a terra, con la testa
insanguinata. Mentre guarda impietrito viene preso, senza un motivo,
ammanettato con lacci di plastica che, serrati per oltre dieci ore, gli
causeranno il blocco della circolazione e varie ferite. Inizia qui la
catena di paura, incarcerazione, insulti, sputi, botte selvagge e calci
dolorosissimi: inframezzati da lunghe ore passate al freddo, in ginocchio,
con la faccia al muro, ascoltando le urla di chi veniva pestato in
"infermieria".

Come può un resoconto come questo dar conto di ciò che vorrei? Di ciò che
si capisce guardando empaticamente la vittima (e che mai avevo capito
leggendo articoli o email)? Come riuscire a trasmettere l'angoscia, le
umiliazioni, l'insensatezza? Comunicare il tremore, i soprusi e il gusto
malato della sopraffazione? La parola scritta pone inevitabilmente una
distanza. Come "osservatori internazionali" dovremmo portare fuori
dall'aula quelle vicende ma sono ora convinto che la miglior cosa che posso
fare sia, al contrario, portare dentro quell'aula: spingere molti altri ad
assistere in prima persona ai processi Diaz e Bolzaneto. Occorre esserci
con tutti i sensi, vedere e ascoltare le vittime in carne ed ossa, entrare
in relazione diretta.
Non che la presenza fisica aiuti a dare un senso a tutto: c'è il livello
delle responsabilità politiche, la presenza dei ministri e dei vice
presidenti del consiglio a Bolzaneto e nelle sale operative genovesi, ci
sono le strategie dei vertici delle forze dell'ordine; ma c'è anche l' odio
quasi sadico di anonimi (in molti sensi) individui in divisa, intriso a sua
volta di paure e preparato con stravaganti idiozie (il sangue infetto dei
manifestanti, pronto ad essere spruzzato come in un film di Tarantino), che
si sostanzia in torture di gruppo, fisiche e psicologiche.

Portato in infermieria, nel cuore della notte e dopo essere stato già
malmenato, Adolfo viene messo sul lettino e il medico gli alza la camicia:
"nessun segno...per il momento". All'istante le guardie saltano addosso
all'artista pink (anche la camicia era rosa) e lo picchiano selvaggiamente,
sul lettino stesso; forse si uniscono anche i due medici, ma Adolfo si
copre la faccia con le mani e non vede. Quando verrà portato a forza in
bagno, durante la lunga nottata, e di nuovo picchiato fino a lasciarlo a
terra, ecco che un carabiniere si toglierà un distintivo e premendolo sulla
faccia di Adolfo gli urlerà: "avete ucciso uno di noi". Bastardi,
terroristi, assassini e una pioggia di insulti e sputi che accompagnavano
le botte.
Adolfo mi racconta di aver creduto più volte che forse non ne sarebbe
uscito, che si era convinto che "se un carabiniere era morto c'era da
supporre che si volesse presentare qualcuno dei detenuti come colpevole".
Né il pubblico ministero né altri pongono domande sull'evidente tortura
psicologica e sulle conseguenze di questo trattamento; il processo deve
accertare precise responsabilità individuali e altro è il piano delle
contestazioni mosse ai torturatori di Bolzaneto.
Quando Adolfo all'alba, dopo una notte di questo tenore, verrà portato sul
cellulare verso una "destinazione ignota" mi dice di aver avuto un totale
crollo psicologico, convinto di essere spostato in un altro speciale centro
di tortura, per fargli confessare l'uccisione del carabiniere. Chi conosca
lo stato delle carceri italiane può dedurre -per contrasto- la disumanità
e brutalità della detenzione a Bolzaneto: giunto al carcere di Alessandria
e messo in una "cella di un carcere normale", dove potè finalmente dormire
un poco (a Bolzaneto e nei trasferimenti era loro vietato dormire) e
mangiare (dopo ventiquattro ore) Adolfo pensò "che quella cella fosse il
luogo migliore della terra".

