[NuovoLab] Folena: Il Socialismo del XXI secolo

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Szerző: brunoa01
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Il socialismo del XXI° secolo

Sabato e domenica si è tenuta una splendida assemblea verso la formazione del nuovo soggetto politico, la sezione italiana della Sinistra Europea. Qui vi propongo il testo della mia relazione.


1.Le millecinquecento parole
“La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza” sono i tre slogans del partito unico che col controllo totale di Oceania domina 1984 di George Orwell. “La stessa parola guerra è divenuta equivoca –commenta Syme, il curatore del dizionario della neolingua-. Sarebbe probabilmente esatto dire che, una volta diventata continua, senza più interruzione, la guerra ha cessato propriamente di esistere”. Syme oggi lavorerebbe per Wolfowitz. Ma questa poderosa opera ideologica e linguistica –che consiste, per dirla con Syme- nel distruggere centinaia di parole ogni giorno, nel ridurre la lingua all’osso, e con essa lo spirito critico, ha nella realtà scavalcato le previsioni fosche del capolavoro di quel grande autore, comunista e libertario. Don Lorenzo Milani qualche anno dopo Orwell affermava che il divario da colmare tra il padrone e l’operaio era tra chi possedeva 1500 parole e chi, invece, 150. Oggi si parla di digital divide.
Il manifesto di Pera –a cui ha risposto con un bel testo Liberazione- annuncia una stagione lunga in cui in una forma ideologica carica di aggressività sconosciuta in Europa dalla liberazione dei campi di sterminio nazisti si manifesta la destra neoreazionaria.
Al centro dell’Assemblea di oggi e di domani c’è una proposta di dichiarazione comune per dare vita, nei prossimi mesi, alla Costituente di una nuova soggettività politica, la Sezione Italiana della Sinistra Europea. Una proposta, frutto del seminario del 22 dicembre, dei gruppi di lavoro che lì si sono formati, e che hanno incaricato chi vi parla e Vittorio Agnoletto di predisporre una base che poi è stata da quei gruppi esaminata e già largamente modificata, di un’opera itinerante che ha già visto aggregarsi o formarsi più di 70 associazioni e realtà collettive, nascere l’idea di un forum tra di loro, e centinaia di individui che hanno dato vita a una loro associazione, e che nei tre mesi di lavoro che abbiamo alle spalle ha conosciuto iniziative programmatiche e culturali di grande rilievo.
L’Assemblea odierna, che accompagna la grande mobilitazione europea contro la guerra e per la pace, e a cui parteciperemo coi nostri valori e le nostre pratiche di nonviolenza, si configura come il momento redigente della proposta di testo fondamentale –la nostra costituzione- che nei prossimi mesi, dopo le elezioni, veda un vero e proprio processo democratico dal basso, con assemblee, forum, proposte, emendamenti, testi che confluiscano nell’Assemblea Costituente della Sezione Italiana, da tenere –questa è la nostra sollecitazione- prima dell’estate.
Cominciamo da qui –e non dalle regole interne- perché vogliamo praticare una modalità consapevole che i mezzi determinano i fini. Discutere delle parole, e delle azioni che ad esse si riferiscono, è il fondamento di un processo inclusivo che, consapevole della necessità di cui parlavamo il 22 dicembre di “andare lenti, perché abbiamo fretta”, non anteponga modelli organizzativi, statuti, assetti di potere, organigrammi. A modelli, pratiche, modalità realmente democratiche, circolari, partecipative si dovrà andare, perché nell’informalità si nascondono forme nuove di élitarismo e di esproprio della possibilità di decider,e perché non esiste soggettività politica che non si ponga il problema della propria organizzazione. Michele De Palma parlerà delle idee che ci siamo scambiati su questo aspetto, ma la loro definizione è in itinere, una cosa sola col percorso che porta alla Costituente.
E lo facciamo nel cuore di questa strana, per molti versi brutta –perché occulta la vita delle persone- campagna elettorale. Lo facciamo sapendo che l’Unione siamo noi –non solo noi, ma noi con i nostri valori l’abbiamo voluta e forgiata-, che battere le destre è un dovere repubblicano, e che la sfida perché l’Italia cambi davvero è il problema che ha di fronte una sinistra davvero nuova. Oggi noi diciamo anche una terza cosa: costruiremo sicuramente, con un processo certo, delle date che fisseremo insieme, quel grande appuntamento democratico dal basso che milioni di donne e di uomini attendono, quello della prima sinistra del XXI° secolo.

