[Forumlucca] dibattito sulle liste commercio e impronta ecol…

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著者: Elena Bertoli
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題目: [Forumlucca] dibattito sulle liste commercio e impronta ecologica della Rete Lilliput. Accesso al mercato: no grazie
Il giorno 24/set/05, alle 00:30,
glt-commercio-request@??? ha scritto:

Da: "Meregalli Roberto (ICT MI)" <roberto.meregalli@???>
Data: 23 settembre 2005 15:28:18 CET
A: <glt-commercio@???>
Oggetto: Accesso al mercato? No grazie!


Ciao a tutte e tutti, vi anticipo il frutto del lavoro di agosto. Ciao
Roberto

Nel 2005 l'Organizzazione mondiale del commercio compie dieci anni di
vita e con essa, tutti gli accordi negoziati durante l'Uruguay Round
(Ur).
L'anniversario coincide con uno dei momenti più delicati del negoziato
in corso, il Doha Round, poiché il WTO si trova costretto ad inseguire
entro la prossima conferenza ministeriale di Hong Kong (dicembre 2005),
un accordo che ne permetta una positiva conclusione nel corso del 2006.
L'agricoltura è il tema centrale dei negoziati e tocca in maniera
diretta la politica agricola dell'Unione Europea e quella degli Stati
Uniti d'America. Il suo inserimento nel sistema delle regole del
commercio multilaterale avvenne nel 1986 con il lancio dell'Uruguay
Round. I negoziati partirono da una angolazione puramente economica e
l'accordo che ne scaturì relegò l'ambito degli aspetti non commerciali
fra gli impegni relativi alla successiva espansione dell'accordo
(articolo 20).
Nel negoziato attuale il tema appare però relegato in secondo piano, ad
occupare il centro del palcoscenico sono l'impegno a ridurre i sussidi e
ad aumentare le esportazioni.
Al di fuori di uno stretto giro di esperti, il tema risulta
incomprensibile anche perché alla maggior parte della gente appare del
tutto oscuro il sistema agricolo e alimentare mondiale; al massimo la
richiesta di cancellazione dei sussidi viene vista come il tentativo di
eliminare il sostegno ai nostri agricoltori, banalizzando il problema in
una contrapposizione fra il (ricco) agricoltore del Nord e il (povero)
contadino del Sud.
Stereotipo che però entra in crisi di fronte alle sempre più frequenti
manifestazioni dei nostri agricoltori ed allevatori che lamentano la
caduta dei prezzi e la crescente concorrenza di altri paesi.
Ancora meno chiaro appare come mai l'agricoltura risulti il principale
oggetto del contendere nei negoziati WTO, anche perché nel mondo
occidentale viene percepita come attività marginale, perlomeno in
termini di occupazione, rispetto all'industria e ai servizi.

Perché dovremmo occuparci di agricoltura se agricoltori non siamo?
Perché la terra è la fonte della nostra vita e il cibo non è un prodotto
qualsiasi.
Purtroppo gran parte del sistema che produce tutto quello che finisce
nel nostro stomaco è ingiusto, socialmente iniquo, potenzialmente
pericoloso per la nostra salute e povero di gusto. Di fronte a questa
realtà talvolta la giustificazione addotta è che non si può pretendere
altro se si vuole produrre a costi così bassi, ed in effetti rispetto
alle generazioni precedenti spendiamo una percentuale minore del nostro
reddito per alimentarci ed è sempre meno il tempo che dedichiamo alla
scelta dei prodotti e alla preparazione dei pasti.
Ma se siamo ciò che mangiamo non è il caso di iniziare a preoccuparci?
Analizzando molto superficialmente il sistema agro-alimentare intuiremo
che la liberalizzazione del mercato agricolo è funzionale allo sviluppo
di un modello agroalimentare che in questi dieci anni ha subito una
autentica rivoluzione mondiale e che si appresta ad una ulteriore
fusione ed internazionalizzazione nei settori della produzione e della
vendita. Nel febbraio 2003, l'Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico (OCSE) tenne all'Aia una conferenza intitolata
Changing Dimensions of the Food economy. Il professor Grievink presentò
un approfondito studio pronosticando che nel prossimo futuro ci sarà un
oligopolio rappresentato da 4/5 catene stile Wal-Mart (la catena
statunitense più grande del mondo) e 20/25 multinazionali globali si
spartiranno il mercato alimentare mondiale.
Il ministro dell'agricoltura olandese, Cees Veerman, nel presentare la
conferenza parlò di una nuova economia alimentare dominata da soggetti
globali sfuggenti alla giurisdizione delle autorità garanti della
concorrenza. "L'equilibrio di potere all'interno del sistema è stato
completamente stravolto", disse, "Sono i grandi rivenditori al dettaglio
e le aziende di trasformazione alimentare a dominare il settore, non il
coltivatore o l'allevatore".
Ma concentrare il potere delle scelte alimentari del pianeta in poche
mani è un suicidio collettivo.
Tocca a noi consumatori agire, rendendoci consapevoli che alla fine
siamo proprio noi, attraverso le nostre scelte, a sostenere una
determinata tipologia di agricoltura oppure no, e di conseguenza a
condizionare il futuro della terra e dei contadini.

