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Author: Elena Bertoli
Date:  
To: forumlucca
Subject: [Forumlucca] interessante articolo di Vandana Shiva sule vere origini della povertà nel mondo

Due miti che mantengono povero il mondo
Vandana Shiva, l'ecologista indiana più amata dalle donne


Critica il saggio "la fine della poverta’" di Jeffrey Sachs




Dal cantante rock Bob Geldof al politico inglese Gordon Brown, il mondo
sembra improvvisamente pieno di persone dall'alto profilo che fanno
piani per mettere fine alla povertà.



Jeffrey Sachs, tuttavia, non è semplicemente una persona che vuol fare
del bene, ma uno dei principali economisti mondiali, alla testa
dell'Earth Institute e responsabile di un progetto Onu per promuovere un
rapido sviluppo. Perciò, quando ha lanciato il suo libro "La fine della
povertà", la gente ovunque ne ha preso nota. Il Time magazine ha persino
dedicato ad esso la copertina.



Ma c'è un problema con le prescrizioni di Sachs per porre termine alla
povertà.

In effetti lui non riesce a capire da dove la povertà venga. Sembra
guardare ad essa come al peccato originale. "Poche generazioni fa,
praticamente chiunque era un povero", scrive, e poi aggiunge: "La
rivoluzione industriale guidò a nuove ricchezze, ma molto del mondo fu
lasciato indietro."



Questa storia della povertà è totalmente falsa. I poveri non sono coloro
che sono stati "lasciati indietro", sono coloro che sono stati derubati.
La ricchezza accumulata dall'Europa e dal Nord America è largamente
basata sulle ricchezze prese all'Asia, all'Africa ed all'America Latina.




Senza la distruzione della ricca industria tessile dell'India, senza il
controllo del commercio di spezie, senza il genocidio delle tribù native
americane, senza la schiavitù africana, la rivoluzione industriale non
avrebbe dato gli stessi risultati di benessere per l'Europa ed il Nord
America.
E' stata questa appropriazione violenta delle risorse e dei mercati del
Terzo Mondo che ha creato ricchezza al Nord e povertà al Sud.



Due dei grandi miti economici del nostro tempo permettono alle persone
di negare questo stretto collegamento e di diffondere interpretazioni
scorrette di cosa sia la povertà.



In primo luogo, per la distruzione della natura e della capacità delle
persone di aver cura di se stesse il biasimo non cade sulla crescita
industriale e sul colonialismo economico, ma sugli stessi poveri.

La malattia viene offerta come cura: più crescita economica, in modo da
risolvere gli stessi problemi di povertà e di declino ecologico a cui
essa stessa ha dato inizio. Questo è il messaggio che sta al cuore
dell'analisi di Sachs.



Il secondo mito è l'assunto per cui se tu consumi ciò che produci, non
stai veramente producendo, almeno non economicamente parlando.

Se io mi coltivo il cibo che mangio, e non lo vendo, allora esso non
contribuisce al PIL e perciò non contribuisce ad andare verso la
"crescita".

Le persone vengono percepite come "povere" se mangiano il cibo che hanno
coltivato anziché il cibo malsano distribuito dall'agribusiness globale.


Sono visti come poveri se vivono in case che si sono costruiti da soli,
con materiali ben adattati ecologicamente come il bambù ed il fango
anziché in blocchi di cemento.

Sono visti come poveri se indossano abiti prodotti con fibre naturali
anziché sintetiche.



Queste esistenze "sostenibili", che il ricco Occidente percepisce come
povertà, non si accoppiano necessariamente ad una bassa qualità della
vita. Al contrario, per la loro stessa natura di economie basate sul
sostentamento assicurano un'alta qualità della vita, se questa viene
misurata in termini di accesso a cibo sano ed acqua, identità sociale e
culturale robusta e percezione di un senso nell’essere vivi.

Poiché questi poveri non condividono i cosiddetti benefici della
crescita economica, vengono rappresentati come "lasciati indietro".



La falsa distinzione tra i fattori che creano l'accumulo e quelli che
creano povertà è al centro dell'analisi di Sachs. E per questo motivo,
le sue prescrizioni aggraveranno e renderanno peggiore la povertà,
invece di porvi fine.



I moderni concetti di sviluppo economico, che Sachs vede come la "cura"
per la povertà, sono stati presenti solo in un'esigua porzione della
storia umana.

