----- Original Message -----
From: Leonardo Mazzei
To: Antiamericanisti
Sent: Thursday, December 01, 2005 8:50 PM
Subject: [antiamericanisti] FINI SUBALTERNO AGLI USA - Lettera di 41 parlamentari
IRAQ LIBERO - COMITATI PER LA RESISTENZA DEL POPOLO IRACHENO
Bollettino del 1 dicembre 2005
http://www.iraqiresistance.info
Questo bollettino contiene:
1. FINI SUBALTERNO AGLI USA - Lettera di 41 parlamentari al ministro degli esteri
2. RESISTENZA NON TERRORISMO - Osservazioni sulla sentenza di Milano, di Vainer Burani, avvocato difensore di Mohamed Daki
3. OGGI A RAMADI
4. AL QAIM E DINTONI - I 100mila profughi dimenticati di una tragedia senza media
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FINI SUBALTERNO AGLI USA
Lettera di 41 parlamentari al ministro degli esteri
Al Ministro degli affari esteri
on. Gianfranco Fini
I sottoscritti sono venuti a conoscenza dei seguenti fatti che interessano l'attività del suo Ministero e sui quali esprimono forte preoccupazione in merito alle decisioni adottate:
1) è stato negato il visto di ingresso in Italia ad alcuni esponenti dell'opposizione irachena, fra cui Jawad al Khalesi, Ahmed al Baghdadi e Ibrahim al Kubaysi motivando la decisione con ragioni di sicurezza nazionale, quando risulta che queste persone sono in possesso di regolare passaporto e circolano e svolgono normale attività nel loro paese;
2) la decisione del Ministero degli esteri è venuta dopo che è circolata la notizia che 44 membri del congresso statunitense avevano indirizzato all'ambasciatore italiano a Washington una lettera in cui si chiedeva di impedire l'ingresso in Italia a questi tre cittadini iracheni;
3) successivamente a questi fatti, l'ambasciata italiana ad Amman, negava il visto di ingresso al cittadino iracheno Haj Ali, noto per essere stato detenuto e torturato nelle famigerate carceri di Abu Ghraib, motivando questo rifiuto col fatto che il visto di ingresso in Italia doveva essere richiesto a Baghdad e non ad Amman. La comunicazione di questa motivazione pretestuosa è stata data all'interessato dopo 25 giorni dalla presentazione della richiesta di visto.
I sottoscritti parlamentari, ritenendo immotivata la linea seguita dal suo Ministero, e chiaramente subalterna all'indirizzo richiesto dai firmatari statunitensi della lettera all'ambasciatore italiano,
chiedono che vengano rimossi tutti gli ostacoli frapposti per l'ingresso in Italia ai summenzionati cittadini iracheni.
Deputati e senatori PdCI: Luigi Marino, Gianfranco Pagliarulo, Angelo Muzio, Katia Bellillo, Armando Cossutta, Maura Cossutta, Oliviero Diliberto, Severino Galante, Gabriella Pistone, Roberto Sciacca, Giuseppe Sgobio
Deputati e senatori PRC: Maria Celeste Cardini, Elettra Deiana, Titti De Simone, Pietro Folena, Alfonso Gianni, Luigi Malabarba, Ramon Mantovani, Francesco Martone, Giuliano Pisapia, Marilde Provera, Giovanni Russo Spena, Tommaso Sodano, Livio Togni, Tiziana Valpiana.
Deputati e senatori Verdi: Paolo Cento, Mauro Bulgarelli, Loredana De Petris, Luana Zanella, Marco Lion, Fiorello Cortina, Tana De Zulueta, Natale Ripamonti,Stefano Boco, Giampaolo Zancan.
Deputati e senatori DS: Aleandro Longhi, Angelo Flammia, Giovanni Battaglia, Daria Bonfietti, Piero Di Siena.
Parlamentari "Il cantiere": Antonello Falomi
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RESISTENZA NON TERRORISMO
Osservazioni sulla sentenza di Milano
di Vainer Burani (avvocato difensore di Mohamed Daki)
La Sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Milano ha confermato la correttezza di quella pronunciata dalla Dott.ssa Forleo, Giudice dell'Udienza Preliminare del Tribunale di Milano, che ha, sostanzialmente, dichiarato non punibile, nemmeno ai sensi dell'art. 270 bis del Codice Penale, la condotta di chi invia combattenti o aiuti a forze belligeranti irregolari nel teatro di guerra di un paese occupato. La Procura Generale ha sostenuto, chiedendo la condanna degli imputati che, nel diritto internazionale, non esiste la categoria guerriglia e che, pertanto, le azioni militari compiute da forze irregolari sono terroristiche.
