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I Centri di Permanenza Temporanea: Un abuso ordinario
Marco Rovelli
LAGER ITALIANI
All'altezza degli occhi
(BUR)
Questi racconti sono la versione moderna della "storia della colonna infame" di Manzoni. Allora, al tempo della peste, si svolsero osceni processi contro innocenti accusati di spargere il morbo. Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati. E' la nostra storia delle colonne infami e un giorno dei figli chiederanno certo conto ai padri di quello che hanno lasciato fare, permesso, incoraggiato col silenzio.
Dall'introduzione di Erri De Luca
Storie di abusi ordinari, racconti di vite migranti passate per la detenzione dei CPT, i Centri di Permanenza Temporanea, i campi dove vengono trattenuti gli immigrati in attesa di espulsione, o di identificazione. Una detenzione 'amministrativa': chi viene recluso in quei centri non ha commesso alcun reato penale, ma è lì solo per la sua condizione di migrante irregolare. Questi centri - spesso confusi con i centri di accoglienza, e che invece sono centri di dura detenzione - sono i terminali di una politica migratoria che non è basata sull'integrazione, ma sulla chiusura della fortezza Europa e sulla precarizzazione dei diritti dei migranti.
Perché Lager italiani? La parola lager, in tedesco, significa campo. Essa designa, da un punto di vista storico e giuridico, un luogo in cui tutti i diritti sono sospesi. Il migrante detenuto in tali strutture non ha alcuna garanzia giuridica. Per la legge, chi viene trattenuto in un CPT non ha nemmeno il diritto di essere considerato un detenuto: egli è semplicemente un ospite.
Il migrante rinchiuso in un CPT è perciò strutturalmente esposto all'abuso. E gli abusi raccontati nelle storie di questo libro sono tanti. Ma ancor prima dei pestaggi e delle violenze delle forze di polizia, l'abuso più grande è il fatto stesso della sospensione del diritto, che comporta anche la sospensione della stessa esistenza del migrante. Il quale è consegnato al nulla, deprivato di senso, schiacciato nelle gabbie dei CPT senza aver commesso un reato, ma solo per una condizione esistenziale. Un vuoto interminato, senza passato né futuro: questo il sentimento comune a chi finisce nei CPT, che si chiede continuamente "perché", ed è un perché che non potrà trovare risposta.
Nei CPT le persone sono disciplinate, destinate ad abbassare gli occhi. Per questo il sottotitolo del libro è: All'altezza degli occhi. Se non hai diritti, non puoi rivendicare alcunché. Se osi alzare gli occhi, ti assumi un rischio. Non a caso queste storie raccontano, ad esempio, come al CPT Regina Pacis di San Foca, a Lecce, il direttore del centro don Cesare Lodeserto passava in rassegna i 'trattenuti' in fila per i pasti guardandoli negli occhi: chi reggeva lo sguardo era punito con pugni e schiaffi.
Nel libro i CPT vengono raccontati attraverso gli occhi delle persone che hanno avuto la sventura di finirci dentro. E più di una disamina giuridica o storica, è la concretezza delle storie di persone in carne e ossa, di vite sospese e negate, a documentare come il CPT sia un abominio da cancellare.
Per un anno l'autore ha incontrato persone che sono passate dalla detenzione nei CPT, e ne ha riscritto le storie cercando di restituire il loro sguardo, con una scrittura fortemente narrativa. L'intendimento è stato quello di raccontare il CPT - un non-luogo - nel suo esser-transito di non-persone, ognuna delle quali ha una storia dietro, una storia che lì, in quel gorgo, viene rimossa, e pure affiora proprio in quanto rimosso.
Storie narrate con una scrittura all'altezza degli occhi.
Nel libro non ci sono solo storie. Nella seconda parte, infatti, si traccia il profilo giuridico dei CPT, la storia della recente legislazione sull'immigrazione, la genealogia dei centri, la loro dislocazione, una panoramica centro per centro, le principali violazioni dei diritti riscontrate, i dati complessivi disponibili su trattenimenti e costi. Insomma una sorta di sommaria, ma completa e aggiornata, storia dell'istituzione CPT, oltre che un esame del suo senso concettuale (il libro si conclude infatti con un'esposizione della riflessione di Giorgio Agamben - a partire da quella di Hannah Arendt - sulla "forma campo" come paradigma del potere sovrano).
I clandestini rinchiusi nei CPT, non vivono come gli internati dei lager nazisti. Se ci riferiamo alle loro condizioni strettamente materiali, la correlazione è improponibile ed è lo stesso autore a segnalarcelo nel suo acuto saggio conclusivo per non prestare il fianco ad eventuali critiche capziose che mirassero strumentalmente a banalizzare l'intero discorso. Il merito non è quello delle pur ignobili condizioni della mera esistenza dei reclusi, indegne di una qualsivoglia civiltà, bensì le coordinate giuridiche ed ontologiche che definiscono il clandestino e che ne legittimano la reclusione in uno spazio d'eccezione in cui viene spogliato di ogni status e di ogni diritto.
Marco Rovelli, con la forza di una narrazione che trapassa ogni possibile indifferenza o attenuazione di convenienza e con una lucida, appassionata riflessione politico-filosofica nel solco dei fondamentali studi di Hannah Arendt e di Giorgio Agamben, dimostra che i CPT sono dei lager veri e propri e che il ventre che partorisce questo obbrobrio, è il ventre pasciuto della nostra società occidentale.
Dalla postfazione di Moni Ovadia.
Marco Rovelli (Massa 1969) scrive e canta canzoni (con Les Anarchistes, vincitori del premio Piero Ciampi 2002 per il miglior debutto discografico, e nello spettacolo Una Vita). Scrive poesia (Corpo esposto, Memoranda 2003). Scrive di filosofia (cura tra l'altro la prima edizione italiana di Sacrifices di Georges Bataille per Stampa Alternativa) e di storia (Atlante storico Garzanti 2003). Insegna storia e filosofia nei licei.
(in un racconto - Male nostrum - si parla anche della vicenda del Regina Pacis con brani di conversazione con Montassar)