Questa banalità della tortura e la mancanza di vergogna dei tanti
"servitori dello stato" in azione nella caserma sono il basso continuo
della vicenda; o le forze dell'ordine sapranno liberarsi di coloro che si
credono al di sopra delle leggi che dovrebbero per l'appunto "servire", o
non ci sarà alcuna ricomposizione di questa frattura epocale fra una
generazione e le istituzioni. A Bolzaneto sono state violentate tanto le
leggi divine (sofoclee) quanto le leggi umane: alla sospensione dello stato
di diritto si è accompagnata una feroce mancanza di pietas, la crezione
collettiva di terrore, lo scatenamento di violenze fisiche e il desiderio
di annullare psicologicamente degli esseri umani (fra l'altro innocenti, ed
è secondario).

Al processo per l'irruzione nella Diaz, il giorno dopo, voglio ascoltare i
poliziotti e i carabinieri chiamati dal pubblico ministero come testimoni:
su quattro, tre non si presentano e qualcuno invia all'ultimo momento
certificati medici. Troppo poco tempo per poter preparare una "versione
comune", si commenta sommessamente. Altri certificati sono in arrivo per i
testimoni "in divisa" dei giorni successivi. Il presidente del tribunale
ironizza, in apertura dell'udienza: "c'è una certa indisposizione diffusa
-deve essere successo qualcosa...". Né vergogna né dignità, dunque;
malgrado il titanico lavoro del Genoa Legal Forum, del Gsf e del Comitato
non sembra facile ottenere "verità e giustizia". D'altra parte, penso, in
molti devono aver una considerevole dimestichezza con i falsi: a Bolzaneto
Adolfo è stato obbligato a firmare una dichiarazione: "non potei leggerla
e alla mia domanda sul contenuto risposero solo -devi firmare".
Naturalmente tutti gli stranieri hanno sottoscritto un testo in italiano,
anzi, hanno sicuramente dettato in fluente italiano. Il Pm domanda perchè
mai Adolfo non abbia mai provato a chiedere di andare in bagno (che
comunque ha potuto visitare quando ce l'hanno trascinato a forza, per
picchiarlo) o di parlare con i familiari e con un avvocato: "tutte le
circostanze mi consigliavano di non chiedere alcunchè", è l'esaurientissima
risposta.
Al processo Diaz c'è una giovane ragazza calabrese, ma è terrorizzata; come
se qualcuno in questi anni le avesse suggerito di non mettersi nei guai
testimoniando al processo contro poliziotti e carabinieri. Forse si spiega
in questo modo il contrasto fra le dichiarazioni rilasciate ai Pm
all'indomani del blitz alla Diaz e i lunghi silenzi in aula. Su settanta
testimoni di parte offesa mi dicono sia l'unica ad aver rimosso così
massicciamente. Presto sarà in aula anche una giovane statunitense, che
pure dormiva alla Diaz; il padre, che l'accompagnerà, ha detto ai genovesi
che si occupano dell'alloggio, con spirito tutto anglosassone : "trovate
un posto anche per me -ma non nella scuola dove ha dormito mia figlia, per
favore".

Non so che accadrà; se la politica che ha vomitato tutto questo riuscirà ad
assumersene finalmente la responsabilità dando vita ad una commissione
parlamentare d'inchiesta, o se invece dovremo aspettare un lustro. Non so
se il reato di tortura farà la sua comparsa sulla scena del diritto
italiano o se negarne l'esistenza sarà il nostro originalissimo modo di
combatterla; né so se alcuni numerini identificativi saranno ricamati sulle
divise, rendendo d'ora in poi meno anonimi gli anonimi e più imputabili i
responsabili. Probabilmente è difficile che Lidia (Menapace), appena
esclusa dalla presidenza della commissione difesa del senato, possa
insegnare la nonviolenza a poliziotti e carabinieri; eppure sarebbe un
salto di civiltà essenziale. In questo momento non so neppure decidere se i
fatti di Genova e Bolzaneto siano più in sintonia con il nuovo (il
neoassolutismo dei nuovi poteri della globalizzazione neoliberista) o più
in continuità con il vecchio: la peggiore storia italiana, dove pezzi delle
istituzioni e del potere (politico o economico) si sono spesso posti al di
sopra e "al di là" del diritto; a volte in forma tragica, altre in forma
fasesca. Non so moltissime cose. Tuttavia il Pink Adolfo, venuto da
Saragozza, e le tante persone amiche impegnate a Genova senza sosta nella
ricerca della verità, alla fine mi hanno messo decisamente di buon umore; e
parto "cantando, con la speranza in cor".