[Lecce-sf] Intervento di Gigi Malabarba al Senato del 18 mag…

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著者: Cinzia
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To: Lecce Sf, Fori sociali, Bastaguerra
題目: [Lecce-sf] Intervento di Gigi Malabarba al Senato del 18 maggio
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Malabarba. Ne ha facoltà.



MALABARBA
<http://www.senato.it/loc/link.asp?leg=15&tipodoc=SANASEN&id=17600>
/(RC-SE)/. Signor Presidente, la ringrazio anche per l'enfasi con cui ha
annunciato il mio intervento.



PRESIDENTE. Senatore Malabarba, è sempre un piacere ascoltarla.



MALABARBA /(RC-SE)/. Signore e signori Ministri, signor Presidente del
Consiglio, la cui presenza qui per tutto il dibattito da quattro ore e
mezza è encomiabile; si è assentato solo per qualche telefonata e per
qualche necessità fisiologica. Credo che questo sia già un segno di
particolare novità, il segno che siamo in un'epoca nuova.

Nella precedente legislatura, nel riferirmi al Presidente del Consiglio
non mi era mai riuscito di andare oltre a "signor Berlusconi", spesso
impegnato in altri affari.

La coalizione dell'Unione ha sconfitto il Governo delle destre: questo è
un risultato che appartiene alle lotte dei lavoratori e delle
lavoratrici, alle lotte dei giovani e ambientaliste, a un rinato
movimento delle donne che combattono per tutti noi una battaglia di
civiltà, a uno straordinario movimento contro la guerra e per la pace, i
diritti e la democrazia.

Berlusconi ha rappresentato (e rappresenta, non scordiamocelo) quanto di
più pericoloso poteva accadere per questo Paese, da qualunque lato si
voglia giudicare la politica del suo Governo: occorre creare le
condizioni perché quell'intreccio populista e liberista non ritorni.

Berlusconi, e lo ha dimostrato fino all'ultimo, rappresenta
plasticamente quel che Gramsci definiva il sovversivismo delle classi
dominanti, non solo un'arrogante visione classista e padronale della
società. Quando si insediò cinque anni fa, intervenendo a nome del mio
Gruppo, ma anche in quanto operaio della FIAT, parlai di "apertura di
una vertenza" tra lavoratori e impresa (tra lavoratori e capo in testa
delle imprese italiane): quella vertenza, alla fine, l'abbiamo vinta noi.

Certo, non con piena soddisfazione. E qui sta un elemento di debolezza
dell'Unione. Non fu in grado il precedente Governo di centro-sinistra,
non è stata in grado l'opposizione in questi cinque anni di

scalfire, di rompere il blocco sociale del berlusconismo. E anche la
campagna elettorale e lo stesso programma dell'Unione hanno
rappresentato e rappresentano l'insufficienza allarmante della
coalizione vincente.

Lo smarrimento, a volte la frustrazione dei ceti subalterni, del nostro
popolo, signor Presidente, ad

esempio nelle Regioni del Nord operaio e industriale, delle mille
tipologie di lavoro in cui oggi è

frammentato, è qualcosa che si tocca con mano.

Questa situazione ci parla di obiettive difficoltà, ma anche di esigenze
e di lotte sociali non raccolte dall'Unione, incapace di dar loro sponda
e sbocco politico, sperando - in nome del moderatismo - che Berlusconi
cadesse come una pera matura.

Così, come il voltare le spalle in questi anni da parte di molti a un
movimento enorme che, dopo i tremendi attentati dell'11 settembre, ha
saputo indicare, in Italia e nel mondo, un'alternativa di speranza nella
sua radicale avversità a ogni guerra. Un movimento che ha esercitato
egemonia non solo nel nostro elettorato, ma anche nell'elettorato
dell'altro schieramento, che faremmo bene ad ascoltare tutte e tutti: in
grandi Paesi come la Germania e la Spagna ha deciso nettamente le sorti
dei Governi!

Lei, presidente Prodi, che è così attento ai fenomeni politici del
nostro tempo, guardi bene a questo strano animale che è il nostro
partito della Rifondazione Comunista (che io vorrei ancora più strano).
Noi abbiamo sviluppato una discussione sofferta, impegnativa; ci siamo
cimentati nel tentativo di riforma della politica (il cui declino ha una
similitudine ora solo con le tristi sorti del calcio); abbiamo tentato
di intrecciare, di rappresentare direttamente istanze dei settori attivi
della società.

Non è forse per caso che passiamo da tre a ventisette senatori e
senatrici: si tratta solo di una traccia di lavoro di cui noi stessi non
siamo ancora soddisfatti, ma per lo meno alludiamo a quei fermenti della
società che nessuno in questo Parlamento può eludere. Parlo di esigenze
non comprimibili, sociali, culturali e anche politiche: io rappresento
qui un'area, quella di sinistra critica del mio partito, che non ha
condiviso l'accordo programmatico per una nostra piena partecipazione al
Governo dell'Unione e sono qui a rappresentargliela, signor Presidente
del Consiglio, nel pieno accordo dei miei compagni e delle mie compagne.

