----- Original Message -----
From: "giovanni ventura" <losgarden@???>
To: <fori-sociali@???>
Sent: Saturday, October 29, 2005 3:14 AM
Subject: [fori-sociali] Inoltra: Di chi sono le baracche abbattute a Bologna
--- In libertari@???, "clochard" <spartacoh@a...> ha
scritto:
il manifesto - quotidiano comunista - edizione abbonati
Bologna, vita in baracca e fatica al palazzo
I rumeni che il sindaco non vuol vedere lavorano in ospedale e se
serve
anche in tribunale
SARA MENAFRA
INVIATA A BOLOGNA
Bologna non li vuole vedere. Devono andare via, più lontano possibile,
perché la città ha paura. «Per avere libertà bisogna rispettare la
legalità»
dice il procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola, quando
qualcuno gli
chiede delle proteste contro lo sgombero sul Lungoreno. Poi però,
quando si
rompe un tubo nel tribunale di Bologna, ad aggiustarlo ci va un
baraccato.
«E' stato più o meno un anno fa - racconta Suraj, 29 anni - si era
rotto un
tubo e hanno chiamato noi. Non per l'idraulica, ma per rompere il
muro e poi
richiuderlo. Era un ufficio al primo piano del palazzo del tribunale
vecchio, credo. Il signor P. ha preso il lavoro in subappalto e ha
mandato
me. Ci ho messo un paio di giorni e mentre stavo lì a un certo punto
mi sono
seduto sulla sedia del giudice. Solo un minuto, tanto per vedere
com'era.
Comoda». Suraj ha lavorato per due anni senza permesso di soggiorno e
senza
contratto. Nemmeno in tribunale - il luogo della Legalità per
eccellenza,
quella che il sindaco Cofferati voleva ristabilire distruggendo la
baracca
accogliente in cui Suraj e la moglie offrivano caffè scuro a chi
voleva
sapere la loro storia - qualcuno gli ha chiesto chi fosse. L'unico
che sa la
verità è quel signor P. per cui ha lavorato tante volte e a cui tante
volte
ha chiesto una mano per rientrare nei «flussi» previsti dalla Bossi-
Fini. E
non ne sa niente la ditta per cui Suraj dice di aver lavorato in
subbappalto, la Manutencoop. «Conosciamo l'imprenditore, non ci
risulta che
abbia lavoratori in nero o clandestini. Se così fosse il nostro
rapporto di
lavoro si interromperebbe. Comunque in questi posti lavorano anche
altre
aziende, non è detto che sia un nostro appalto» rispondono dalla
cooperativa, 8000 soci in tutta Italia di cui 1400 stranieri, un pezzo
grosso della Lega delle cooperative.
Quando la settimana scorsa sono arrivati i trattori mandati dalla
polizia
con il placet del sindaco Cofferati, Suraj non c'era. Era corso a
casa in
Romania perché i figli, lasciati con la nonna, stavano male. La sua
baracca
è sparita, ma se ci torni, capita di incontrarci Johan, suo fratello,
un
anno di meno e sempre quattro figli da mantenere in Romania. Anche la
sua
casa è stata buttata giù dai trattori del comune, però di andar via
non se
ne parla, meglio piuttosto cercare un posto sicuro dove costruirne una
nuova: «Rimanere qui sarà sempre meglio di tornare in Romania dove
non c'è
lavoro e ora, con le alluvioni, credo non ci sia più neppure casa
mia».
Anche Johan lavora per Bologna. La stessa città che scrive al
sindaco «tieni
duro» quando qualcuno protesta contro gli sgomberi. Forse addirittura
gli
stessi anziani di via della Birra, riuniti in comitato per cacciare i
rumeni
dal «loro» fiume, potrebbero aver vissuto un po' meglio grazie a lui.
Sette
mesi fa l'hanno chiamato dal Bellaria, l'ospedale di eccellenza di
Bologna,
quello famoso in tutta Italia per gli interventi di neurologia. Si
era rotto
l'impianto di aria condizionata e il signor S. l'ha chiamato per
rompere e
richiudere un altro muro. Johan ha ventott'anni, quattro passati a
lavorare
a Bologna, sempre per ditte piccole, tutte, ma proprio tutte, gestite
da
bolognesi. Il signor P., quello del tribunale, il signor S. e poi
quelli che
si fanno chiamare per nome G. e S.. Cercarli per chiedere cosa pensano
significa rischiare di far perdere il lavoro a Johan. Ma i nomi che fa
coincidono tutti: sono «artigiani», qualcuno anche stimato.
Il caporalato sulle rive del Reno è una realtà quotidiana. Persino
noi, un
paio di giorni fa, quando siamo andati a cercare quante baracche
fossero
rimaste sulle rive del fiume, ne abbiamo incontrato uno. Diceva di
chiamarsi
Sergio Gazzara e di voler dare «una mano» ai baraccati: «C'è un mio
amico
che può dargli da lavorare, una casa e tutto. Magari lavorano 10 ore e
gliene pagano sette, ma quando uno ha bisogno...». Verrebbe voglia di
portar
qui il signor Romano Cremonini, 73 anni, un fratello ammazzato dai
nazisti
durante la resistenza e i genitori che negli anni `50 facevano avanti
e
indietro con la Germania. Ora lui vive nel quartiere del Lungoreno,
in via
Angelo Piò, ed è uno di quelli che appena si parla dei rumeni si
mette a
urlare: «Lavorano? Ma dove? Dove? Forse ce ne saranno uno o due, ma
gli
altri?». E invece i caporali ci sono. La Fillea-Cgil, il sindacato
degli
edili, ne ha denunciati tanti. Arrivano con i pulmini, li vengono a
prendere
la mattina presto, verso le 6.30 e li riportano a casa la sera. «Ormai
l'appuntamento cambia giorno per giorno perché sanno che li seguiamo e
raccogliamo le denunce», racconta il segretario del sindacato,
Valentino
Minarelli.
Per i rumeni del Lungoreno il miraggio sarebbe avere un permesso di
soggiorno. Che poi vuol dire lavoro fisso e magari una casa. Il pezzo
di
movimento bolognese che due anni fa aveva aperto loro le porte del
Ferrohotel, sgomberato in primavera, aveva pensato ad un progetto di
emersione che sfruttasse l'articolo 18 della Bossi-Fini, quello che
permette
alle prostitute di mettersi in regola se denunciano il loro
sfruttatore.
«Avevamo chiesto al comune di fare da mediatore per evitare che gli
immigrati potessero essere arrestati durante la regolarizzazione»,
racconta
Domenico Perrotta, che ai clandestini dedica anche la sua ricerca di
dottorato. Cofferati ha sempre rifiutato e due giorni fa ha ribadito:
«Aprirò un percorso se gli immigrati si presenteranno da me di
persona. Non
posso accettare la mediazione di avvocati o altro». Forse, sotto
sotto,
questa cosa della rappresentanza dei lavoratori non l'ha mai convinto.
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