[NuovoLab] PAROLE E VIOLENZA

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Aihe: [NuovoLab] PAROLE E VIOLENZA
Bruciare la bandiera di uno stato è sicuramente offensivo. Ma più offensivo
è piantare quella bandiera su uno stato altrui. Inneggiare a un massacro
di soldati in una caserma è moralmente aberrante. Ma averli mandati a fare
una guerra - spacciata per missione di pace - è politicamente aberrante.
In un mondo governato dalla violenza è un lodevole sovversivo chi la rifiuta
per principio e pretende che parole e gesti siano conseguenti a tale scelta
di principio. Ma perché non sia una polemica astratta è necessario dare una
forma politica a quei princìpi. Altrimenti diventa un lusso.
C'è qualcosa che non torna negli scontri di questi giorni - a sinistra -
su Medio oriente e Iraq.
Ci si lacera sulla Palestina, la guerra, la violenza, ma tutto questo sembra
chiuso nel cortile della sinistra radicale; sembra quasi una lotta per l'egemonia,
che - in campagna elettorale - suona come conquista del consenso nelle urne.
Sarebbe una battaglia sacrosanta se non fosse per un particolare: che in
un mondo in cui l'esercizio della forza sta diventando la forma prevalente
della politica, la scelta pacifista (e non violenta) non può che essere una
conquista Fatta di pratiche, non solo di parole. Pratiche che vanno allargate,
che devono acquisire consenso, che devono diventare egemoniche nella concreta
prospettiva politica che ci si propone. E, allora, il campo della polemica
va esteso, il confronto va fette con tutti i propri alleati e sul terreno
del programma che si propone per un futuro governo. Se in piazza siamo tutti
pacifici, lo dobbiamo essere ancor di più a palazzo. E senza paura che l'avversario
politico ci accusi di essere imbelli, di tradire del campo occidentale. Anzi,
per come sono messe oggi le cose, per cos e il «nostro» campo e per chi lo
domina è necessario sfatare il mito della supremazia occidentale. Disertare,
insomma
Vorremmo portare la scelta della non violenza nella cultura profonda del
centro-sinistra, sbatterla in feccia ai padroni del mondo, trame le conseguenze
in chiave di politica internazionale, riproporre l'antico e dimenticato obiettivo
del disarmo e conquistarlo. Si può fare questo ribadendo - come fa il programma
dell'Unione - che continueremo a essere un fedele alleato degli Stati uniti?
Si può subordinare il ritiro dei nostri soldati dall'Iraq all'accordo con
il governo locale? Si può sottoporre il diritto dei palestinesi ad avere
uno stato alla condizione che questo deve essere una concessione dello stato
d'Israele? Si può, insomma, rinunciare a una completa autonomia politica
in nome delle opportunità politiche? Non si può. Non si può denunciare la
violenza altrui senza praticare il proprio disarmo. Unilateralmente. Perché
gli «altri» ci guardano ci ascoltano e, soprattutto, vivono una condizione
di sudditanza che svilisce ad astratte enunciazioni i nostri aneliti di pace,
in assenza di atti concreti. Per questo serve una politica e non potrà essere
quella che, in un precedente governo di centro-sinistra, ci portò in guerra
nel Kosovo. Ma perché quella politica veda la luce la «nostra parte» dovrà
essere molto attenta a ciò che farà. Almeno altrettanto attenta a ciò che
si urla in un corteo romano, (ga. p.)
GABRIELE POLO
DA "Il manifesto" DEL 22/02/2006



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