2.Una piazza senza proprietari
Una dichiarazione comune, quindi, sotto forma di lettera a quelle donne e a quegli uomini che condividono l’idea che la politica sia una piazza senza proprietari.
“Il punto vero su cui da Genova in poi ci siamo incontrati –dicemmo a dicembre- è il rovesciamento di un’idea del potere: dalla conquista del potere alla cessione del potere.”
I nostri interlocutori sono fuori dal Palazzo. Sono quelli dei Quartieri Spagnoli di Napoli di cui efficacemente ci ha parlato al Quirino un compagno. Sono gli operai e le lavoratrici migranti rastrellati sui posti di lavoro per aprire il CPT di Bari. Sono il giovane su due, il doppio rispetto al 2001, che lavorano in modo precario, di cui ci ha parlato ottimisticamente Bankitalia. Sono i lavoratori e le lavoratrici cui l’impresa ha espropriato tempo di lavoro e tempo di vita, per cancellarne la soggettività di classe lavoratrice. Sono le donne offese dalla categoria dei Berlusconi e aggredite nella propria autodeterminazione dai neoreazionari e dalla logica del mercato e dalla violenza proprietaria e maschilista, spesso chiusa nelle mura della famiglia, cieca contro i bambini. Sono i pendolari dei treni, le vittime delle liste d’attesa nella sanità, i derubati nel libero mercato degli affitti dalle immobiliari. Sono gay, lesbiche, transgender che soffrono per abbattere barriere e conquistare diritti. Sono le donne e gli uomini che nelle comunità cercano di difendersi dal liberismo, dall’inquinamento, dalle malattie provocate dallo sviluppo.
Potremmo proseguire. Se la politica ha divorziato dalla vita, aprendo un gigantesco vuoto, è la vita di una maggioranza di donne e di uomini il fondamento della nuova politica. O saremo lì, con i nostri corpi, le nostre ragioni, i nostri sentimenti, o la grande incertezza e il grande disagio –la ricerca di senso che la crisi di questa civiltà ha prodotto- cercheranno risposte nella violenza, nell’odio, nel gruppo chiuso, in un far west –sì: far west, occidente lontano, altro che occidente superiore- in eterna guerra con l’altro e quindi con sé stesso. I senza potere, i sans papier, i senza cittadinanza, i senza democrazia, gli invisibili, i “sempre umili” raccontano, oggi, la classe. Non la classe come omogenea condizione di spoliazione nell’impresa: c’è, ed è nel cuore della nostra visione. Ma la classe come sentimento, come percezione di sé, come consapevolezza dela carattere molteplice ma unitario di una condizione. La classe come moderno quarto stato. In una piazza senza proprietari, sì, ci possiamo incontrare, capire, ascoltare.
La Francia degli studenti, in queste ore, racconta dell’insorgenza consapevole –come quella delle banliueus di un’insorgenza rabbiosa e inconsapevole- contro la precarizzazione e il liberismo.

3.Riformatori, non riformisti
Riccardo Lombardi, nel 1967 –polemizzando da riformatore coi riformisti del suo partito- scriveva, a proposito del tema che è nel cuore del nostro progetto: “il reperimento delle forze vitalmente interessate alla trasformazione, che non necessariamente coincide con le esigenze dei partiti, è un’opera che dobbiamo cominciare a fare, un’opera di chiarificazione all’interno di ciascun partito, compreso il partito comunista, dove ci sono riformatori e ci sono riformisti almeno quanti ce ne sono fra di noi; all’interno del movimento cattolico; all’interno di tutte le correnti che esprimono i bisogni dei lavoratori”. Non saprei dirlo meglio ora. E ancora Lombardi concludeva dicendo che “è un’operazione –quella dell’aggregazione delle forze che vogliono la trasformazione sociale- che si può non fare, ma allora bisogna sapere che il prezzo che si paga è quello di consolidare in Italia una politica conservatrice, moderata, riformista, che soddisfi alcuni bisogni, ma che non cambi sostanzialmente la natura del sistema”.
Il nostro compito ora è aggregare tutte le forze riformatrici, interne ed esterne ai partiti della sinistra, protagoniste da Genova in poi del movimento dei movimenti, che si pongono in termini nuovi e radicali il tema della trasformazione della società e del mondo. I mesi hanno dato ragione alla scelta che Rifondazione, e altri compagni di strada come chi vi parla hanno fatto, di proporre un percorso diverso rispetto a quello volto a unire, o federare dall’alto i partiti di sinistra così come sono. Alcuni di noi hanno dato vita a una rete, Uniti a Sinistra –che ha chiesto di divenire osservatore del Partito della Sinistra Europea- , che non a caso si chiama così: perché oggi il tema dell’unità a sinistra non è quello dell’unità della sinistra che c’è, ma di un programma fondamentale, di una visione della società, di un’istanza, direi lombardianamente, riformatrice e non riformista.
Lo spazio pubblico della politica, e quindi di quest’impresa è europeo e globale. Scriviamo nella proposta di Dichiarazione Comune che “l’Europa è divenuta lo spazio minimo di intervento per la trasformazione, per le lotte, per i movimenti”.