In realtà, nelle dodici risoluzioni sottoscritte dall'Italia, non vi è nessuna definizione del "terrorismo"; a ben vedere lo stesso art. 270 sexies contenuto nel cosiddetto "pacchetto Pisanu" non definisce nulla e non fa che riprendere quell'art. 18 comma 2 nella Convenzione - quadro del 1999, mai sottoscritta. Il motivo c'è: sulla definizione di "terrorismo" vi è stato e vi è un ampio scontro (l'ultimo episodio è dello stesso 29.11.2005 quando, a Barcellona, si è chiusa con un nulla di fatto il vertice appositamente convocato): gli U.S.A. ed altri paesi vogliono che venga escluso il carattere terroristico di ogni azione compiuta da eserciti regolari (il loro problema sono, in primo luogo, le "eliminazioni mirate" israeliane); la Lega Araba e altri paesi vogliono che sia escluso che le azioni militari compiute in un paese occupato e contro gli occupanti possano essere considerate terroristiche; una terza posizione è quella di chi sostiene che la scriminante rispetto al terrorismo è nella natura civile o militare degli obiettivi colpiti. Del resto è falso che il diritto internazionale di guerra non "contempli" la guerriglia: i protocolli aggiunti, del 1977, delle Convenzioni di Ginevra considerano "legittimi combattenti" i membri di forze irregolari che combattono con le armi in vista, segni distintivi e sotto un comando unificato.
Il non accoglimento della ipotesi accusatoria della Procura della Repubblica di Milano ha lasciato aperta la questione che è e resta una "spina nel fianco" per i fautori della "guerra infinita al terrorismo".
Che la questione sia molto importante lo dimostra la canea che si è di nuovo scatenata.
Ma a Milano, a margine del processo, è successo anche qualcosa d'altro di molto importante: due imputati hanno dichiarato di essere stati prelevati dal carcere, condotti nell'Ufficio del Pubblico Ministero, Dottor Stefano D'Ambruoso e di essere stati interrogati da agenti americani; in attesa del difensore di cui avevano chiesto espressamente la presenza. Ciò è avvenuto in palese violazione di ogni norma procedurale italiana ed approfittando del fatto che gli allora indagati non potevano conoscerla.
I "colloqui investigativi", già previsti nell'Ordinamento Penitenziario e "rivisitati" nel "pacchetto Pisanu", all'epoca erano possibili solo all'interno del carcere e per imputati di associazioni mafiose; ovviamente li poteva effettuare solo la Polizia Giudiziaria Italiana.
Non v'è dubbio che si sia trattato di fatti "in linea" con il sequestro dell'indagato del medesimo procedimento, l'IMAM della Moschea di Milano Abu Omar, ad opera di ventidue agenti della C.I.A. per i quali sono stati emesse ordinanze di custodia cautelare in carcere.
Ciò che sconcerta è lo stupido silenzio della sinistra che si definisce "radicale", ancor più, a fronte di una informazione apprezzabile da parte della stampa che, per lo meno, "bilancia" i silenzi e le reticenze delle testate, come "il Corriere della sera", più filo-americane.
Vainer Burani
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OGGI A RAMADI, IERI NEL MARYLAND
Da questa mattina si rincorrono le notizie su un importante attacco della guerriglia alla base militare americana ed al palazzo del governo della città di Ramadi, capoluogo della provincia di al Anbar.
Quattrocento combattenti hanno preso di fatto il controllo della città, mentre le forze Usa se ne stavano asserragliate all'interno della base.
Testimoni oculari citati dalla Reuters hanno raccontato questa spettacolare operazione, aggiungendo che i guerriglieri hanno fatto un massiccio lavoro di affissione di manifesti e di volantinaggio tra la popolazione.
E' questa un'ottima risposta al discorso pronunciato ieri da Bush ai cadetti della marina di Annapolis (Maryland). "L'America non fuggirà davanti alle automobili cariche di bombe o davanti agli assassini"; "nessun ritiro delle truppe finché io sarò il vostro comandante in capo".
Intanto, sul sito internet della Casa Bianca è stato pubblicato un documento intitolato "La strategia nazionale per la vittoria in Iraq" che ribadisce la centralità dell'Iraq nella più complessiva strategia di dominio dell'imperialismo Usa, chiarendo nero su bianco che non solo nessuna "exit strategy" è alle porte, ma che gli americani useranno ogni arma per assicurarsi il controllo del paese.
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AL QAIM E DINTORNI
I 100mila profughi dimenticati di una tragedia senza media
La strategia americana del terrore va avanti. Non ci sono solo le torture, delle quali anche l'Europa vuole che non si parli. Non c'è soltanto il fosforo bianco, del quale ci si è voluti accorgere solo con incredibile ritardo. Ci sono anche i continui bombardamenti nelle zone ribelli che non si piegano all'occupazione. Nelle ultime settimane è stata colpita in particolare la zona nord-occidentale dell'Iraq al confine con la Siria e vi sono stati sconfinamenti dei marines anche in questo paese.
