[Forumlucca] Ricordo di Sylvia Rivera

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Autor: massimiliano.piacentini@tin.it
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To: forumlucca
Betreff: [Forumlucca] Ricordo di Sylvia Rivera
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From: Massimo Consoli
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Recipient:;
Sent: Sunday, February 19, 2006 10:19 AM
Subject: 19
febbraio 2002: Sylvia Rivera


Roma, 19 febbraio 2006, domenica

Oggi
ricorre l’anniversario della scomparsa di una grande figura nella
storia della comunita’ varia. Quattro anni fa moriva Sylvia Rivera.

Durante il “World Pride” del 2000 venne anche a Roma, invitata da
Porpora (mi sembra) e dalle nostre compagne trans. Credo che fosse lei
la presenza piu’ importante, dal punto di vista storico, di tutta la
manifestazione. Anche se, all’epoca, è passata quasi inosservata.

Ho
avuto la fortuna, di conoscerla a New York, durante la commemorazione
“ufficiale” del 20mo anniversario della rivolta sulla Christopher
Street, di parlare con lei, di scambiare le nostre idee sul movimento,
sulla comunita’, sui fatti dello “Stonewall”, sulle conseguenze che
hanno scatenato... Ricordo il suo intervento, quando si alzo’ in mezzo
al pubblico e comincio’ a insultare tutti i personaggi clonati (come li
chiamava) sul palchetto montato presso il Gay and Lesbian Community
Services Center, sulla 13ma strada. Con la sua voce inconfondibile,
roca, chioccia, incazzata fisiologica, urlava: “Dove cazzo stavate,
voialtri froci repressi, quella notte, quando noi abbiamo fatto il
casino allo Stonewall Inn? Io non vi ho visti, ma vi vedo adesso, qui,
tutti ben vestiti, a ricordare quello che avete fatto in quell’
occasione... Siamo noi, le checche, le travestite, le puttane, che
abbiamo fatto il casino, quella notte...”

Nessuno rispose dal palco.
Nessuno intervenne dal pubblico. Sylvia se ne ando’ verso un finestrone
per far sbollire la rabbia. Io stavo accanto a David Thorstad, si’,
quello che ha scritto” Per una storia del movimento dei diritti
omosessuali (1864-1935)”, e tante altre cose ancora e con il quale ho
una profonda amicizia fin dal 1970. David mi stava spiegando chi
fossero i vari oratori sul palco, mi staccai da lui e corsi verso
Sylvia per farle i miei complimenti visto che condividevo tutto quello
che aveva detto. Rimasi sorpreso, sorpresissimo, di vedere ch’ero l’
unico ad avvicinarmi a lei. Dal palco gli oratori avevano ripreso a
parlare e nessuno la degnava della minima attenzione. Ma lei se ne
fregava. In quel momento era contenta solo che un italiano le stesse
dimostrando affetto. E’ incredibile la forza che aveva questo
personaggio veramente unico! Sembrava che non ci fosse nulla capace di
scoraggiarla, di deprimerla, di farla star zitta, una volta per tutte.
Quello che aveva da dire lo diceva, senza peli sulla lingua e con un
linguaggio aspro, aggressivo, pieno di parolacce. Di quei giorni
tumultuosi attorno al 28 giugno 1989 ho una buona documentazione: ho
scattato centinaia di foto al Sindaco della citta’, Edward Koch, ed al
Governatore dello Stato di New York, Rudolph Giuliani, che intervennero
ai festeggiamenti (come, in Italia, fanno sempre il Sindaco di Roma ed
il Presidente della Repubblica, che sarebbe il corrispettivo del
Governatore USA...), a tutti i partecipanti alla famosa conferenza
(compresa Sylvia, of course!), ed ho un servizio straordinario anche
sui bagni del centro, che erano stati affrescati da Keith Haring.
Dovrei avere perfino alcune cassette audio registrate e mai sbobinate.
Come sempre, le foto sono a disposizione (gratuita) di chi me le
chiede, ma sarebbe una buona idea farci su una mostra, visto che si
tratta di materiale prezioso e molto raro (io stesso ho potuto
constatare, tornando a New York piu’ di una volta, che alcuni affreschi
bellissimi sulle mura del Centro, anche di altri autori, erano ormai
deteriorati irrimediabilmente).

