[Forumlucca] I: [decrescita] rassegna decrescita

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Autore: Elena Bertoli
Data:  
Oggetto: [Forumlucca] I: [decrescita] rassegna decrescita

-----Messaggio originale-----
Da: Laura Rossi [mailto:laurarossi@lillinet.org]
Inviato: lunedì 5 settembre 2005 12.31
A: decrescita@???
Oggetto: [decrescita] rassegna decrescita






Invio il dibattito sulla decrescita che negli ultimi due mesi ha
"infiammato" alcuni media (tra cui Liberazione, Il Manifesto e Carta).

buona lettura!

laura






Domande e dubbi dopo l'articolo di Fabrizio Giovenale


Ma il calo dei consumi è la soluzione giusta?

Di Luigi Cavallaro


Liberazione 26 giugno 2005




I consumi calano. E' una buona o una cattiva notizia? La domanda non è
peregrina.

Da tempo, infatti, una parte consistente del movimento ambientalista
sostiene che i nostri mali attuali derivano da una sfrenata corsa ai
consumi, che non terrebbe conto della finitezza delle risorse di cui
disponiamo e dell'insostenibilità di un'estensione a tutto il pianeta
del nostro modello di produzione e distribuzione della ricchezza
sociale.

Secondo quest'opinione (recentemente argomentata su queste colonne da
Fabrizio Giovenale), i guai delle nostre società deriverebbero da un
eccesso - e non da una crisi - di consumo, onde sarebbe illusorio
credere ancora nel "toccasana del consumare di più"; al contrario, una
"società della decrescita" (secondo un'espressione cara a Serge
Latouche) è quanto dovremmo auspicare per noi e per i nostri nipoti.

Mi è già capitato di osservare che, se questa tesi fosse vera, dovremmo
ringraziare il governo in carica (ma anche buona parte dei suoi
predecessori) per tutte quelle politiche che, impoverendo la classe
lavoratrice e i pensionati, ne hanno contratto drasticamente la
possibilità di accesso ai consumi.

E dovremmo giudicare il rigore finanziario impostoci dai vincoli di
Maastricht, foriero di una sistematica compressione della domanda
effettiva, come una vichiana astuzia della ragione, in grazia della
quale le nostre società post-opulente verrebbero ad essere traghettate
verso il paradiso della "crescita zero".

La sofferenza sociale diffusa che si accompagna alle rilevazioni
statistiche del calo dei consumi e del Pil dimostra, però, che le cose
non sono purtroppo così semplici.

Non si può infatti pensare che la critica ai modelli dominanti di
accumulazione e di consumo possa essere svolta assumendo lo stesso
parametro quantitativo che si rimprovera agli economisti di utilizzare
per misurare il benessere (o il malessere) della società e che, dunque,
sia sufficiente che calino i consumi e il Pil per conseguire la
felicità.

Il Pil, a ben guardare, non è altro che un registratore: indica
semplicemente quanta ricchezza sociale viene prodotta e consumata.

Che poi lo faccia assumendo come unità di misura il "valore" di
quest'ultima, cioè la sua capacità di essere scambiata con denaro, è
solo la conseguenza del limitato grado di socializzazione cui siamo
pervenuti, che non ci permette (salvo che per circoscritti settori della
nostra vita associata) di valutare altrimenti il carattere socialmente
necessario del prodotto del lavoro individuale. Ma così come non
possiamo credere che basti restare disoccupati per sfuggire
all'alienazione del lavoro salariato, allo stesso modo non possiamo
illuderci che basti produrre e consumare "di meno" per salvare la natura
e noi con essa.

Il problema è dunque più complesso di quanto non appaia dalle
semplificazioni ambientaliste, e concerne non già la nostra "generica"
capacità di produrre e consumare, ma la nostra specifica capacità di
farlo entro rapporti di produzione, distribuzione, scambio e consumo
diversi da quelli capitalistici. Al riguardo, peraltro, e nonostante il
regresso intervenuto negli ultimi vent'anni, siamo ben lungi dall'essere
all'anno zero. Esiste infatti un ambito consistente della nostra
organizzazione sociale all'interno del quale le decisioni allocative e
distributive non sono ispirate dalla logica meramente quantitativa del
massimo profitto a breve, ma rispondono (almeno tendenzialmente) a
considerazioni di utilità sociale: la costruzione di un ospedale o di
una scuola, l'istituzione di un parco naturale, la concessione di
un'indennità a chi è disoccupato, invalido o anziano sono tra queste.