Questa è la realtà dell'Iraq a due settimane dalle ennesime elezioni farsa.
Il reportage di Sabah Ali, che pubblichiamo di seguito, da un'idea delle dimensioni della tragedia umanitaria e di come l'occidente chiuda volentieri gli occhi su di essa.
Al Qaim, una tragedia senza media
Centomila i profughi fuggiti dalla città vicino al confine con la Siria, per sfuggire la morte sotto i bombardamenti o per mano dei cecchini Usa. In migliaia e migliaia vivono in tende di fortuna nel deserto, dimenticati da tutti. Le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti e dei medici dell'ospedale
SABAH ALI
Al QAIM (Iraq Occidentale)
Per due settimane abbiamo atteso di poter raggiungere la città di al Qaim, al confine con la Siria, teatro insieme ad Haditha e agli altri centri dell'estremo ovest dell'Iraq di continue offensive militari americane (in particolare quelle cominciate il 31/10 e il 5/11) che avrebbero provocato un numero imprecisato di vittime, enormi distruzioni e oltre 100.000 profughi, molti dei quali sistemati in squallide tendopoli nei paesi vicini e soprattutto in pieno deserto, privi di qualsiasi assistenza. Totalmente isolati villaggi e campi profughi sull'altra riva dell'Eufrate divenuta irraggiungibile dopo che gli Usa hanno bombardato e distrutto tutti i ponti (tre ad al Qaim e due ad Haditha) della regione. Migliaia e migliaia di famiglie, fuggite sotto i bombardamenti senza poter portare nulla con sé, se non la loro vita, con l'arrivo dell'inverno, hanno ora un disperato bisogno di vestiti pesanti, specialmente per bambini, medicine ma anche generi alimentari. Dopo esserci persi nel deserto per un paio d'ore siamo arrivati all'ospedale di al Qaim verso le cinque del pomeriggio. All'ingresso troviamo un grande striscione nero in ricordo dell'autista dell'ambulanza, Mahmoud Chiad, ucciso il primo ottobre scorso dai soldati americani mentre stava prestando aiuto ad alcune famiglie rimaste ferite nei bombardamenti. Un giovane, H. Khalaf, giace su una barella immerso nel suo sangue. E' stato colpito ai testicoli da un cecchino americano mentre stava attraversando la strada per andare al mercato. La zona in quel momento era del tutto tranquilla, niente spari, niente bombardamenti. Niente. Un vicino che è riuscito a portare il ferito in ospedale ci dice «abbiamo sentito un solo colpo e l'abbiamo visto a terra ma non abbiamo potuto prestargli alcun aiuto a causa del cecchino. Per fortuna è riuscito piano piano a trascinarsi in una vicina traversa dove lo abbiamo soccorso». Vicino a lui c'è un altro giovane Salah Hamid colpito anche lui sotto la cintura. Alle dieci di mattina del 17 ottobre era alla guida del suo taxi nella strada del mercato quando è stato anche lui colpito da un cecchino americano. E' talmente indignato che, nonostante le ferite urla contro gli americani con degli epiteti mai usati in pubblico da queste parti. Gli hanno dovuto tagliar via gran parte del suo intestino e il suo taxi è completamente distrutto.
Nella sala dei medici le finestre, i muri, le tende sono tutti bucati dalle pallottole. Il vice direttore ci spiega la drammaticità della situazione e ci racconta dei bombardamenti continui sulle case e contro le automobili, dei cecchini che sparano contro qualsiasi cosa si muova (due giorni fa hanno ucciso senza motivo anche sei asinelli), dell'assedio alle città e ai villaggi, della chiusura dell'autostrada che ha costretto molti profughi a fuggire nel deserto. Tutti vengono fermati e da alcune settimane i soldati non permettono più l'arrivo in ospedale persino delle bombole per l'ossigeno.