Ho scritto molto su Sylvia Rivera.
Quello che vi ripropongo oggi, e’ l’articolo che ho pubblicato su
“GuideMagazine” immediatamente dopo la sua morte. A titolo di
curiosita’ aggiungero’ che, anche se e’ un episodio molto bello e che
sembra ormai entrato nella sua leggenda, Sylvia non ha mai tirato una
scarpa contro i poliziotti, e neanche una bottiglia di champagne
(dubito perfino che lo “Stonewall” avesse champagne...). Del resto,
Sylvia non ha bisogno di essere una leggenda. Le basta (e le avanza)
essere storia, e che Storia!



Un protagonista della rivolta

L'IMPORTANZA D'ESSERE "SYLVIA"

(“GuideMagazine” Aprile 2002, pagg. 24-
27)



di Massimo Consoli



Certo, la vita non era stata facile, con
Sylvia.

Quando aveva tre anni, ed era ancora un maschietto, sua madre
si era suicidata cercando di portarselo appresso nella tomba. Poco piu’
tardi anche la nonna cerchera’ di ammazzarlo, per risparmiargli una
vita che gia’ vedeva difficile.

Era nato nel Bronx, dentro un taxi
parcheggiato davanti al Lincoln Hospital, il 2 luglio 1951 e si
chiamava Ray Rivera Mendozza. I genitori erano di origini venezuelane e
portoricane. I tratti del viso ricordavano ascendenze indie, mentre il
colore della pelle faceva pensare a qualche incrocio con gli schiavi
portati dall'Africa.

Queste peculiarita’ le permetteranno, piu’ tardi,
di relazionarsi con facilita’ con le varie minoranze che compongono il
complicato melting pot americano.

Ormai orfano ed abbandonato a
stesso, a dieci anni si trovo’ a dormire per le strade di Brooklyn o
del New Jersey o del Village, finche’ comincio’ a battere il
marciapiede. Poco prima del suo undicesimo compleanno si cambio’ il
nome in Sylvia, e divenne una prostituta abituale della 42a strada,
dove veniva rimorchiata da clienti eterosessuali che si facevano
ciucciare il pisello nel retro dell'auto.



No, la vita non e’ stata
facile per Ray Sylvia Rivera, morta il 19 febbraio 2002, alle 5,30 del
mattino, al St. Vincent's Manhattan Hospital di New York, in seguito a
complicazioni dovute ad un cancro al fegato. Aveva cinquant'anni ed
era uno dei simboli piu’ importanti della comunita’ GLBT di New York. E
di tutto il mondo.



La gloria se l'era guadagnata sul campo, quella
notte tra il 27 ed il 28 giugno del 1969 partecipando alla rivolta
dello “Stonewall”, il bar gay sulla Christopher Street ormai entrato
nella nostra memoria storica.

«La gente dice che sono stata io a
buttare la prima molotov», raccontava, «ma non e’ vero. Ho tirato la
seconda. Qualcuno mi aveva passato una bottiglia di benzina quando
qualcun altro lancio’ la prima. Non sapevo che fare ed uno accanto a me
mi disse: "e’ meglio che la tiri", ed io l'ho fatto».

La polizia aveva
l'abitudine di fare retate nei locali gay del Village. I clienti, di
solito, si lasciavano perquisire, qualcuno veniva portato al distretto,
il bar era multato o addirittura chiuso, e tutto ricominciava daccapo.

Quella notte le cose andarono diversamente. Forse era il caldo, forse
la morte di Judy Garland (una vera e propria "icona gay"), forse un po'
piu’ di accanimento da parte dell'ispettore Seymour Pine, o perche’ era
una squadra speciale ad occuparsi della faccenda, fatto sta che i gay
fecero una cosa che non avevano mai fatto prima: reagirono.

