il manifesto 1.2.06
G8: «Costretti a urlare viva il duce»
I fascisti di Bolzaneto Ragazzi costretti a cantare «un due tre viva Pinochet» e a marciare a braccio teso. Al processo genovese il fascismo della polizia
SIMONE PIERANNI
GENOVA
Quando si dice le coincidenze: proprio nella settimana degli striscioni fascisti allo stadio - e del dibattito che ne segue sull'intempestività degli interventi per rimuoverli - le udienze genovesi offrono uno spaccato desolante delle forze dell'ordine presenti nella caserma di Bolzaneto nei giorni del G8 2001: «Se non urlavamo viva il duce, venivamo picchiati».
E poi persone costrette a cantare canzonette oscene, come la tremenda «un due tre viva Pinochet» e ancora la «parata» cui erano costretti i ragazzi per uscire dalle celle: braccio teso e passo di marcia, sotto la minaccia di poliziotti e agenti penitenziari.
Nell'aula del tribunale di Genova piomba il silenzio, quando i testimoni sembrano ripetere gli stessi, identici racconti. Costituiscono «violenza privata», scrivono i pm nella loro memoria, le «costrizioni consistenti nell'obbligo imposto con violenza o minaccia alle parti offese di inneggiare con parole o gesti (saluto romano, passo dell'oca) al fascismo o al nazismo».
Sui responsabili delle violenze e delle umiliazioni, nessun dubbio. «Avevano l'uniforme», quelli che costringevano a urlare «viva il duce»: quella del sesto reparto mobile della polizia e quella del Gom - reparto mobile della penitenziaria inizialmente destinato solo all'esterno della struttura, poi invece presente nelle celle e nel «corridoio», dove gli agenti disposti «ad ali di corvo» passavano in rassegna i ragazzi picchiandoli e scalciandoli - la cui presenza a Bolzaneto fu dapprima negata e poi successivamente confermata nel corso delle indagini.
A nulla vale il trucco tentato degli avvocati della difesa, cioè mostrare ai testi la foto di un finanziere (la cui divisa è simile a quella dei Gom): i superpoliziotti del Gom erano infatti molto riconoscibili, anche da persone costrette a tenere la testa bassa e subire ogni genere di angherie, fisiche e psicologiche.
I testi ascoltati ieri - nel processo che vede quarantacinque imputati tra poliziotti, personale medico e poliziotti penitenziari per abusi vari, lesioni, percosse e violazione delle norme europea sulla tortura - hanno fornito deposizioni simili, pur avendo storie diverse.
Il primo teste racconta che venerdì 20 luglio esce dall'ufficio, ha uno zaino con un costume da bagno - «andavo al mare in quel periodo nelle pause di lavoro», ha affermato in aula - scende in strada per vedere cosa sta succedendo e senza capire come, viene prelevato e portato a Bolzaneto. Lì è picchiato e costretto a urlare «viva il duce» e altre amenità, tra calci e sberle. Il secondo teste dice di essersi rifiutato: per questo motivo viene picchiato a ripetizione, «ogni cinque minuti venivo colpito alla testa fino a farmela sbattere contro il muro».
Infine l'ultimo teste: al suo arrivo a Bolzaneto viene sfregiato al collo da una poliziotta e successivamente è costretto ad uscire dalla cella marciando a braccio teso. Ricorda varie minacce «anche di gambizzazione» e una frase che nel campionario di oscenità ascoltato in questi giorni di processo, sembra suonare nuova anche alle orecchie dei pm: «Ci deridevano dicendoci che ci avrebbero usato come le sagome dei poligoni di tiro».
L'imbarazzo del collegio difensivo è parso palese mentre la Corte, intervenendo più volte durante la testimonianza, è sembrata piuttosto attenta a registrare anche i minimi particolari.
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