4.Un nuovo partito europeo e globale
La base della costituzione della Sezione italiana del Partito della Sinistra Europea, e quindi della nostra Dichiarazione comune, sono i documenti approvati a Roma nel 2004 e ad Atene nel 2005 dai Congressi della Sinistra Europea.
Il movimento altermondialista ha aperto in questi anni una fase nuova: ha svolto una critica radicale al neoliberismo e ai suoi meccanismi di regolazione e ha dato una nuova possibilità di iscrivere le singole lotte dentro un processo generale di cambiamento. La mondializzazione effettiva del WSF, culminata negli appuntamenti di Bamako e di Caracas, dà il senso –per citare due esponenti finlandesi del movimento, Patomaki e Teivanenì- della dialettica tra uno spazio e un movimento. “Il WSF, scrivono gli autori, potrebbe essere concepito come un parlamento, nell’originario senso latino del termine” e, ancora si domandano: “potrebbe diventare un partito politico globale, o dovrebbe facilitare la creazione di organizzazioni politche tipo-partiti a livello globale?”
La nascita nel 2004 del Partito della Sinistra Europea si inserisce in questo contesto. La sua evoluzione in questi anni –basti pensare al successo della Linke tedesca-, che fa del rapporto con il movimento dei movimenti e dell’innovazione di cultura politica da esso prodotta, il discrimine della sua identità, è un abbozzo di risposta a quegli interrogativi.
La domanda di democrazia e di partecipazione, che ha messo in discussione le forme gerarchiche e autoritarie della politica e del potere, ci fa pensare che è giunto il momento che in Italia, a partire da una generazione di giovani e di ragazze lontani dalle vecchie ritualità della politica, si costruisca il primo soggetto europeo, attraverso la formazione della Sezione Italiana del Partito della Sinistra Europea.
Proponiamo un nuovo modo molteplice di stare assieme: partiti comunisti che hanno praticato un’innovazione politica di sinistra, soggettività politiche della sinistra socialista e laburista che vogliono andare oltre le esperienze socialdemocratiche, forze sindacali che hanno praticato esperienze nuove di conflitto e di relazione con i lavoratori, esperienze del femminismo, dell’ambientalismo critico, dei movimenti dei diritti civili e delle libertà contro la repressione e il proibizionismo, cristiani che dalle proprie ragioni di fede traggono motivi di radicale impegno sociale, comitati delle mille vertenze locali, dell’acqua, del territorio e così via, i movimenti impegnati sul fronte della cultura, della libertà di espressione, della conoscenza come bene comune, realtà del volontariato impegnato nella solidarietà e nella cooperazione, il nuovo movimento pacifista, movimenti della varie pratiche della disobbedienza e del conflitto sociale, possono unirsi in un progetto comune che parta dal riconoscimento delle differenze e del rispetto dell’autonomia e dell’identità di ciascuno.

5.Per un socialismo del XXI° secolo?
Il fondamento culturale di un’impresa di questa portata rappresenta un problema complesso, grandioso e assolutamente irrisolto. Dico subito che una delle idee feconde nate in queste settimane è quella di darsi un luogo di ricerca e di pensiero comune per tutte le esperienze che si federano e riuniscono nella Sezione Italiana. Un luogo che, come l’esperienza di Transform ci propone, metta in relazione saperi, inchieste, differenze: alimenti la conoscenza della realtà per dare all’azione volta a trasformarla forza ed incisività. Potremmo pensare a raccordare Alternative, altre riviste, centri culturali, e a un sistema nazionale di scuole di nuova politica.
Ad Atene, all’ultimo congresso della Sinistra Europea, dopo una discussione non facile, la parola “socialismo” è ricomparsa nei documenti ufficiali. Si pongono due problemi. Il primo riguarda l’usura che, per ragioni diverse, il termine socialismo ha avuto, fino ad un vero e proprio black-out nelle coscienze giovanili. Il secondo la consapevolezza che –pur essendo attuale il richiamo al socialismo come esperienza storica- nuovi problemi, e nuove culture si presentano, e sembrano andare oltre questa parola, o almeno le sue accezioni prevalenti. Nel WSF, fino a Caracas, e alle posizioni di Chavez, questa questione sembrava fuori dall’orizzonte. Ora si parla invece, pur con accenti diversi, di “socialismo del XXI° secolo”. La mia cultura mi porterebbe a riproporre, non fosse altro che per la radice di questa parola, la questione. Abbiamo bisogno di idee positive, il cui etimo sia chiaro. Nel documento costitutivo della rete di Uniti a Sinistra, pur con grande problematicità, si scrive: “per ora, in questa ricerca, ci limitiamo a indicare la strada di un socialismo radicalmente democratico, europeo e globale nei suoi strumenti, come alternativa”.
Ma il processo che stiamo avviando dev’essere talmente inclusivo e partecipe da definire prima la cosa –per parafrasare una vecchia discussione- e poi il nome. Ciò che davvero è esaurito è il socialismo riformista, incapace di fare i conti con questo mondo. “Nessuno può credere –è ancora Lombardi che scrive- che il problema del benessere sia solo un problema di ripartizione. I socialisti vogliono la società più ricca perché diversamente ricca: è il tipo di benessere, il tipo cioè di consumi ch noi vogliamo cambiare…”. Berlinguer, dieci anni dopo, poneva la stessa questione. E ora, quarant’anni dopo Lombardi e trenta dopo Berlinguer, la questione ha assunto una rilevanza globale e non rinviabile. La dichiarazione propone molti nostri “vogliamo”. Con l’assemblea odierna formiamo cinque gruppi di lavoro, che discuteranno per blocchi di questioni dei “vogliamo”, e che saranno tra gli animatori della fase costituente. Qui mi voglio soffermare su alcune parole fondamentali che definiscono il nostro progetto di società.