Il ragioniere generale ci racconta invece della drammatica situazione creatasi sull'altra riva dell'Eufrate dopo il bombardamento dei ponti. Di là dal fiume vi sono molti villaggi Rumana, al Beidha, al Ish, Dgheina, Baghooz, al Rabot dove molte famiglie di al Qaim erano fuggite all'inizio dell'attacco contro la città nell'ottobre scorso. «Privi di ogni aiuto quei villaggi - ci dice il funzionario dell'ospedale - sono ora obiettivo di frequenti bombardamenti. E nessuno sa quel che vi sta succedendo. Per circa 110 chilometri lungo l'Eufrate non ci sono ospedali o cliniche e neppure dottori. Non sappiamo quanti siano i morti. Le famiglie li seppelliscono il giorno stesso senza alcuna registrazione o documento e, naturalmente senza alcun media. I feriti devono essere trasportati verso questa riva del fiume su zattere di fortuna, muoiono dissanguati o restano sotto le macerie». «A tirarli fuori ci sono solo - continua il rappresentante dell'ospedale di al Qaim - vicini o parenti, se ci riescono. Qui in città adesso il problema più grave è quello dei cecchini che ogni giorno fanno nuove vittime». E' il caso dell'autista dell'ambulanza Mahmoud Chiad di 35 anni ucciso da una fucilata dei soldati mentre stava andando a Karabla ad aiutare alcuni feriti. Dopo averlo colpito gli hanno anche sparato contro una granata che ha ridotto l'automezzo ad un cumulo di rottami roventi. Era ancora li quando siamo arrivati ad al Qaim ma non abbiamo potuto fotografare la carcassa bruciata o riprenderla perché si trova nel territorio dei cecchini, nella «terra di nessuno», come la chiamano sinistramente. Mahmoud lascia sua moglie e sei bambini, il più vecchio di dieci anni.
La mattina dopo, verso sette, siamo tornati al pronto soccorso dove abbiamo udito urla e visto una grande agitazione. Davanti all'ospedale erano arrivate due auto coperte di polvere e un gruppo di uomini. Un vecchio piangeva gridando al cielo «Venite a vedere quel che ci è successo». Altri piangevano in silenzio. Su due barelle vicine c'erano una ragazzina di dieci anni e una donna di circa venti, ancora coscienti.
La ragazzina, gravemente ferita non sa ancora che è l'unica sopravvissuta di una famiglia di otto persone distrutta dai bombardamenti sul . villaggio di al Ish alle due di notte del 26 ottobre scorso. La donna, avvolta in una coperta bruciacchiata, ci racconta come il giorno prima della tragedia gli americani avevano fatto uscire lei e le altre donne dalla casa di famiglia dopo averla circondata. Non è in grado di dirci sa se gli uomini siano stati sepolti sotto le macerie della casa fatta saltare dagli americani o se siano stati portati via. In ogni caso di loro non si sa più nulla. La giovane signora aveva quindi trovato rifugio presso uno zio ma quella stessa notte un missile Usa ha distrutto la sua nuova casa: «Non so cosa sia successo agli altri - ci dice a bassa voce - c'erano una trentina di persone». I medici ci sussurrano che si sono salvati solo lei e un altro ospite.
Uno dei responsabili del quartiere di al Risala di al Qaim ci racconta tante altre tragiche storie di queste settimane durante le quali, nel silenzio del mondo, questa città è stata ferita e semidistrutta tanto che oltre la metà degli abitanti è fuggita sotto le bombe per cercare scampo altrove. Gli chiediamo se è possibile raccogliere qualche testimonianza. Esita. Dopo un po' ci dice che possiamo andare solamente nelle zone «sicure» dove non vi sono dei cecchini. La città oggi è totalmente differente da quella che vedemmo nell'aprile del 2004. Allora era piena di vita. Adesso è una città morta. La strade sono avvolte nella paura. La prima storia che ci raccontano è quella di Saggar Hamdan, un tassista che il primo giorno dell'attacco decise di fuggire dalla città per portare in salvo la sua famiglia e quella del fratello - in tutto diciannove tra donne e bambini. Lungo la strada l'auto venne colpita e incendiata dai soldati americani che impedirono poi a chiunque di avvicinarsi finché l'automezzo non fu ridotto ad un cumulo di ferraglie e di corpi bruciati. Solamente dopo cinque giorni un cugino, a rischio della sua vita, con in mano una bandiera bianca, si mise sulla strada dove passavano i convogli Usa gridando che non si sarebbe mosso di lî finché non gli avessero restituito i corpi dei suoi parenti. Poco dopo arrivò il comandate americano con in mano un sacco di plastica nera e gli disse: «ci dispiace ci siamo sbagliati. Ecco i resti dei suoi parenti».
Il dottor Walid, che incontriamo nella vicina Aanah, dove è sorta una grande tendopoli con i profughi di al Qaim, ci racconta come il suo piccolo ospedale non riesca ormai più a far fronte all'emergenza: «Riceviamo 500-600 pazienti ogni giorno ma non abbiamo chirurghi, anestesisti, medicine, materiali da laboratorio. E' una situazione disperata, senza uscita, e non solo qui. E' lo stesso in tutto l'Iraq occidentale».
Prima di partire per Haditha ci ferma Shareef, pompiere e volontario della difesa civile, che a denti stretti mormora: «Dove sono le nazioni del mondo, dove sono i musulmani, dove sono gli Arabi? Milioni e milioni pregano ogni giorno ma nessuno vede quel che ci stanno facendo?».
(articolo pubblicato sul Manifesto del 19 novembre)
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