I "gay"? A
dire il vero quelli che insorsero e dettero fuoco alla miccia furono i
travestiti, le checche da strada, le drag-queens che non avevano nulla
da perdere, senza uno stipendio da conservare, o una casa da difendere,
o una famiglia da scandalizzare. Poi, in un secondo tempo, nei quattro-
cinque giorni che seguirono e durante i quali i disordini continuarono
a diffondersi per il quartiere, da tutte le strade del Village
cominciarono ad affluire ed a partecipare anche i piu’ radicali, i
contestatori della guerra nel Vietnam, i militanti del Black Panther
Party, i beats, i politici, che assunsero subito la leadership.

Questo
fatto e’ rimasto a lungo come una spina nel cuore di Sylvia. I “gender
people” sono stati usati spesso come una specie di onda d'urto di tutta
la comunita’ gay per aprire la strada al riconoscimento dei propri
diritti, e poi messi da parte per non dare una cattiva immagine del
movimento. Lei stessa fu mandata piu’ volte in prima linea nelle
manifestazioni pericolose e poi subito buttata via quando arrivavano i
giornalisti: isolata, sconfessata, ignorata.

Particolarmente critici
erano i gay che volevano essere assimilati al resto della societa’, e
le lesbiche intransigenti. Quest'ultime erano le piu’ feroci. Per loro,
i transgender presentavano un'immagine falsata, stereotipata, della
donna, e poi continuavano a godere dei vantaggi dell'essere, alla fin
fine, sempre dei maschi.

Nel febbraio del 1970 Sylvia si uni’ alla Gay
Activists Alliance e partecipo’ alle battaglie per far passare una
legge contro le discriminazioni nella citta’ di New York. Fu l'unica
persona arrestata in quell'occasione, il che dimostra quanto impegno ci
mettesse. Ad un certo punto, durante un meeting dei Democratici, colpi’
al capo uno degli speaker che si rifiutava perfino di leggere la sua
petizione, con il clipboard che la conteneva. Si trattava di Carol
Greitzer, consigliere comunale eletta nel Greenwich Village che, dopo
quella botta, evidentemente rinsavi’ e divenne la prima firmataria di
quella stessa petizione. Un'altra battaglia fu condotta contro il
“Village Voice”, che si rifiutava di pubblicare gli annunci e la
pubblicita’ gay. E' sintomatico notare che, quando il settimanale fu
convinto a cambiare politica, da giornaletto di quartiere divenne, in
pochi anni, una delle pubblicazioni culturali e di costume piu’
autorevoli (e piu’ vendute) di tutti gli Stati Uniti. Il Greenwich
Village era, ed e’, un quartiere con un numero enorme di iniziative e
strutture e attivita’ culturali e con la piu’ alta densita’ di
popolazione GLBT del mondo.

Impossibile ricordare qui la serie
infinita di manifestazioni che hanno visto Sylvia sempre ed
immancabimente in prima fila, molto spesso come organizzatrice, con una
forza del carattere straordinaria: una combattente coraggiosa, e con la
generosita’ di un cuore che batteva veramente per tutti.

Ho avuto la
fortuna di conoscerla finalmente di persona nell'estate del 1989,
durante i festeggiamenti per il 20° anniversario dello "Stonewall".

Il
Gay and Lesbian Community Services Center aveva organizzato un meeting,
Revolution Recalled, al quale partecipavano alcuni partecipanti ai
disordini del 1969 ormai diventati personaggi importanti nel movimento.

Ad un certo punto Sylvia insorse contro di loro, aggredendoli con la
sua proverbiale violenza: «La scintilla della rivoluzione», cito a
memoria, «l'abbiamo iniziata noi checche, travestiti e puttane. Dove
stavate voi, ch'eravate nascosti allora, e venite a raccogliere gli
allori adesso, di una rivolta della quale non avete alcun merito?»



La piu’ grande delusione la ebbe il giorno in cui il movimento gay
decise di escludere pubblicamente travestiti, transessuali e
transgender dall'agenda delle rivendicazioni, allo scopo di presentare
un'immagine "pulita" e "rispettabile". Fu una lezione che non
dimentico’ piu’.