La destra potrà gridare finché vuole che "noi siamo divisi su tutto e ci
unisce solo l'attaccamento alle poltrone", ma non è così: lor signori
sono l'impedimento alla democrazia e a una politica che serva alla
grande maggioranza della società; noi siamo al contrario una
possibilità, anche se solo una possibilità, di cambiamento, di decisa
inversione di tendenza. Quindi siamo un punto di partenza.

Usciamo, però, da una logica esclusivamente politicista. Lungi da me,
certo, pretendere che le istituzioni siano una fotografia sociologica
del Paese. Ma stiamo attenti anche all'espunzione totale, o quasi, di
intere fette della società (e questo riguarda tutto il Parlamento, non
solo una sua parte). Già milioni di migranti che lavorano, producono
ricchezza e pagano le tasse sono esclusi da qui per principio;
dell'assenza delle donne ormai se ne parla talmente da far risultare
fastidioso ogni riferimento all'argomento, anche se i nostri Gruppi di
Camera e Senato tentano, per quanto possibile, di spezzare la
discriminazione di genere e di orientamento sessuale che caratterizza,
purtroppo, il tradizionale ostracismo delle istituzioni nei loro confronti.

Ma dove sono rappresentate le istanze del lavoro dipendente, dei
precari, dei giovani, dell'ambientalismo? In una parola, le istanze del
conflitto sociale dove sono, dov'è la maggioranza

del Paese?

Per questo occorre un sovrappiù di attenzione altrimenti come potremo
affrontare temi come l'amnistia (cui lei ha fatto opportunamente
riferimento); non solo per i potenti, magari (che qui dentro ci sono) ma
per chi affolla le carceri o è perseguitato da assurdi procedimenti per
iniziative di lotta sociale? Oppure occorre consentirci di fare
chiarezza su sospensioni della democrazia, come nella "mattanza cilena"
avvenuta durante il G8 di Genova, su cui vorrei sentire da lei, signor
Presidente del Consiglio, nella sua replica, una parola a sostegno
dell'istituzione di una Commissione d'inchiesta.

Le isterie della destra forcaiola non si placherebbero andando nella
direzione da queste invocata, ma andando esattamente nella direzione
opposta, quella di una politica di pace, contro la guerra anche nel suo
"fronte interno", che avvelena tutta la società.

Le maggioranze non sono solo somme di ceti e burocrazie politiche, si
conquistano anche attraverso una "connessione sentimentale" col popolo.
E torno sul tema della guerra, che con grande ipocrisia mascheriamo
dietro la formula di "missione militare di pace": è una parte importante
della sua relazione, signor Presidente del Consiglio, e le devo dire con
franchezza che non mi convince. Il mio rifiuto delle missioni militari
in Afghanistan e Iraq è politico, è costituzionale, in primo luogo,
oltreché morale. Ma le decine di migliaia di morti, tanto terribili
quanto inutili e controproducenti (dato il fallimento prodotto:
basterebbe guardare quanto è accaduto nella giornata di oggi in
Afghanistan, 104 morti ammazzati), tutte queste situazioni di morte, che
coinvolgono, oltre agli abitanti, anche i soldati italiani, i nostri
civili, agenti come Nicola Calipari (vittima del cosiddetto fuoco amico,
che amico non è), creano una repulsione nella gente da cui si può
ripartire: a nessuno piace vedere rientrare bare avvolte nel tricolore,
a nessuno. "Non c'è una strada che porta alla pace, è la pace, la strada".

La fiducia che diamo al suo Governo, signor Presidente, è l'ultimo atto
necessario per cacciare le destre. I consensi il Governo non se li dovrà
guadagnare, ce li dovremo guadagnare da quella maggioranza della società
che non è qui e che, giustamente, non crede alla teoria dei "Governi
amici". Ed è questa una categoria che anche a me non appartiene, anche
se ho molto amici nel Governo (ma evidentemente non è la stessa cosa).
Non si tratta né di spostare più a destra o più a sinistra il suo
Governo, né di tirare lei per la giacca, da una parte o dall'altra.
Preferisco che invece che da un lato o dall'altro dell'emiciclo, noi
tutti guardiamo un po' più fuori di qui e in basso. E allora le pulsioni
alle convergenze politiciste, verso cui i poteri alti tentano di
spingere l'Unione, in una sorta di Grande Coalizione tutta all'interno
della propria maggioranza, saranno battute: è l'unica strada, mi creda,
per allungare la vita al suo Governo.

Noi non siamo qui per fare ricatti né intrighi di palazzo. Questo
costume non ci appartiene /(Richiami del Presidente)/. Noi siamo qui - e
concludo, signor Presidente - per porre concreti problemi sul tavolo
della politica, con la piena centralità del ruolo del Parlamento: ci
sarà quindi una battaglia politica senza deleghe in bianco, ma leale,
una battaglia politica nel nostro campo.

I migliori auguri di buon lavoro da una sinistra critica che a questa
battaglia si prepara. /(Applausi dai Gruppi RC-SE e Ulivo. Molte
congratulazioni)./