giro questo intervento che puo' interessare... cia' ginetto
-------- Original Message --------
Date: Thu, 01 Dec 2005 09:56:04 +0100
From: tiziano cardosi <tcardosi@???>
Ieri sera ho visto finalmente una trasmissione in tv dove si parlava di
qualcosa: l'Infedele, con la presenza di Latouche e gli straordinari
interventi do Omeya Seddik sulla rivolta delle Banlieus parigine viste e
ascoltate dall'interno. A proposito di Latouche vi attacco sotto un
interessante articolo di Gerardo Marletto in cui si criticano alcune
delle proposte dell'economista francese. Critiche interessanti e
costruttive, fatte da sinistra. A me rimane ancora il dubbio, dopo aver
letto anche lo scritto di Marletto, se sia possibile un qualche
cambiamento all'interno di un sistema economico capitalistico o non sia
piuttosto necessario un totale rivolgimento del modello sociale e di
produzione. Utopia? Forse, ma pensare di addomesticare la bestia che il
neoliberismo ha liberato non è pensabile: è pura fantasia.
Un saluto
T
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RIDURRE I TRASPORTI? SERVONO PIU’ DIRITTI, PIU’ BENI COMUNI E PIU’
POLITICHE PUBBLICHE
Gerardo Marletto
Forum per la democrazia costituzionale europea
Professore associato di economia applicata
Università di Sassari
Mi occupo per mestiere e per passione di trasporti e ambiente; allo
stesso tempo condivido le idee di Latouche in tema di cambiamento del
modello di sviluppo, per la decrescita e la riscoperta dell’economia e
della società di prossimità. E’ dunque con grande interesse e curiosità
che mi sono gettato nella lettura del suo articolo nel n.3 di Carta
Etc., dedicato appunto al tema del trasporto merci.
Non nascondo che ne sono uscito con un forte senso di perplessità.
Accanto ad affermazioni assolutamente condivisibili, ho trovato proposte
e concetti contro cui normalmente mi batto, scientificamente e
politicamente.
Provo a spiegarmi.
Concordo completamente che sia necessario ridurre gli spostamenti delle
merci. Oggi non ci sono solo le assurdità che Latouche denucia (l’acqua
minerale francese importata in Italia e viceversa e altre follie di
questo tipo): la globalizzazione non ha infatti prodotto solo la
delocalizzazione delle produzioni, ma anche la loro scomposizione
(quella che gli economisti chiamano “deverticalizzazione”). Mentre fino
a pochi anni fa tutti gli economisti convenivano che tra crescita del
Pil e crescita dei trasporti ci fosse un rapporto alla pari (+5% per il
Pil + 5% per i trasporti), oggi scoprono che i trasporti di merci
crescono molto di più del Pil: non solo perché un jeans viene prodotto
sempre più lontano dal luogo di consumo, ma anche perché sue singole
componenti e fasi di produzione vengono realizzate in luoghi diversi (le
chiusure lampo in Italia, il taglio e il lavaggio della stoffa in
Tunisia, la cucitura e l’assemblaggio in Romania, la confezione e la
spedizione a Malta). E’ per questo motivo che un jeans incorporta molto
più trasporto di prima (il che vale ormai per quasi tutto: auto e
computer, giocattoli e elettrodomestici, alimenti confezionati e fiori
recisi, …).
Giusto quindi che la soluzione non sia nel rendere più “sostenibili”
questi trasporti, ma nel ridurli drasticamente. Il che richiede – come
giustamente sostiene Latouche – la ri-localizzazione dei processi
produttivi: soddisfare i bisogni locali con produzioni locali.
La mia forte perplessità nasce quando Latouche passa ad indicare gli
strumenti per avviare questo difficile processo di ri-localizzazione.
Non capisco infatti perché Latouche si costringa a ricorrere a concetti
e linguaggi tipici dell’economia ortodossa (ed è lui stesso ad
ammetterlo): i principi della “internalizzazione dei costi esterni” e
del “chi inquina paga” sono infatti strumenti fondamentali di una
visione mercantile e liberista della società, non a caso tanto cari ai
legislatori ed agli amministratori europei.
Già solo l’uso del concetto di “costo esterno” mi fa venire l’orticaria:
qui stiamo parlando di danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, di
incidenti; stiamo parlando solo in Italia e solo per il settore dei
trasporti di migliaia di morti, decina di migliaia di feriti, durata
potenziale della vita delle persone che si accorcia, territori e
ambienti naturali e urbani che si degradano spesso senza possibilità di
recupero, e così via. Già solo parlare di costi significa che alla vita,
alla salute, alla natura, al paesaggio naturale ed urbano si può (e si
deve) dare un valore economico.
Ammesso (e non concesso) che siano pure costi, perché poi sarebbero
esterni? Secondo l’economia ortodossa sono esterni nel senso che
corrispondono al consumo di risorse per le quali appunto non c’è un
prezzo: non sono scambiate nel mercato; sono appunto esterne al mercato.
