il manifesto - quotidiano comunista
Europa e guerra, le sfide di Atene
Bilancio positivo per la quarta edizione del Forum
sociale europeo. La massiccia presenza della
Turchia e dei paesi dell'est, la centralità
dell'Africa tra le cose più positive. Tra i dati
negativi, l'assenza delle sinistre socialiste
europee e della base sindacale. Sullo sfondo, la
possibile guerra all'Iran
Luciana Castellina
Atene
Quarta edizione dell'articolazione regionale
europea del Forum sociale mondiale ad Atene, dopo
Firenze 2002, Parigi 2003, Londra 2004: quale
bilancio?
Direi buono, ottimo e in qualche modo persino
inaspettato, il lavoro compiuto dagli ospiti
greci, pur più divisi a sinistra di quanto non si
verifichi in alcun altro paese (al punto che il
Kke, il locale Partito comunista, non un
gruppuscolo ma un partito di una certa forza,
rappresentato in parlamento da ben dieci deputati,
non ha partecipato, in odio al carattere a suo
parere troppo spurio e variopinto dell'arcipelago
dei movimenti protagonisti di questi eventi). E
così 218 seminari e 47 gruppi di lavoro sono stati
perfettamente organizzati, accompagnati da una
ricchezza senza precedenti di eventi culturali, il
tutto per 25.000 partecipanti registrati che hanno
affollato per quasi quattro giorni gli enormi
dismessi hangars e le adiacenti piste dell'ex
aeroporto di Glyfada. E come sempre la
straordinaria Babel, le centinaia di interpreti
professionisti ma qui volontari grazie al cui
massacrante lavoro nelle cabine è possibile
trasformare in ricchezza quello che altrimenti
sarebbe un insormontabile ostacolo, il
plurilinguismo, che in fondo aiuta a venire a
patti con le nostre diversità, a riconoscere
l'esistenza dell'altro. Questa volta ancora più
plurilinguismo del solito, per via della presenza
- nuova, in questa forma massiccia, per i Forum -
dell'est europeo, fino alla Russia, dei Balcani e
della Turchia (1.200 solo da questo paese pur per
tre quarti già asiatico). E così nell'agenda dei
prossimi mesi sono entrati per la prima volta
anche gli appuntamenti del movimento in Russia: a
San Pietroburgo, già dal 15 al 17 luglio prossimi,
in occasione del G8 che si svolgerà in quella
città.
Senza trionfalismi e pur scontando il carattere
anche un po' da fiera delle alternative che questo
evento acquista, mille gruppi e gruppetti, nuove e
vecchissime sigle tirate fuori dagli archivi della
storia, immarcescibili nei loro slogan (One
solution, revolution, suggerivano
confidenzialmente e suadenti, proprio al cancello
d'entrata, un pugno di teenagers alla ricerca di
un po' di consolante semplificazione). Un buon
Forum, dunque. Buono, innanzitutto, perché in
ognuno si impara e quanto si è imparato serve poi
a lavorare meglio quando si torna a casa. Sia
perché ci si impegna in azioni comuni a livello
sovranazionale, sia perché si porta dentro la
propria locale iniziativa il segno del mondo, cosa
assai utile a sprovincializzare le politiche
nazionali che nonostante il gran vociare sulla
globalizzazione affogano sempre più nel più
angusto localismo.
Ma buono anche perché, rispetto ai precedenti
Forum europei, la discussione è stata certamente
meno vivace, ma in compenso più costruttiva.
Frutto della importante novità che è emersa qui ad
Atene con evidenza: il processo di Porto Alegre
(ché di un processo si tratta) ha fatto maturare
una serie di «reti», alcune ormai consolidate
(quella sui migranti, sulla scuola) e altre nuove
(come quella sui servizi pubblici), che hanno
ormai stabilito contatti permanenti. Il Forum è
dunque per loro un appuntamento lungo un
itinerario che già vive di vita propria, il
momento di una riflessione che però si alimenta
tutto l'anno di esperienze comuni e comunque di
scambi.
Questo Forum di Atene è stato inoltre molto più
europeo degli altri che pur europei si chiamavano.
Voglio dire che ci si è occupati assai più di
Europa, nel senso di fare i conti con le
specifiche politiche dell'Unione, non solo il
generico «no» alla Costituzione, ma un impegno in
direzione di una proposta alternativa ( anche
questo frutto di un lavoro in rete che dura già da
mesi), così come nel contestare questa o quella
specifica direttiva (non solo la ormai famosa
Bolkestein, di cui peraltro senza questo movimento
nessuno si sarebbe nemmeno accorto, ma le
privatizzazioni, la liberalizzazione dei servizi,
ecc.)