Per secoli, i principi del sostentamento hanno permesso alle società,
sull'intero pianeta, di sopravvivere ed anche di prosperare. In queste
società i limiti presenti in natura venivano rispettati, e guidavano i
limiti del consumo umano.

Quando la relazione della società con la natura è basata sul
sostentamento, la natura esiste come forma di bene comune. Viene
ridefinita come "risorsa" solo quando il profitto diviene il principio
organizzativo della società e produce l'imperativo finanziario allo
sviluppo ed alla distruzione di queste risorse per il mercato.



Sebbene in molti scegliamo di dimenticarlo o di negarlo, tutti i popoli
in tutte le società dipendono ancora dalla natura.

Senza acqua pulita, suoli fertili e diversità genetica, la sopravvivenza
umana non è possibile.

Oggi lo sviluppo economico sta distruggendo questi che un tempo erano
beni comuni, dando come risultato una contraddizione: lo sviluppo
depriva le stesse persone che professa di aiutare della loro terra e dei
loro tradizionali sistemi di sostentamento, forzandole a sopravvivere in
un mondo naturale sempre più impoverito.



Un sistema quale è il modello di crescita economica che conosciamo oggi,
crea miliardi di miliardi di dollari di profitti per le corporazioni,
nel mentre condanna milioni di persone alla povertà.

La povertà non è, come Sachs suggerisce, uno stato iniziale del
progresso umano da cui dobbiamo fuggire. E' lo stato finale in cui le
persone cadono quando uno sviluppo unilaterale distrugge i sistemi
ecologici e sociali che hanno mantenuto la vita, la salute ed il
nutrimento dei popoli e del pianeta per ere.
La realtà è che le persone non muoiono per mancanza di soldi. Muoiono
per mancanza di accesso alla ricchezza dei beni comuni.



Qui, di nuovo, Sachs si sbaglia quando dice: "In un mondo di abbondanza,
un miliardo di persone sono così povere che le loro vite sono in
pericolo."

I popoli indigeni dell’Amazzonia, le comunità montane dell'Himalaya, i
contadini ovunque le loro terre non siano state espropriate e la cui
acqua e biodiversità non sia stata distrutta dall’industria agricola
creatrice di debito, sono ecologicamente ricchi, sebbene guadagnino meno
di un dollaro al giorno.



Dall’altro lato, la gente è povera quando deve comprare le proprie
necessità di base a prezzi alti, senza riguardo per quale sia il loro
introito.

Prendete il caso dell'India. Poiché il cibo e le fibre a basso costo
sono state estromesse dal mercato dalle nazioni sviluppate e
dall’indebolimento delle leggi di protezione sul commercio compiuto dal
governo, i prezzi dei prodotti agricoli in India stanno crollando, il
che significa che ogni anno i contadini del paese perdono 26 miliardi di
dollari.

Impossibilitati a sopravvivere in queste nuove condizioni economiche,
molti contadini ora sono colpiti dalla povertà e migliaia di essi si
suicidano ogni anno.



Ovunque nel mondo l'acqua potabile viene privatizzata, così che le
corporazioni economiche possono ricavare un profitto astronomico
vendendo ai poveri una risorsa essenziale, che un tempo era gratuita.



E i 50 miliardi di dollari di "aiuti" che dal Nord vengono al Sud, sono
solo la decima parte dei 500 miliardi di dollari che sono stati
succhiati nell'altra direzione, grazie agli ingiusti meccanismi imposti
all'economia globale dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario
Internazionale.



Se siamo seri, quando diciamo di voler mettere fine alla povertà, allora
dobbiamo essere seri nel mettere fine ai sistemi che creano la povertà
derubando i poveri dei loro beni comuni, dei loro stili di vita e dei
loro guadagni.



Prima di poter far diventare la povertà storia, dobbiamo considerare
correttamente la storia della povertà.

Il punto non è quanto le nazioni ricche possono dare, il punto è quanto
meno possono prendere.



da Iemanjà: HYPERLINK
"http://www.ecn.org/reds/donne/donne.html"www.ecn.org/reds/donne/donne.h
tml

Dicembre 2005. Di Vandana Shiva, da Ode Magazine del 28/11/05. Traduz.
di M.G. Di Rienzo




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