8. Le nostre parole: lavoro
Conosco l’obiezione: il lavoro – meglio: i lavoratori – sta a fondamento della sinistra del Novecento. Anche nella sinistra “radicale”, la “fine del lavoro” ha prodotto l’idea che ci si debba occupare più degli aspetti complessivi della vita delle persone che di ciò che esse fanno quando lavorano. Questa visione accomuna i “liberal” del partito democratico a settori radicali, anche estremi, della sinistra. Dalla centralità del lavoro a quella del consumo. Mi chiedo però: non c’è anche qui un rischio di scivolamento della teorizzazione e della pratica politica sul terreno del neoliberismo? Quale trasformazione sociale si può intravedere nell’accettazione dei “nuovi lavori” e nella conseguente rivendicazione di misure di welfare adatte a sostenere questo mercato del lavoro? Non è forse più “alternativo” l’obiettivo di cambiare le regole del mercato del lavoro, affinché lo sfruttamento sia ridotto “a monte” e ridare al lavoro quella funzione di emancipazione che ha posseduto del secolo scorso, come del resto si propone il programma dell’Unione? Certo, confrontandosi con le trasformazioni del “modo di produzione capitalistico” introdotte dal neoliberismo e soprattutto dalla rivoluzione informatica. Ciò che non si può accettare è semplicemente l’idea che il capitalismo ha fatto questa rivoluzione e noi, la sinistra, la si debba accogliere così com’è. Al contrario, come accadde per il movimento operaio – iniziato con le associazioni operaie di mutuo soccorso – , anche il movimento contro la precarietà sta spostando la sua attenzione dalla lotta “fuori” dalla dimensione lavorativa a quella “dentro” il lavoro. E’ necessario il salario di cittadinanza. Ma sarebbe controproducente “scambiarlo” con l’accettazione della flessibilità. Il tempo di vita, la qualità del lavoro, che è una attività che tende ad occupare sempre più ore della giornata, non può essere “monetizzato”. Occorre invece riprendere in mano la bandiera dei tempi di vita e di lavoro.
La flessibilità non può essere quella del lavoratore. Semmai deve essere quella dell’impresa. Se c’è qualcosa di ingessato, in Italia e in Europa, non è il mercato del lavoro, ma sono le produzioni. Sono proprio le imprese quelle più restie ai cambiamenti. Il costo di questa “rigidità” viene fatto pagare ai lavoratori: per rimanere competitivi si abbassano salari e livelli di tutela. La logica va ribaltata: più diritti e più tutele per i lavoratori, più innovazione nelle imprese. Meno finanziarizzazione, attraverso la leva fiscale che colpisca i guadagni speculativi, profitti meno eclatanti, maggiore investimento sulla ricerca e maggiori salari.
Ridare dignità e funzione sociale al lavoro, quindi, strumento di fuoriuscita dalla povertà e di eguaglianza. Ecco cosa significa “centralità del lavoro”, in contrasto a questo modello di organizzazione del lavoro. E in questo contesto il salario di cittadinanza è una forma di redistribuzione che può essere “individualizzata”. Chi ne usufruirà con un assegno, perché ancora alla ricerca di un lavoro, chi lo riceverà in termini di servizi, di formazione continua, di cultura, di connettività alla rete, persino – perché no – di svago.
Il mondo del lavoro (e quello del non-lavoro e del precariato) rimane quindi centrale anche nella globalizzazione. Ciò che è cambiato, soprattutto, è che lo sfruttamento non avviene più a livello di singola fabbrica, di singola azienda, di singolo paese, ma su scala globale.
In questo senso consideriamo condizione decisiva per la democrazia e per il miglioramento nel rapporto con il lavoro per ogni uomo e ogni donna, la possibilita’ dei lavoratori e delle lavoratrici di esercitare insieme il ruolo di soggetto collettivo.
La democrazia e la sua crisi sono oggi un nodo centrale. La democrazia dei lavoratori e delle lavoratrici è elemento fondante della democrazia in generale. Un modello sociale ed economico in grado di consentire una dialettica democratica, rispetto agli sviluppi della societa’ comporta che nei propri connotati vincolanti e strutturali vi sia la piena assunzione del riconoscimento dell’autonomia del punto di vista del lavoro rispetto al capitale, e quindi il riconoscimento delle soggettivita’ dei lavoratori e delle lavoratrici e della necessita’ che queste possano esprimersi nei termini di soggetto collettivo. La riunificazione del lavoro richiama pertanto sia un problema di organizzazione, rappresentanza, forme e pratiche sindacali e politiche, sia contemporaneamente il problema delle caratteristiche strutturali del modello sociale ed economico. È centrale e vitale per la stessa democrazia la possibilita’ per i lavoratori e le lavoratrici insieme di esercitare potere sui processi di trasformazione.