Per questi ultimi, l'attuale negoziato volto a rinnovare l'accordo
agricolo WTO non si sta muovendo su un binario favorevole. La
martellante pressione tendente ad inseguire il mito dell'accesso al
mercato ignora totalmente le loro esigenze, sottoponendole a quelle
delle imprese agroalimentari. In particolare, ai paesi più poveri
servono più mezzi per difendere le proprie fragili economie e far
crescere un mercato interno, senza il quale, l'eldorado delle
esportazioni, rimane uno specchietto per le allodole.





Risposta di Giancarlo Telloli



Sono lieto di leggere finalmente un intervento in sintonia con le forti
perplessità che nutro da tempo circa gli atteggiamenti più diffusi tra i
movimenti della società civile nei riguardi dei negoziati agricoli WTO:
per l'appunto banalizzazione del problema in una contrapposizione fra il
(ricco) agricoltore del Nord e il (povero) contadino del Sud.
Liberalizzare indiscriminatamente i mercati delle derrate agricole
aprendo i nostri alle esportazioni dei Paesi del Sud del Mondo, a mio
parere, non favorirà affatto, per esempio, i piccoli agricoltori
brasiliani che producono per la sussistenza e il piccolo commercio su
scala locale, ma i grandi latifondisti assassini che già producono su
scala industriale soia, caffè, ortaggi e altro nelle loro immense
piantagioni. Essi saranno anzi incoraggiati a sfruttarle più
intensamente, riappropriandosi delle porzioni finora lasciate incolte
perché non economicamente convenienti, che sono proprio quelle sulle
quali il movimento Sem Terra indirizza le sue rivendicazioni. Penso che
in ogni Paese del Sud del Mondo potrà aggravarsi la tendenza
all'espulsione dei piccoli coltivatori dalle terre migliori, da parte di
multinazionali agricole e di latifondisti locali intenzionati a
sfruttare le nuove prospettive di guadagno aperte dalla possibilità di
competere senza restrizioni con gli agricoltori del Nord (europeo), che
possono coltivare su scala immensamente più ridotta. Mi viene in mente
una scena del film di Hitchcock "Intrigo internazionale", nella quale
Cary Grant scende da un autobus ad una fermata nel bel mezzo della
campagna dell'Indiana, una campagna ridotta ad un immenso campo di mais
a perdita d'occhio: non un filare di alberi, non una roggia, una casa
colonica, una macchia di cespugli, nulla se non granturco fino
all'orizzonte. Come possono i nostri agricoltori del Lodigiano o del
Parmense competere ad armi pari con una simile agricoltura-mostro? La
nostra agricoltura non significa solo mucchi di derrate, ma cultura e
tradizione alimentare e artigianale, diversità biologica, paesaggi
incomparabili, difesa capillare dell'equilibrio idrogeologico del
territorio, un patrimonio culturale di civiltà contadina sedimentato in
duemila anni di storia. E ciò vale non solo per l'Italia, ma anche per
la Francia, il Portogallo, la Baviera, la Polonia, la Slovacchia, la
Spagna ed ogni angolo della nostra vecchia Europa. Dovremmo lasciarlo in
pasto agli speculatori delle multinazionali alimentari e ai latifondisti
del Sud del Mondo, aggravando per sovrappiù le condizioni dei poveri e
diseredati di quei Paesi?
Il mio consiglio è quindi: liberalizzazione si, ma selettiva. Solo per
le produzioni provenienti dalla piccola e media proprietà contadina, che
produca in modo biologico e sostenibile, come spesso avviene
spontaneamente a questa scala di produzione, organizzata in cooperative
secondo filiere trasparenti. Nessuno sconto invece per il latifondismo
rapace ed assassino, nei confronti del quale anzi dovrebbero essere
inasprite le barriere. I dazi sociali ed ambientali, a mio parere, sono
sacrosanti.
Un'ultima notazione sulla nostra insensibilità di animali urbani e
tecnologici nei confronti dell'agricoltura: non a caso in economia
l'agricoltura viene definito "settore primario", tutta la nostra
arrogante civiltà tecnologica ha potuto fiorire solo perché negli ultimi
secoli si sono susseguite alcune rivoluzioni verdi, tanto importanti
quanto misconosciute, che hanno consentito di ottenere cibo abbondante
con impiego di forza lavorativa sempre più ridotto. Il fatto che
oggigiorno gli addetti in agricoltura siano pochi e quindi politicamente
non rappresentino un serbatoio di voti particolarmente allettante
rispetto alle viziate e nevrotiche popolazioni urbane (ma in Francia
sappiamo che non è così) non diminuisce affatto l'importanza strategica
del settore. Un collasso dell'ecosistema agricolo, o del sistema
economico-sociale che su di esso si fonda avrebbe effetti ben più
catastrofici e duraturi di qualsiasi depressione economica di origine
industriale o commerciale.

Giancarlo Telloli



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