Ovviamente, anche per decisioni del genere si pone un problema di
reperimento delle risorse e di individuazione delle priorità (vale a
dire, quali bisogni vanno soddisfatti prima e quali dopo), ma ad esso si
fa fronte con uno strumentario che nulla ha a che fare con
l'indebitamento con le banche e la fornitura del bene o del servizio
secondo prezzi di mercato: i pubblici poteri rinvengono le risorse
attraverso il prelievo fiscale e attribuiscono beni e servizi in forma
di diritti. E nel momento stesso in cui lo fanno, "disegnano", per così
dire, un quadro di convenienze e di priorità che può orientare la stessa
azione delle imprese capitalistiche, per le quali obiettivi sociali come
il recupero di una costa o l'ammodernamento delle tecnologie
elettromedicali dei nostri ospedali si presentano inevitabilmente come
domanda monetaria.

Che scelte del genere possano comportare (come di fatto statisticamente
comporterebbero) un aumento della produzione, dei consumi e dunque del
Pil non dovrebbe, a questo punto, preoccuparci: se i contabili vogliono
prendersi la briga di misurare in forma di valore una ricchezza che è
prodotta in forma di diritto, facciano pure. L'importante è che non
cadiamo noi stessi prigionieri del feticcio del Pil: guardare ai
fenomeni sociali con lo stesso metro dei nostri avversari sarebbe
davvero esiziale per le nostre prospettive di liberazione.




A proposito di prodotto interno lordo e recessione


Consumi, e se dimostrassimo che senza si può e si sta anche meglio?


Di Paolo Cacciari


Liberazione 28 giugno 2005




Per piacere, non spazientitevi subito, non mandate al rogo questo
giornale, se pongo un quesito all'apparenza paradossale: la recessione
economica in atto, così distruttiva e angosciante, potrebbe indurci ad
un volontario salto di paradigma nella mentalità, nella cultura
economica, nella politica? In altre parole, per scendere subito nel
concreto, con il prezzo del barile di petrolio a oltre 60 dollari è
realistico, oltre che ragionevole, pensare che la dinamica dei consumi
(del consumo delle merci che il mondo del capitale produce) possa tenere
il passo? E a quali prezzi, non solo monetari? Se, da tempo, affermiamo
che crescita e benessere si sono disgiunti (almeno per i due terzi
dell'umanità), allora le alternative sono: rassegnarci e abbandonare
l'idea che tutti abbiano il diritto ad una vita dignitosa, oppure
ricercare le condizioni dello star bene e della dignità di ogni persona
fuori dai parametri della crescita e dagli indicatori tradizionali dello
sviluppo, compreso quello del Pil, produzioni e consumi compresi. Fuori,
cioè, dall'attuale assetto produttivo e sociale capitalistico. Un
sociologo americano ha parlato del nostro tempo come affetto dalla
sindrome dello scoiattolo in gabbietta: più corre, più il cilindro gira,
più fatica per niente, quindi impazzisce. Più si lavora, fino a mancarci
il tempo per vivere la nostra vita, per la cura dei nostri rapporti
personali, per il nostro accrescimento culturale più ci si impoverisce.
Ci hanno insegnato che chi lavora non mangia, e che era giusto così. Ma
ora lavorare non comporta più alcuna sicurezza, né di reddito immediato,
né di assicurazione sul futuro, né per sé né per i propri cari. C'è chi
lavora praticamente gratis, giovani che persino pagano i corsi di
apprendimento per poter sperare di entrare nel mercato del lavoro,
famiglie che cumulano più redditi per sopravvivere. La lotta sindacale è
ormai da tempo una affannata strategia di resistenza, qualche volta con
risultati umilianti in termini di difesa dei redditi e del potere
d'acquisto.