6.Pace e nonviolenza
Pace e non violenza sono altre due parole utili. Il movimento operaio, e i partiti nati da esso, sono sempre stati “pacifisti”, almeno negli intendimenti. “La pace ai popoli” faceva scrivere sui muri Lenin. Ma “pace” a volte ha significato qualcosa di non molto dissimile dal “deserto” di Tacito. Non solo per il comunismo sovietico: le stragi in Algeria ordinate dal governo della Sfio o la conquista militare dell’Iraq in cui il governo laburista inglese ha avuto tanta parte, non sono accidenti della storia o “deviazioni” da una retta via. Comunisti e socialisti hanno da rimproverarsi un passato fatto anche di atrocità. Queste atrocità hanno una radice comune: l’idea che la violenza sia un mezzo legittimo di conquista e mantenimento del potere. Questo non ha nulla a che vedere con la necessità storica, a volte, di imbracciare le armi contro una sanguinosa dittatura, come accadde in Italia sotto il nazifascismo. Ha invece molto a che fare con l’idea che la violenza e la guerra siano a volte necessarie per mantenere l’ordine. Che “l’uso della forza”, sebbene definito come extrema ratio, sia utile a esportare la democrazia. Sono preferibili i vecchi conservatori che finanziavano Saddam Hussein o i nuovi, quelli che lo hanno abbattuto? La risposta è facile: sono gli stessi, che ora si occupano dell’Iran, dopo averne apertamente favorito l’involuzione teocratica. Gli stessi interessi, le stesse lobby e persino le stesse persone. L’inganno mediatico e la demagogia della “libertà” da portare ai popoli oppressi ha funzionato anche a sinistra.
In realtà il tema è come rendere la guerra e la violenza un tabù. Il nuovo socialismo è nonviolento nel senso che non pensa che esista una élite (una classe generale, una classe dirigente, una avanguardia proletaria o borghese) legittimata a usare la forza per conquistare il potere o mantenerlo. Pensa al contrario che il problema non sia la “conquista del potere” ma la sua cessione. Dalle classi privilegiate a quelle subalterne. Dallo Stato alla società. Nonviolenza, quindi, come nuovo paradigma che cancella la dittatura del proletariato (il “peccato originale” che ha reso possibile lo stalinismo nel mondo comunista) ma anche l’atteggiamento “benevolo” nei confronti della guerra nel campo socialista, a volte manifestatosi in forma neutralista, come nel caso della Seconda internazionale, altre volte apertamente interventista.
Sentiamo sempre più la bruciante attualità delle domande di Aldo Capitini: “noi vogliamo una società di tutti, e cominceremo con l’ammazzarne migliaia? Vogliamo una società amorevole, e cominceremo col coltivare e stimolare odio? Vogliamo una società libera, e aumenteremo la tirannia e l’assolutismo? Vogliamo un fine buono e pulito, e useremo mezzi sporchi e terribili?”. Ed è Danilo Dolci a ricordare il proverbio americano che dice “se hai un martello, il mondo si presenta come un chiodo”. “In altre parole: se hai un esercito, tutti i problemi diventano militari”.