In realtà se si smette di pensare che il mercato sia il cuore del
sistema economico, allora ci si rende conto che questi danni (o costi
che siano) non sono proprio per niente “esterni”: anzi, sono “interni”
al processo di sviluppo che, specialmente in questi ultimi decenni, ha
caratterizzato le economie industrializzate. La colpa non sta dunque in
un ipotetico malfunzionamento del mercato, ma va attribuita ai gruppi
imprenditoriali, ai politici ed ai tecnici che hanno usato il loro
potere per indirizzare l’economia globale verso l’assetto attuale.
Allora diventa chiaro che la strada per cambiare non può essere
“internalizzare i costi esterni”, imponendo delle tasse ecologiche sui
trasporti che, facendo pagare chi inquina, portino nel mercato anche
quei beni che sino ad oggi sono stati ad esso esterni (e, lo ricordo,
stiamo parlando di “cosette”come la salute, l’ambiente, persino il tempo
delle persone, ecc.). La soluzione – certamente non facile – sta nel
trovare il percorso politico per cambiare radicalmente il modello di
sviluppo e renderlo, appunto, meno divoratore di risorse scarse e
pregiate e più radicato territorialmente.
Spero che a questo punto sia chiaro che non solo trovo le proposte di
Latouche concettualmente contraddittorie con le sue stesse analisi, ma
anche che esse prefigurino strumenti sostanzialmente inefficaci. Lo
ripeto: non è vero che l’economia funziona come il mercato degli
economisti ortodossi in cui il cambiamento è guidato da segnali di
prezzo (eventualmente modificati con tasse, eventualmente “verdi”) che
portano al punto di equilibrio, efficiente ed equo. Il cambiamento
nell’economia è guidato da processi strutturali realizzati da chi ha
allo stesso tempo il potere di effettuare pesanti investimenti per
costruire nuove capacità produttive e di orientare il consumo verso i
nuovi prodotti e i nuovi servizi che si vanno ad offrire.
Il cambiamento– soprattuto quello verso un modello economico meno
divoratore di risorse naturali e sociali – è dunque fondamentalmente una
questione di potere.
Uscire dalla globalizzazione per approdare ad un’economia ricentrata sui
territori – con tutti i benefici che ne deriverebbero in termini di
riduzione dei flussi di trasporto – non è dunque cosa che si realizza
con tasse verdi o diritti (sic!) d’inquinamento. La strada maestra è
quella che si intravede in molte cose scritte su “Carta” (o nelle
campagne di “sbilanciamoci”, nelle posizioni dei tavoli tematici del
social forum, in alcune proposte degli ambientalisti più di sinistra,…):
* costituzionalizzazione dei diritti fondamentali alle condizioni di
vita irrinunciabili (la salute, l’istruzione, il lavoro, la
mobilità, ecc.) ed ai beni comuni, patrimonio di tutti (l’acqua,
l’aria, la biodiversità, ecc.);
* attivazione a scala locale, nazionale, europea e globale, di un
processo politico per assegnare a beni (come l’ambiente) e servizi
(come i trasporti) lo status di bene comune e per attivare di
conseguenza gli strumenti della proprietà condivisa e della
gestione partecipata;
* riattivazione di un ciclo di politiche pubbliche in grado di
indirizzare investimenti e consumi verso la riconversione della
base produttiva, radicandola innanzitutto nella dimensione locale;
* cambiamento “dal basso” degli stili di vita e di consumo verso la
parsimonia, la prossimità e la socialità.
Si tratta certo di un percorso difficile, lungo e faticoso.
L’elaborazione di nuovi concetti si deve intrecciare con la battaglia
politica e con il conflitto. Forse è però già venuto il momento che si
comincino a identificare proposte operative – anche normative – che
possano dare ancora più forza e diffusione alle spinte per un nuovo
modello di sviluppo.
Quello che si dovrebbe smettere di fare è sperare in soluzioni
salvifiche e automatiche, paradossalmente guidate proprio dal mercato.
Anche la fine del petrolio a basso prezzo non produrrà di per sé nulla
di buono: se non si modifica l’attuale squilibrio dei poteri a favore
dei grandi gruppi industriali del settore energetico, chi e cosa ci
garantisce che l’uscita dal petrolio non si tradurrà nel rilancio del
gas e del carbone e in nuovo sviluppo del nucleare su base mondiale (il
tutto eventualmente anche per produrre idrogeno “pulito”)?
P.S. Alcuni interventi su “Liberazione” delle scorse settimane hanno
accusato Latouche di essere portatore di idee che lo accomunano ad
ambienti della destra, anche estrema. Spero sia chiaro che la mia
critica è di tutt’altra natura. Ci tenevo comunque a precisarlo.