Sarà sempre peggio. Saremo sempre più soli, frantumati, indifesi,
impauriti. Ma non penso certo alla crisi come ad un salutare elemento
taumaturgico scatenante la rivolta e la rivoluzione. Di solito, chi più
le prende, più è costretto ad abbassare la testa. La recessione potrà
essere benvenuta solo se qualcuno riuscirà a dimostrare con fatti ed
azioni che un'altra economia (e un altro modello sociale) è non solo
possibile ma urgente. La cosa è meno utopica e più semplice di quanto
non si voglia credere.

Basterebbe rivalutare l'economia locale e potenziare l'economia
pubblica, come scrive Francesco Gesualdi, del Centro nuovo modello di
sviluppo nel suo ultimo lavoro, "Sobrietà". Prendiamo ad esempio
l'energia, il cuore che fa pulsare tutto il sistema economico e di
potere del mondo del capitale. La corsa contro il tempo è per la
sostituzione del petrolio, se non per ragioni di sostenibilità
ambientale dovute al surriscaldamento della biosfera, perché tra 30 o 40
anni sarà completamente esaurito anche a costi di estrazione doppi degli
attuali. I futurologi si accapigliano: vincerà la lobby nuclearista
(ammesso che le tecnologie ce lo diano pulito), quella dell'idrogeno
(ammesso che si riesca a produrlo), quella delle fonti alternative
rinnovabili (ammesso che i loro costi diventino abbordabili)? Oppure
converrebbe mettere subito mano all'unico vero giacimento inesplorato e
gratuito a nostra disposizione costituito dagli sprechi, dalle
inefficienze, dagli usi impropri che vengono fatti nei processi di
trasformazione dalle fonti fossili agli usi finali (calore, forza
motrice, illuminazione, processi produttivi) con una dissipazione
dell'energia più grande di quella che si riesce a rendere disponibile? A
parità di investimento questo tipo di interventi libererebbe risorse,
pur non contribuendo ad aumentare il Pil e nemmeno ad aumentare i
consumi, ma sicuramente migliorerebbe la qualità della nostra vita. Un
altro esempio: le reti delle imprese dell'economia solidale. Come
dimostrano le "pagine arcobaleno" trentine, bolognesi, veneziane
consentono alle famiglie di costituirsi in gruppi di acquisto e di
organizzare i propri consumi in modo più consapevole, sano, utile. La
rivoluzione è meno distante dalla passata di pomodoro di quanto si
creda, ci insegnano le famiglie della rete dei Bilanci di Giustizia. La
mamma di un mio amico che ha problemi di mobilità mi ha spiegato che la
sua vita è cambiata con la scoperta nella sua città di una "banca del
tempo"; non deve più rinunciare ai normali rapporti sociali o rimetterci
la pensione nei taxi. Anche nel comparto della finanza, l'accesso al
credito con le Mag dimostrano che altri circuiti produttivi e altri
mercati sono possibili. Insomma se riuscissimo a dimostrare che potremmo
ottenere un migliore tenore di vita (accesso a beni utili, utilizzo di
servizi migliori, più tempo per le relazioni umane) pur essendo più
poveri, daremmo un colpo mortale alla ragione dell'esistenza stessa del
capitalismo; riusciremmo a dimostrare che senza si può e si sta anche
meglio. In fondo può valere anche per noi, occidentali in soprappeso
quello che ha dimostrato Vandana Shiva: «La gente non muore per mancanza
di reddito. Muore perché non ha accesso alle risorse». Vi sono comunità
in ambienti ecologicamente positivi dove si può vivere con meno di due
dollari al giorno. Ma non ne bastano mille per uscire dalla povertà se
sei gettato in "città morte" (il riferimento è alle storie di inferno
metropolitano raccontate da Mike Davis), dove tutto si paga e nulla ti è
dovuto.





Il calo dei consumi non è il toccasana di tutti i problemi, ma una
realtà oggettiva di cui non si può non tenere conto


Consumare meno per salvare il Po


Di Fabrizio Giovenale


Liberazione 30 giugno 2005




Sarà un'idea-fissa da ambientalista, fatto sta che nei mesi passati -
d'autunno, d'inverno e di primavera - a ogni notizia di piogge pensavo:
"menomale, c'è meno pericolo che questa estate l'acqua scarseggi". E
dato che a nord sembrava che piogge ce ne fossero state parecchie, lì
stavo tranquillo. Invece a estate appena iniziata ecco già la notizia:
una magra del Po come non s'era mai vista. Il gran fiume da cui prende
vita la grande pianura già per tre quarti ridotto a un rigagnolo
attraversabile a piedi. Gli invasi "a monte" già mezzi-vuoti. E il
Bertolaso della Protezione Civile che lancia l'allarme: «Se entro il 15
luglio non piove qui siamo al disastro», e si raccomanda di risparmiare
fin all'ultima goccia...