7.Genere e diritti
La questione di genere e la teoria e la pratica di diritti civili e della persona che ha contribuito a suscitare fuoriesce dall’orizzonte del vecchio pensiero comunista e socialista, e fa entrare nella storia il corpo, la persona, i sentimenti. Mette in discussione una nozione di economia e di politica.
Ci impegnamo a far conoscere, valorizzare e sostenere i grandi processi di liberazione umana che in tutte le parti del mondo vedono protagoniste le donne, protagoniste oggi come non mai delle grandi sfide a cui l’umanità deve rispondere per fronteggiare la crisi di civiltà che viviamo. L’autodeterminazione delle donne, il loro diritto ad una maternità libera e consapevole, l’opposizione all’assalto mercantile e maschilista al loro corpo sono parte integrante di rapporti tra i due generi ispirati all’equità, alla solidarietà e alla condivisione. La lotta contro la violenza che le donne, e i bambini subiscono nelle mura domestiche deve avere lo stesso rilievo che ha avuto nella Spagna di Zapatero. Abbiamo il compito, senza laicismi indifferenti che non ci appartengono, ma in nome dei nostri valori di vita e di giustizia, di contrastare quella gigantesca doppia morale che ci consegna l’Italia delle destre.
Ma il pensiero delle donne ha prodotto la novità più significativa sul terreno di un’ìidea di libertà. Ci impegnamo a porre al centro della nostra azione politica la coniugazione tra diritti individuali e diritti collettivi, tra diritti civili e diritti sociali come migliore sintesi delle culture progressiste del novecento. Ci impegnamo a rimuovere ogni ostacolo ogni discriminazione nella vita degli individui, a cominciare da quelli che sorgono in ragione dei propri orientamenti sessuali. Ci impegnamo a superare ogni barriera materiale e immateriale che impedisce ai diversamente abili, agli anziani, alle persone sole di essere cittadini. Ci impegnamo a contrastare ogni proibizionismo e ogni atteggiamento repressivo e illiberale nei confronti dei liberi comportamenti individuali.

8.Beni comuni e altra economia
Oggi la partecipazione dei cittadini nell’economia si traduce nella gestione partecipata dei beni comuni. Questo, credo, è il paradigma economico più innovativo partorito dal movimento. I beni comuni (l’acqua, l’atmosfera, il territorio, l’energia, la conoscenza, la sicurezza sociale….) sono il tema economico per un nuovo socialismo. Preservare i beni comuni dal mercato è l’urgenza di questi anni, sotto la pressione degli accordi commerciali internazionali (Gats) che impongono privatizzazione nei servizi, culminata nell’accordo consociativo tra una maggioranza di socialisti e di conservatori al PE sulla Bolkestein, che noi contrastiamo con fermezza.
I beni comuni, però, non sono solo l’urgenza contingente. Definire alcuni beni materiali e immateriali come “comuni”, vale a dire di tutti, e quindi non privatizzabili (“privato” è participio passato del verbo “privare”), significa porre dei limiti oltre i quali il mercato non deve spingersi. Significa – lo dico mutuando un’espressione berlingueriana – introdurre degli elementi di socialismo nell’economia di mercato. Riproporre quindi, in forme nuove, non stataliste ma partecipative, il modello dell’economia mista che ha fatto del Novecento il secolo socialdemocratico. I beni comuni, insomma, non come un “residuo” ideologico, ma come elemento costitutivo di una diversa idea dell’economia. Tra i beni comuni l’acqua assume un valore simbolico fondamentale. “L’acqua non è una merce” è uno slogan con significato che va oltre la battaglia contro la privatizzazione degli acquedotti e delle aziende municipali operata anche da amministrazioni di centrosinistra. Siamo in presenza di una politica, quella della privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni che non ha precedenti e che sta producendo ovunque nel mondo maggiore povertà, più insicurezza, meno salute e in alcuni casi persino la disperazione e la morte. Questa della privatizzazione dell’acqua è la più disastrosa delle misure che la globalizzazione – per meglio dire: la globalizzazione guidata da Wto, Fondo monetario e Banca Mondiale – ha introdotto. Non che agli albori del pensiero liberale e liberista fosse così chiaro che l’acqua può essere considerata una merce come altre. Per Adam Smith l’acqua aveva un valore d’uso – elevatissimo – ma nessun valore di scambio: “Nulla è più utile dell’acqua” – scriveva Smith – “ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa, difficilmente se ne può avere qualcosa in cambio”. Invece poi l’acqua è divenuta una risorsa rara, sempre più rara. E quindi appetibile per il mercato. Ma l’acqua non è davvero una merce. E’ un diritto. E nessuno può esserne “privato”. La sua gestione deve rispondere a criteri pubblici, non solo e non tanto nel senso della proprietà pubblica delle risorsa e delle infrastrutture che la portano nelle nostre case, nei campi, nelle fabbriche. Non è un caso che, grazie alla forza di queste convinzioni e dei movimenti che le propongono, il programma dell’Unione propone un’inversione a U su questo punto.
Ma qui c’è una parte del problema. Ma il tema è la sua gestione partecipata, la possibilità cioè che i cittadini possano mettere bocca nelle decisioni delle aziende, degli organi di controllo, delle istituzioni pubbliche demandate a gestirla. Questa è una nuova idea di pubblico che non vuol dire più semplicemente “statale” o “comunale” ma assume un’accezione più generale. Un’accezione “socialista”, sempre usando il termine nel significato di “cessione di potere verso la società”.
L’altro grande “bene comune” oggi in pericolo è la conoscenza. Non parlerò qui della scuola, dell’università e della ricerca, terreno privilegiato, in Italia, in Francia, in Europa, dello scontro. Voglio riferirmi a varie forme giuridiche (brevetti, copyright, diritto d’autore sempre più omnicomprensivo e duraturo nel tempo) con cui si stanno mettendo in pericolo i fondamenti della ricerca scientifica e tecnologica, della cultura popolare, della letteratura, di ogni forma di ingegno. Oggi si può impedire di regalare un libro, se questo è un libro elettronico. Si può impedire di regalare un film, se è in formato digitale. Sembra un’inezia, ma pensate a cosa ha significato il prestito di libri (in forma privata ma soprattutto in forma pubblica, attraverso le biblioteche) per la diffusione della cultura e per l’alfabetizzazione. Oggi il sapere è una merce, come le altre. Si paga per entrarne in possesso. Se è in formato digitale, si può impedirne la diffusione. In Europa e negli Usa con le direttive Eucd e la legge Dmra questa possibilità è stata codificata tutelata sul piano penale. Con i brevetti sul software si chiude con un chiavistello la possibilità di utilizzare nuovi algoritmi, che altro non sono che una forma particolare di rappresentazione della logica e della matematica. Domanda: se Einstein avesse potuto brevettare le sue formule oggi avremmo i laser, gli acceleratori di particelle, tutte le applicazioni nelle quali la relatività ha un ruolo fondamentale? No, tutto ciò avrebbe subito un ritardo di almeno 20 anni, tanto dura il brevetto. E fin qui siamo nel campo del non necessario per vivere (anche se sfido qualunque “riformista” attento alle esigenze delle multinazionali della conoscenza a rinunciare al progresso). Ma con i brevetti sui farmaci si impedisce a milioni di persone di curare l’Aids. Si nega cioè la vita in nome della tutela della “proprietà intellettuale”. Qual è il diritto prevalente? La risposta per ognuno sarebbe la vita. Per il neoliberismo no, è la proprietà intellettuale. Che sinistra è quella che, anche di fronte a questo dramma, non si pone il problema del cambiamento di paradigma.