Certo dal Forum emerge un'idea di Europa più vaga
che mai: non se ne disegnano i confini, né si sa
bene quale ruolo specifico le si vorrebbe
attribuire, né, se si considera una delle
possibili articolazioni della globalizzazione, e
se sì, quale dovrebbe esserne la dimensione, per
non diventare una sorta di zona di libero scambio
delle Americhe. Per amore di concretezza si
finisce infatti spesso per tralasciare un'analisi
generale che pur sarebbe indispensabile per dar
proprio più concretezza alle denunce e alle azioni
rivendicative. E così poco si sono analizzate le
conseguenze, nei paesi del centro Europa appena
entrati nell'Unione, del loro ingresso, così come
il senso dell'allargamento senza fine. Tutti
pronti invece a denunciare l'imperialismo di
Bruxelles e al tempo stesso a solidarizzare con
chiunque voglia tuttavia entrare nell'«attraente»
club dei ricchi (i turchi per primi). Ché così,
una bella torta, l'Unione appare alle periferie
marginalizzate.
Stranamente poco si è parlato dell'America Latina,
se non per cantarne le vittorie in qualche slogan.
Sebbene quel continente non fosse all'ordine del
giorno,quella esperienza vittoriosa ma anche molto
diversificata (da Lula a Marcos passando per
Chavez) qualche riflessione agli europei l'avrebbe
pur dovuta stimolare.
Grande merito, invece, aver dato centralità
all'Africa, continuamente dimenticata, e dove fra
l'altro si terrà, nel gennaio 2007, il prossimo
Forum sociale mondiale. A Nairobi, dal 20 al 25. E
questo forse per l'influenza di un massiccio
protagonismo che nei Forum, ma in questo in
particolare, hanno ormai le organizzazioni
religiose che si occupano di povertà, la Caritas
innanzitutto, presente qui con 70 sacerdoti, che
lavora a braccetto con i «Senza voce»,
radicalissima organizzazione francese, ed altre
simili.
Scarsa invece, e cioè diminuita rispetto al
passato, la presenza della sinistra politica,
scarsissima quella dell'Internazionale socialista:
il deputato Malechon, deputato del Partito
socialista francese ma, per esempio, nessun
diessino; qualche sezione giovanile, compresa
quella del Pasok, il partito socialista greco che,
pur essendo in politica internazionale fra i più
radicali, ha mandato al Forum che si teneva a casa
sua solo qualche quasi invisibile esponente. Il
movimento, certo, non è più all'apice della sua
mobilitazione visibile, attrae meno e assai poco
interessa il lavoro da formichine che conduce
giorno per giorno. La ribalta è meno illuminata: e
infatti neppure i giornalisti vengono più.
Presente, invece, e abbastanza largamente, sia
pure con vistose lacune (moltissimi invece dalla
Grecia) la rappresentanza sindacale, dall'Italia
persino la Cisl. Si tratta ormai di una costante
dei Forum, anche se va detto che la partecipazione
è generalmente ristretta agli stati maggiori, con
scarso coinvolgimento dei militanti di base. Vale
a dire che sentirsi parte, come sindacato, dei
movimenti della società civile è per ora più
un'illuminata intenzione che una realtà.
E' tuttavia anche per merito del sindacato che il
tema lavoro, assai poco presente nei primi
appuntamenti, ora ha occupato uno spazio
rilevante. Ovviamente, per via dell'età della
maggioranza dei partecipanti, soprattutto sotto
forma di precariato.
Stabilizzazione, dunque, e maturità, impegno
costruttivo. Ma in questo consolidamento si è
persa certamente la capacità di impatto politico
che il processo iniziato a Porto Alegre aveva
avuto all'inizio, quando aveva avuto il merito di
imporre all'agenda politica temi assolutamente
nuovi come gli effetti della globalizzazione, la
centralità della fino ad allora quasi ignota
Organizzazione mondiale del commercio. E la
guerra. Questi temi ci sono sempre, la guerra in
particolare ha richiamato, oltre alla grande
manifestazione di strada di sabato pomeriggio, una
grandissima partecipazione in tutte le assemblee
in cui se ne è parlato; e per l'ultima settimana
di settembre è stato rilanciato un comune impegno
di mobilitazione. Ma sulla guerra non si è
avanzato, anzi si sta perdendo sempre più: la
situazione in Iraq si incancrenisce, all'orizzonte
c'è lo spettro dell'Iran, per la Palestina si
stanno perdendo le speranze. E' difficile lottare
quando ci si sente impotenti.
I movimenti, non c'è dubbio, giocano un ruolo
minore rispetto a qualche anno fa quando sono
emersi e hanno indicato che una nuova generazione
cominciava nuovamente a ribellarsi al pensiero
unico. Hanno anche dimostrato i limiti della loro
influenza sulla società, basti pensare all'Italia
dove pure sono forti ma il 49 e più per cento ha
votato Berlusconi. Ma i movimenti si chiamano
movimenti perché si muovono: vale a dire crescono
e cadono, scorrono sottoterra come i fiumi
carsici, riemergono. Se conoscessero una crescita
lineare e una stabilizzazione non sarebbero più
movimenti. Magari diventerebbero partiti, come è
stato per i grandi movimenti nella storia. Questa
volta non è accaduto. Ma per favore non arricciate
il naso: sono tutt'ora una forza preziosa, un
pezzo di società civile che ha trovato le proprie
forme di espressione e in generale svolge oggi una
funzione assai migliore di tutte le forze
politiche