Sembra che le piogge non fossero sufficienti. E che acqua se ne prelevi
troppa comunque: per l'irrigazione, le minerali-in-bottiglia, le
industrie, le centrali idroelettriche impegnate a far fronte all'uso dei
condizionatori in aumento continuo col caldo... Ma non è ancora lì che
sta il peggio. E' che i ghiacciai dell'arco alpino si fanno sempre più
striminziti, ed è soprattutto da quelli che al fiume l'acqua arrivava
dagli affluenti della riva sinistra. E contro quella diminuzione,
purtroppo, c'è poco da fare. Non basterà certo qualche acquazzone estivo
(ben venga, comunque) a risolvere ammanchi di quella portata.

Avevo in mente queste tristi faccende domenica scorsa leggendo
l'articolo di Luigi Cavallaro "Ma il calo dei consumi è la soluzione
giusta? " in risposta garbatamente polemica al mio pezzo del 17/6
sull'esortazione a "consumare di più" del presidente della Banca
centrale europea.

Articolo nel quale lui nega (riferendosi anche alle tesi di Serge
Latouche) che ridurre i consumi possa essere il toccasana di tutti i
problemi: cosa che né Latouche né l'umile sottoscritto si sono mai
sognati di sostenere... Ma andiamo con ordine.

Mi associo a quanto scritto assai bene da Paolo Cacciari ier l'altro, e
riparto dalla situazione padana. Con questa lapalissiana sequenza. Al Po
manca l'acqua. Manca perché si sono rimpiccoliti i ghiacciai alpini. Si
sono rimpiccoliti per gli aumenti di temperatura degli ultimi anni.
Aumenti di temperatura dovuti all'effetto-serra. Effetto-serra dovuto
all'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera. Dovuto a sua volta al
troppo petrolio bruciato. Petrolio che è alla base della maggior parte
delle produzioni, dei trasporti, dei consumi umani di risorse terrestri.
Consumi che a loro volta incidono fortemente sui prelevamenti "a monte"
delle acque del Po... Ergo: è dall'aumento sfrenato dei consumi mondiali
che dipende - fra tutti gli altri malanni - la magra del fiume. Non so
che darei per veder accettate con onestà mentale queste realtà
incontestabili come base per ogni discussione futura.

E dunque: fermo restando che il calo dei consumi non è di per sé la
soluzione di nessun problema ma una realtà oggettiva legata ai limiti
fisici delle risorse terrestri, ne viene l'altrettanto oggettiva
necessità di tenerne conto per impostare correttamente tutti gli altri
problemi. Parlare al riguardo di "semplificazioni ambientaliste" non
serve. L'ambientalismo non fa che invitare a riflettere sulle condizioni
oggettive da porre come premessa a qualunque scelta. Al contrario:
"semplicistico" è chi nel cercar di risolvere i problemi - sociali, del
lavoro e quant'altro - quelle premesse le ignora: fa finta che non ci
siano. E si sbaglia. Sbaglia drammaticamente perché a cercar di
risolvere i problemi senza tener conto della realtà non si può che
sbagliare. Perché quella realtà (i rapporti uomo-Terra-risorse) se la
ritroverà tra i piedi a ogni passo. Proprio come sta succedendo in
Padania col Po. Con buona pace dei leghisti adunati a Pontida.

... Mentre invece il discorso andrebbe impostato in quest'altro modo:
«ferma restando la necessità generale-oggettiva di limitare i consumi di
risorse terrestri per arginare il degrado, come risolvere all'interno di
questa limitazione i problemi della "sofferenza sociale"? Dell'equa
ripartizione fra tutti (in Italia e nel mondo, se non si vuol ricadere
in un'ottica miope) dei mezzi per vivere? Di una miglior qualità della
vita? E come tradurlo, un discorso così, in politiche valide per la
sinistra?». Dando qui spazio, ad esempio, alle tematiche della messa in
comune di conoscenze e risorse per evitare gli sprechi e consumare di
meno, e cioè del muoverci verso quella che Giuseppe Prestipino definisce
una «nuova esperienza democratica di società comunista».

