Per leo
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Cari compagni,
giro questa mail inviata da Yurii Colombo.
Si tratta di una riflessione sul movimento della Val di Susa, un tema certamente interessante per chi, come gli antiamericanisti, vuole ritrovare i percorsi ricostruttivi della resistenza popolare al modello sociale e culturale del capitalismo contemporaneo.
Leonardo
questa mail-viene spedita come riflessione in progress ad alcuni compagni con cui sono in contatto da tempo sperando di suscitare critiche e precisazioni. Il suo carattere di bozza è evidente.
LE LEZIONI DELLA VAL DI SUSA
(Yurii Colombo)
Il movimento no-Tav (in piedi già da anni) ma giunto al suo apice in questo troppo freddo autunno, ci torna a far riflettere su alcune sue caratteristiche del movimentoe su alcuni tornanti del dibattito che da tempo riteniamo di primaria importanza. Elenchiamo le questioni:
1) il carattere antimodernista e antiprogressista del movimento
2) il suo carattere comunitario, territoriale, popolare, per certi versi interclassista
3) il falso problema della superamento delle categorie destra/sinistra.
1) Dal punto di vista strettamente teorico chi proviene dalla tradizione del "marxismo" questo movimento pone più di un problema. Marx, pur non aderendo mai al rozzo positivismo e scientismo in voga nella sua epoca, non fu certo esente da una certa concezione lineare, progressista e teloeologica della storia. Senza diventare un paradgma intoccabile e indiscutile del suo orizzonte riflessivo e del suo metodo di ricerca è evidente che lasciò più di una traccia che rimandava a un'idea della successione "progressiva" dei modi di produzione e non criticò in alcun modo l'Antiduhring di Engels, per molti versi atto fondativo del materialismo dialettico. I suoi scritti sull'India, ma la stessa lettere di critica a Proudhon nella lettera ad Annenkov del 1846 alludono ancora di più che nel Manifesto a una "missione civilizzatrice del capitale", una sorta di pedaggio da pagare in vista della rivoluzione catartica proletaria, che deve inevitabilmente distruggere ed estirpare tutte le forme precedenti di organizzazione economico-sociale compresi gli aspetti comunitari e comunistici. Come ha scritto giustamente Gilles Dauvè cercare di separare Marx dal marxismo è opera difficile e incerta in quanto nella visione di Marx il comunismo rappresenta un fatto INELUTTABILE che si produce già all'interno del processo di riproduzione capitalistica. Il suo tentativo di dare uno statuto di scientificità al socialismo entra in rotta di collusione con il fatto che il comunismo - al contrario del capitalismo - è una possibilità del divenire storico, che riguarda l'azione cosciente e le scelte degli uomini e non leggi immanenti che li sovrastano come un cielo grigio metallo. Sappiamo che alcune correnti che si rifanno a Marx e al comunismo (Bordiga a tentoni, l'operaismo per certi versi, il consiliarismo degli anni '60 e '70 in modo più sistematico e cosciente) hanno sviluppato già una critica a tale marxismo che rimane ahimè in gran parte sconosciuta. Già Korsch nel suo Karl Marx, aveva a nostro avviso efficacemente sostenuto da quale punto di vista l'opera di Marx poteva essere considerata "scientifica". Egli andò anche più in là della critica allo statuto di scientificità del marxismo e quando nelle celebri "10 tesi sul marxismo oggi" squadernò un approccio metodologico a Marx che non è stato mai stato recepito da gran parte di coloro che si rifanno al Moro, che fanno dell'opera di Marx fonte d'ispirazione costante. Questo resta un punto centrale della riflessione perchè rimanda anche all'annosa questione delle forze produttive (si leggano per esempio i fascicoli De Los Amigos de Ludd e al loro riferimento all'opera di Guhnter Anders). Qualche cerebroleso che ha cercato di farci passare nazisti quando rimandavo alla necessità di confrontarsi con la "rivoluzione conservatrice" (Junger in particolare) dovrebbe perlomeno darsi la pena di conoscere l'orizzonte della riflessione di Junger in libri mirabili come il Trattato del Ribelle, Emeswil e la Forbice che li possono arrichire assai di più sotto ogni profilo della lettura di quanto vanno affermando, che ne sò io, Bertinotti, Casarini e Pecoraro.
2) Sui caratteri del movimento. Non mi sono mai stancato di ricordare che mentre bisogna riflettere e studiare la dinamica sociale anche quella che riproduce la passività, dobbiamo imparare in quanto rivoluzionari PRIMA DI TUTTO dai movimenti anche quando essi si prensentano in modo confuso. prima di tutto perchè in questo modo accellerano la critica della politica come sfera separata della vita sociale degli uomini e riproduttrice delle gerarchie sociali esistenti e poi perchè nessun movimento si presenta puro e deve quindi essere contestualizzato in una più ampia visione del divenire sociale. La stessa dinamica del defunto mov. no-global sta lì a dimostrarcelo: lo iato tra le questioni poste e le reali rivendicazioni e orizzonti politici di quei movimenti lo hanno condotto in un vicolo cieco. I professionisti del riformismo lo hanno potuto portare in un del cul-de-sac perchè questo movimento era ancora immaturo e incapace cioè di produrre delle rivendicazioni che fossero all'altezza delle questioni poste.La fine del ciclo liberista e il dipanarsi all'orizzonte di un ciclo protezionista non ha fatto che confondere le carte e il mov. no-global si è trovato a combattere contro un fantasma.
