[NuovoLab] G8: «Vi stupriamo come in Bosnia»

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著者: brunoa01
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CC: fori-sociali, forumsociale-ponge
題目: [NuovoLab] G8: «Vi stupriamo come in Bosnia»
il manifesto 7.3.06

«Vi stupriamo come in Bosnia»
Processo G8: alla vigilia dell'8 marzo, vanno in scena le umiliazioni a sfondo sessuale nei confronti delle ragazze portate a Bolzaneto. Un giornalista arrestato riconosce l'ispettore Gugliotta, responsabile sicurezza della caserma
SIMONE PIERANNI
GENOVA
«Gli agenti, dalla finestra della cella, ci insultavano: "puttane", "troie", "ora vi scopiamo tutte"». C.G. è una genovese di venticinque anni, arrestata nella tarda serata del venerdì 20 luglio 2001. La sua deposizione porta alla luce tutto il repertorio di insulti e umiliazioni a sfondo sessuale subito dalle ragazze durante la loro permanenza a Bolzaneto, e con esso il clima di becero machismo presente nella caserma. Poco prima Marco Persico, il primo teste della giornata, ricorda qualcosa di analogo: alle ragazze all'interno di una cella gli agenti urlano «che le avrebbero dovute stuprare come in Bosnia». Le minacce di stupro, subite da molte vittime, sono sottolineate dai pm: nella propria memoria ritengono che questi e altri atteggiamenti «come in ogni caso di tortura» avvennero grazie all'impunità percepita, «ovvero quel meccanismo fatto di omissioni per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti». Per C.G. c'è anche una personale aguzzina che ne segue tutti gli spostamenti: si tratta di Daniela Cerasuolo, agente di polizia penitenziaria, imputata per il «reato di abuso di autorità contro arrestati», riconosciuta con certezza dal teste in aula, tra le foto mostratele. E' lei l'agente che l'accompagna in ogni spostamento nella caserma, che ride alle botte e agli insulti - che la stessa imputata ricorda come «pesanti», durante le indagini - contro la ragazza nel corridoio e che poi la spinge verso gli agenti picchiatori, «perché mi picchiassero ancora». A sostenere l'attendibilità del teste, come sottolineato dai pm, c'è anche il riconoscimento di una donna, agente di polizia penitenziaria, che in più occasioni dimostra a parole di non gradire i comportamenti dei colleghi: «Si comportò in modo diverso da tutti gli altri», ha chiosato in aula C.G.

Nel corso della diciottesima udienza del processo che vede 45 imputati tra agenti penitenziari, poliziotti, carabinieri e personale sanitario per le violenze e gli abusi all'interno della caserma di Bolzaneto, si registrano altri riconoscimenti importanti: «Lo riconosco al cento per cento», ha detto Marco Persico, giornalista dell'agenzia Agr, alla vista della foto mostrata in aula, che ritrae Antonio Gugliotta, l'ispettore di polizia penitenziaria di più alto grado presente a Bolzaneto, allora responsabile della sicurezza della caserma. Marco Persico - a Genova per «motivi professionali» - è picchiato e arrestato dai carabinieri in via Tolemaide e portato a Bolzaneto nel pomeriggio di venerdì 20 luglio. Per Gugliotta, in riferimento alla testimonianza di Persico, la posizione è decisamente complicata, tanto che anche i pm nella loro memoria stigmatizzano «il reato di lesioni personali volontarie aggravate dall'uso di un mezzo idoneo all'offesa, l'ulteriore reato di percosse ed infine il reato di ingiuria sempre in danno della stessa persona offesa (sputi addosso e pronuncia dell'espressione "sei senza dignità")».

Con le stesse parole il teste ha confermato ieri in aula - con una deposizione ampia e dettagliata - l'accaduto e non solo: oltre alle «imprese» di Antonio Gugliotta - che in fase di indagini si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai pm - il teste, napoletano, residente a Milano, ha sottolineato anche il comportamento di una persona chiamata «il dottore»: di fronte alla mano gonfia e insensibile di Persico, il «dottore» anziché premurarsi per le cure, «me la strinse ancora più forte». Il dottore in questione è probabilmente Giacomo Toccafondi, responsabile del servizio sanitario di Bolzaneto, riconosciuto «con dubbio» dal teste, tra le foto mostrate in aula. «Certe facce vorrei non ricordarle più», ha concluso il teste.


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