Vedete che ha ragione Cacciari. Il Pil c'entra poco. C'entra invece la
distinzione - questa sì "di sinistra" - tra consumi sociali e mercato.
Cioè a dire in sostanza tra cose necessarie a tutti e cose che fanno
comodo solo ai più ricchi. Chiaro che equiparare le costruzioni di
scuole e ospedali a normali consumi è sbagliato: sono cose come il pane,
che servono a tutti. Più sbagliato ancora è equiparare a un consumo di
mercato la creazione di un parco. Che dovrebbe servire però a salvare
l'ambiente e non a farci sopra quattrini. Così, francamente, m'è
sembrato allarmante l'accenno di Cavallaro all'idea di «orientare le
imprese capitaliste» (per fini di lucro ovviamente) «verso obiettivi
sociali come il recupero di una costa marina». Peramordidio stiamo
attenti: qui si rischia l'apologia del Tremonti-pensiero: di quell'idea
di rivendersi le spiagge d'Italia al miglior offerente che a quanto
sembra lui stesso non s'è più sentito di portare avanti... Non può non
tornare in mente quella definizione di Andrea Camilleri delle "teste
parziali": quelle che vedono le cose soltanto come quattrini e del resto
non capiscono niente.

... E per concludere torniamo al Po. D'accordo sul fare ogni sforzo per
razionalizzare "al risparmio" gli usi delle acque: che già non è un
obiettivo da poco. Resta il fatto comunque che ne arrivano meno per via
dei ghiacciai in regressione. E dato che non c'è modo purtroppo di
ripristinarne la consistenza originaria se non in tempi assai lunghi (e
legati per giunta a ipotetiche crociate mondiali anti-effetto-serra
parecchio più drastiche degli Accordi di Kyoto) - la sola alternativa è
affrontare un impegno massiccio di rimboschimenti su tutta la fascia
alpina e prealpina. Così che la "ricarica d'acqua" che non arriva più
dai ghiacciai venga sostituita almeno in parte dalle acque trattenute
nel terreno e restituite man mano attraverso il manto boschivo più
esteso... Altra scommessa difficile da realizzare, certo. Da "tempi
lunghi", in tutti i casi. E di più che problematici risultati... Resta
il fatto però che ogni passo lungo questa strada non può che migliorare
- magari di poco - la situazione. E dunque faremo bene a provarci.

A me onestamente - se mai si arrivasse a decidere qualcosa di simile -
importerebbe pochissimo sapere se e come operazioni del genere
verrebbero contabilizzate nel Pil. Non sarà certo quello il problema.



Il dibattito su "quale sviluppo, quali consumi". L’apologia della
decrescita e dell’austerità, in un mondo ricco e tecnologico ma ancora
devastato dal bisogno e dallo sfruttamento, ha un suono reazionario.


Da un nuovo produttore un nuovo consumatore


Di Andrea Ricci


Liberazione 7 luglio 2005




Dobbiamo proprio preoccuparci se il Pil ha smesso di crescere? Oppure
dobbiamo cogliere nella decrescita economica una preziosa occasione per
un radicale mutamento del modello di consumo in senso ecologico e
comunitario? Questi sono gli interrogativi di fondo che gli articoli di
Giovenale e di Paolo Cacciari hanno aperto sulle colonne di questo
giornale.

Per confrontarci utilmente su di essi occorre in primo luogo chiarire
bene di cosa parliamo. Stiamo conducendo una discussione in merito ad
ipotetici modelli ideali di organizzazione sociale oppure parliamo
dell'oggi, di quel "movimento reale che cambia lo stato delle cose
esistenti"? Dico subito che se il terreno di confronto è il primo mi
sembrerebbe poco interessante, a meno che non si entri nel merito delle
modalità storiche di transizione che possono concretamente condurci dal
modello reale in cui viviamo (quello capitalistico di mercato) al
modello ideale che auspichiamo (socialista, o che altro?). Ma se così
fosse equivarrebbe a discutere di quali azioni politiche dobbiamo
compiere oggi, nelle concrete circostanze in cui ci troviamo ad operare.