10.“Cessione del potere” , come antidoto anche alla violenza, è quindi un cardine della nostra visione, direi quasi la sua definizione: cedere il potere alla società. Significa assumere in modo radicale l’idea di democrazia. Liberarsi di ogni tentazione di separazione tra governati e governanti, tra ceti dirigenti e popolo, tra avanguardie e masse. Si è dato un nome, democrazia partecipata, all’idea che, oltre alle istituzioni rappresentative dello Stato, esistano altri luoghi di confronto e di decisione. Che il governo di cui si dota un popolo per assicurare i diritti inalienabili di ciascuno (prendo volutamente e provocatoriamente a modello la definizione della Dichiarazione di Indipendenza americana), non è fatto solo dagli organismi dello Stato ma da una rete di autonomie nella società stessa. In parte le istituzioni locali possono svolgere un ruolo del genere. Ma non sono affatto sufficienti, così come sono. Dalla municipalità di Porto Alegre si è diffusa la pratica del bilancio partecipativo che fa decidere ad assemblee aperte, popolari, parte della destinazione dei fondi a disposizione dell’amministrazione. E’ un’esperienza che è arrivata anche in Italia e attuata da diversi comuni, circoscrizioni, e che si sta sperimentando persino a livello regionale, grazie a noi, nel Lazio. Non è poca cosa: le giunte, i consigli, si privano di una fetta di potere e la cedono ad altri, alla società: associazioni, comitati e persino singoli cittadini. Una fetta di potere, peraltro, che attiene al denaro. In alcuni comuni si sta sperimentando il metodo partecipativo per la definizione del piano regolatore urbanistico, che rappresenta forse l’atto più importante di una amministrazione cittadina.
Buone pratiche, esempi che si diffondono. Anche le primarie sono una cessione di potere. Sono gli elettori a decidere chi è il candidato. Non riesco davvero a comprendere la sufficienza (a volte l’avversità) con la quale una parte della sinistra ha accolto le primarie. Intanto per motivi, diciamo, “pratici”: in Puglia senza primarie avremmo avuto un candidato debole e moderato, invece è stato nominato e poi ha vinto un candidato forte e radicale; in Sicilia, senza le primarie, Ds e Margherita avrebbero, nella migliore delle ipotesi, ripescato un dirigente onesto della Dc o del Pri, ma poco rappresentativo dell’esigenza di cambiamento in quella regione. Sul piano nazionale senza le primarie Romano Prodi sarebbe stato solo un “indicato” dai partiti, che certo non godono di grande stima da parte degli elettori. Sottoposto ai ricatti di una classe dirigente che ha già dimostrato di essere inadatta a guidare il centrosinistra e che oggi gode di una rendita di posizione data dagli errori dell’avversario, molto più che dai suoi meriti.
Ma insisto: c’è una argomentazione profonda, quella della partecipazione popolare, che rende le primarie “all’italiana” una pratica profondamente innovativa e democratica.