Quando parliamo di "imparare dai movimenti" non intendiamo dire che tutti i movimenti sono "progressivi" ma piuttosto che li assumiamo come "movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" a questo grado di sviluppo/degenerazione del capitale. Saremmo stati veramente stupiti se avessimo visto controllare o dirigere l'esposione delle Banlieau parigine da parte della LCR o di LO. Non è un caso che uno come Panzieri, che nel suo piccolo innovò, non colse la valenza della rivolta di Piazza Statuto, affermando che erano solo "meridionali che tiravano sassate". E chi si perdette quella valenza non avrebbe mai potuto essere in Corso Traiano 7 anni dopo.
E poi abbiamo sempre presente, guardiamo ai sommovimenti (grandi e piccoli) di tutto il globo. C'è un filo sottile che lega il 2001 argentino, le semi-insurrezioni in Bolivia, le rivolte nele repubbliche asiatiche ex-sovietiche ai movimenti assai più modesti come quello contro la guerra nelle metropoli dell'impero o anche alla rivolta strisciante che viaggia sul MIssissipi. Prima di tutto la crisi del movimento operaio sia come espressione culturale e ideologica del proletariato che come centralità di classe. Pur rispettando l'ipotesi di coloro i quali vogliono costituire un NUOVO MOVIMENTO OPERAIO riteniamo che questa ipotesi non solo sia di difficile realizzazione, ma che possa essere addirittura non appetibile in relazione alla prospettiva della rivoluzione comunista. L'esperienza di organizzazione-integrazione del moviemnto operaio nel XX secolo (non solo nei paesi capitalsiticamente avanzati) dovrebbe indurrre a qualche riflessione.
Il carattere territoriale è anch'esso fondamentale. Non si tratta di particolarismo o egoismo localistico ma di difesa e promozione della pluralità culturale e sociale. Dunque la declinazione dell'universalismo deve essere sempre più nel senso di uguaglianza non solo sociale ed economica ma anche culturale, sessuale, ecc. Il finale rigetto dell'eurocentrismo è solo un corollario o un pressuposto. Vivere bene insieme agli altri, uguali ma diversi.
Lo stesso vale per la questione dell'industrialismo. Il capitalismo ha promosso l'industrialismo e quindi il macchinismo e via dicendo. In tutto ciò c'è qualcosa di devastante, di alienante, di uniformante. La tecnologia capitalistica non può essere utilizzata per fini socialisti ha detto Marx, e Panzieri lo ha messo bene in luce. Ma la tecnologia può veramente aiutare a liberarci dal lavoro ci hanno ricordato sempre tutti i socialisti (si badi bene utopisti compresi) e quindi possiamo veramente utuilizzare dellee potenzialità espresse ANCHE dal capitalismo per vivere in modo discretamente comodo e sicuro senza rinunciare all'abolizione del tempo, al ritorno all'artigianato, all'estinzione della divisioen del lavoro.
3) L'insesantezza del dibattito sul superamento della dicotomia destra/sinistra. Se intendiamo questa dicotomia dal punto di vista parlamentare o dal punto di vista della gestione degli affari della borghesia questa dicotomia è entrata in crisi da tempo. Se no dovremmo dire che il monetarismo è di destra e il keynesismo è di sinistra. Tutti coloro i quali in un modo o nell'altro tengono in piedi il baraccone capitalista sono nostri accerimi nemici. Che una certa "destra" abbia criticato la modernità e il capitalismo è indubbio, che in taluni casi lo abbia fatto a ragione è certo, ma che lo abbia fatto in senso antiegualitario e gerarchico è altrettanto vero.Tuttavia la sua contraddizione di fondo è sempre stata che mentre faceva ciò continuava ad essere fautrice del feticcio statalista, imperale, geopoliticista. Tanto è vero che dietro il mito dell'Eurasia - il quale è poco più che una suggestione - c'è una visione neppure pessimistica ma addirittura sprezzantemente altera verso i movimenti sociali.Mentre si inneggiava al multiculturalismo si sta zitti sul movimento di liberazione ceceno o davanti alla repressione delle comunità tibetane in Cina. Il loro concetto di elites è assai diverso da quello dell'avanguardia comunista: è alternativo. Molto più interessante resta l'ipotesi del Ribelle jungheriano se ripulito, anche qui, dal suo aristocraticismo.Tant'è che le destre, o le ipotesi "al di là della destra e della sinistra" alla fine non hanno giocato nessun ruolo (o sono state ostili) proprio a tutti i nuovi movimenti: dal '68 no-global, dalla rivolta dei piqueteros alla "battaglia della Val Susa". Mentre la "sinistra", magari con un mucchio di contraddizioni,c'è stata, ha partecipato, nè è diventata spesso l'anima (anche se ciò non ha solo aspetti positivi, vista l'influenza e le flessibilità degli apparati riformisti). I questo senso vedo molto bene il ruolo del movimento anarchico (in Val Susa, evidentissimo). Federalismo, democrazia dal basso, dinamicità del paradigma sono una vera forza della tradizione libertaria. Penso che di questa bisogna assumerne parecchie intuizioni ed esperienze, come del resto la critica all'economicismo e al determinismo marxista. Il superamento reale della contrapposizione tra anarchismo e "marxismo" mi sembra all'ordine del giorno pratico, reale e non più solo una prefigurazione come auspicato da Debord.