Aveva sofferto tanto, in gioventu’, che proprio ai
giovani trans dedico’ la parte migliore di se stessa. Insieme a Marsha
P. Johnson apri’ la STAR House (Street Transvestite Action
Revolutionnaires), allo scopo di difendere i diritti della sua
comunita’ e provvedere ai servizi sociali. L'attivita’ principale
consisteva nel dare un tetto ed un letto alle giovani checche senza
casa ne’ lavoro, e poi nell'assisterle in una vita che, poteva
testimoniarlo di persona, le vedeva morire presto per una coltellata,
una overdose, una stronzata qualsiasi...

Per marcare questa sua difesa
di una minoranza discriminata all'interno di un'altra minoranza, nel
giugno del '94 si mise alla testa di un contingente di manifestanti che
non era stato accettato dagli organizzatori del Gay Pride di
quell'anno. Il motivo del contendere era dovuto all'esclusione degli
amanti dei ragazzi dalla parata ufficiale. I gay assimilazionisti non
volevano marciare accanto a quelli del NAMBLA (North American Man Boy
Love Association) cosi’, per un po', le due anime del movimento
andarono ognuna per conto suo, finche’ finirono per riunirsi
pacificamente.

Le delusioni, le discriminazioni, la spinsero piu’
volte al suicidio. Attraverso’ lunghi periodi senza casa per se stessa,
senza un lavoro, costretta a dormire in scatole di cartone ed a vivere
di accattonaggio e piccoli furti.

«Abbiamo liberato il vostro mondo»,
gridava contro gli assimilazionisti, «perche’ ci lasciate sempre in
fondo all'autobus?»

Negli ultimi tempi aveva fatto parte di numerose
organizzazioni umanitarie. Ormai entrata nella storia, era diventata un
punto fisso di riferimento.

La Metropolitan Community Church di New
York, la piu’ autorevole chiesa GLBT degli Stati Uniti, l'aveva voluta
direttrice dei servizi alimentari: una sorta di "Caritas" (ma questa
apertamente gay) americana che distribuisce cibo e fornisce assistenza
a tutti i disperati della metropoli.

Poche ore prima della morte aveva
ricevuto una delegazione dell'Empire State Pride Agenda (ESPA), per
negoziare l'inclusione dei diritti trans nel disegno legislativo
pendente presso il Comune di New York.

Costretta a letto, attaccata a
tubi e monitor che le permettevano di sopravvivere ma soffrendo dolori
atroci, era determinata a non permettere che i gay perbenisti
vincessero questa battaglia una volta di piu’ sulla pelle dei/delle
trans, insistendo per una revisione del linguaggio e per un piu’
concreto sostegno da parte dell'ESPA.





Sylvia era ormai diventata
la coscienza della comunita’varia, richiedendovi l'inclusione di tutti,
ed il rispetto per tutti, al suo interno. Considerata con fastidio, con
disprezzo e apertamente osteggiata da quella stessa comunita’ nella
quale avrebbe dovuto sentirsi piu’ sicura, Sylvia tenne sempre in mente
il consiglio ricevuto dall'amica Marsha P. Johnson, anch'essa trans
afro-americana: "Non ci far caso, ragazza. Trattali sempre allo stesso
modo e vai avanti con l'affare che stai trattando".



Secondo le sue
volonta’, il funerale ha avuto inizio la notte del 26 febbraio davanti
al vecchio "Stonewall Inn". La sua piu’ cara amica, Julia Murray, ne
portava le ceneri in grembo, seduta da sola nella carrozza nera tirata
da un cavallo bianco e guidata da un cocchiere in abito da sera. Il
corteo si e’ poi diretto verso la Christopher Street in direzione
ovest, preceduta da un portabandiera, da vari danzatori ed una banda
musicale, fermandosi davanti all'Hudson, dove una parte delle sue
ceneri e’ stata gettata in acqua, insieme ad un bouquet di fiori.



Massimo Consoli



Questo articolo e’ stato reso possibile grazie alla
collaborazione di David Thorstad e William K. Dobbs.