11.Per nuove pratiche della politica: l’inchiesta
Assumere un’idea radicalmente democratica, dai lavoratori che votano nella fabbrica ai cittadini che scelgono i candidati, impone di praticare strade e cammini impegnativi e faticosi. La politica come casta privilegiata e separata esclude e allontana. La pluralità di canali di accesso alla Sezione Italiana della Sinistra Europea –il partito, le sue componenti; altri partiti o aree di partiti che aderiscano a questo programma; gli aderenti individuali, con la loro associazione; le associazioni collettive; le forme comuni di rappresentanza- dev’essere intesa come sperimentazione di molteplicità, incontro e contaminazione di differenze, moltiplicazione delle possibilità che tutte e tutti, a partire da chi ha di meno, dagli invisibili, dai senza cittadinanza, possano agire politicamente. Se il ventennio turbocapitalista è stato segnato da un massiccio processo di privatizzazione della politica, di riduzione della democrazia, di intreccio tra economia, affari e esercizio di funzioni politico-istituzionali, il ciclo in cui stiamo e a cui intendiamo partecipare con questo progetto dev’essere segnato da una pubblicizzazione della politica, bene comune per eccellenza, dall’allargamento della democrazia in spazi sconosciuti nelle democrazie occidentali, dalla messa in discussione di quella che Carta ha chiamato la “zona rossa” dei partiti, Giulio Marcon la loro “monarchia”, altri la loro“poliarchia”. La nuova legge elettorale, dopo i vizi di personalizzazione sfrenata delle precedenti norme, consegna un potere assoluto ai vertici dei partiti, ne accentua la separazione.
Il problema è duplice: come altri soggetti, fuori da quelli della rappresentanza politica, acquisiscono diritti e strumenti oggi riservati ai partiti; ma anche come i partiti, o comunque vorremmo chiamare le forme della rappresentanza politica, mutano geneticamente, si rifondano su grandi opzioni ideali, operano una rivoluzione democratica e una cessione di potere alla società.
Per questo –sull’onda della bella esperienza delle primarie per Bertinotti- pensiamo che la fase costituente dei prossimi mesi, e poi il nostro lavoro, si devono fondare sulla pratica dell’inchiesta. Le nostre associazioni, i circoli di partito, i gruppi che fanno riferimento alla nostra galassia devono ripensarsi con questo obiettivo: accanto al questionario e alla registrazione di opinioni sarebbe straordinario documentare, con le piccole telecamere digitali, un viaggio nell’Italia di oggi, una nostra “lunga strada di sabbia” come quell’inchiesta, straordinaria, che Pasolini realizzò nel 59. Produrre una grande inchiesta sul lavoro, sulla vita, sulla precarizzazione e poi discuterne –come fece Danilo Dolci negli anni 60 a Palma di Montechiaro, chiamando intellettuali e movimenti a un grande impegno di lotta contro la miseria- in uno, o più grandi appuntamenti collettivi.
Proprio questa straordinaria figura impegnata dalla parte giusta, a qualcuno che gli domandava perché, rispondeva: “sono uno che cerca di tradurre l’utopia in progetto. Non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no. E quando una cosa è necessaria, magari occorreranno molta fatica e molto tempo, ma sarà realizzata”. E’ il nostro sentimento.

12.Battere le destre
Prendiamo quest’impegno ora, in campagna elettorale: realizzare questa novità nella politica italiana ed europea. Rifondazione ha aperto con coraggio le sue liste, e molte e molti di noi, con storie e percorsi diversi, sono candidati. Si è deciso che nella prossima legislatura non ci saranno indipendenti, ma tutti faranno parte integrante di gruppi parlamentari della Sinistra Europea-Rifondazione Comunista.
Ora dobbiamo battere le destre e creare le condizioni perché l’Italia cambi davvero. Sul primo punto, dobbiamo anticipare lo spirito dell’inchiesta: distinguerci perché noi portiamo frammenti della vita in questa contesa. Sul secondo, il compromesso avanzato del programma –frutto delle lotte e dei movimenti di questa stagione straordinaria- diventerà realtà, e su alcuni punti si sposterà in avanti solo se ci sarà una pratica di governo aperta e di ascolto, e una pratica sociale di conflitto. In una coalizione necessariamente con i moderati, la sinistra non peserà per la sua abilità nel gioco politico, ma per la sua scelta sociale. Noi facciamo, radicalmente, fin da ora, questa scelta sociale. Dar vita a questo progetto è quindi necessario. Per cambiare davvero ci vuole, con i movimenti e con i conflitti, una nuova grande forza democratica collocata dalla parte giusta.




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