Queste concrete circostanze vedono l'Italia e, sia pure in minor misura,
l'Europa in una situazione di prolungata stagnazione economica, mentre
altre zone dell'economia mondiale (Cina e Usa in testa) hanno il vento
in poppa. Una delle ragioni che spiegano la crisi italiana ed europea è
data dalla cronica insufficienza della domanda interna (consumi pubblici
e privati, investimenti), conseguenza diretta delle politiche
restrittive imposte dal Trattato di Maastricht. Questa situazione
macroeconomica si traduce sul piano sociale in un razionamento di massa
dei consumi per le classi lavoratrici, a causa del calo dei salari
reali, della disoccupazione e della precarietà, della riduzione del
welfare, mentre sul versante opposto della scala sociale aumentano i
consumi opulenti di lusso e l'accumulazione di ricchezza. La riduzione
aggregata dei consumi, descritta dalle statistiche ufficiali, non è
quindi socialmente neutra ma nasconde profonde differenziazioni di
classe. Una parte sempre maggiore della popolazione italiana ed europea
è costretta a rinunciare a soddisfare bisogni che in passato potevano
essere catalogati come storicamente necessari.

Penso che tutti noi concordiamo sul fatto che non c'è nulla di cui
rallegrarsi da questa situazione e quindi, quando leggiamo i dati sulla
riduzione dei consumi, il nostro pensiero vada immediatamente al
pensionato, al giovane precario, all'operaio o al cassintegrato che non
sanno più cosa inventarsi per arrivare alla fine del mese. Penso anche
che nostra comune aspirazione sia quella di rendere la vita di questi
soggetti sociali meno sobria e austera di quella che oggi, loro
malgrado, sono costretti a vivere. I loro redditi e i loro consumi
devono quindi aumentare attraverso una grande operazione redistributiva,
premessa e non, come per troppo tempo si è predicato, conseguenza di una
futura ripresa economica. Sulle modalità, anche fiscali, attraverso cui
attuare tale redistribuzione, su cui si è soffermato l'articolo di
Cavallaro su Liberazione di domenica, sarà opportuno ritornare in
seguito, quando avremo chiarito le finalità generali della nostra
proposta di politica economica.

Il punto che forse suscita qualche distinzione tra di noi è relativo a
quali consumi debbano aumentare. Quelli pubblici o quelli privati? Detto
in altri termini, l'aumento del reddito per i ceti popolari deve
avvenire in forma diretta, monetaria, oppure attraverso una estensione
dei diritti e dei servizi collettivi? In realtà, questa contrapposizione
tra consumi pubblici e consumi privati è in grande misura soltanto
apparente. Infatti, l'aumento della protezione sociale e della fruizione
universale dei beni comuni produce automaticamente un aumento dei
redditi monetari disponibili, perché libera risorse oggi impiegate
nell'acquisto sul mercato di quei beni e di quei servizi, a meno di non
pensare che la maggiore spesa pubblica debba fiscalmente gravare sui
redditi popolari. E, poiché la propensione al consumo è tanto maggiore
quanto minore è il livello del reddito, una politica redistributiva,
comunque attuata, produce un incremento del livello aggregato dei
consumi privati.

Quindi non si scappa: se oggi rendiamo più egualitaria la distribuzione
del reddito, avremo inevitabilmente un aumento della domanda e della
produzione di merci, accanto ad un incremento dei beni e dei servizi
comuni. I due fenomeni vanno insieme e non possono essere scissi. Lo
potrebbero soltanto se non vivessimo più in un’economia di mercato, ma
questo non è il caso odierno.

Per parte mia, inoltre, ritengo necessarie entrambe le forme
redistributive, perché nelle condizioni attuali, oltre ad estendere i
diritti sociali, è urgente anche un aumento dei redditi monetari delle
classi popolari, attraverso maggiori livelli salariali e pensionistici e
l’istituzione di un salario di cittadinanza.

Dobbiamo preoccuparci dell’impatto ambientale di questa operazione? Io
non lo credo. Il cosiddetto "postfordismo" non è, infatti, un fenomeno
limitato alla sfera della produzione, ma ha comportato anche un profondo
mutamento nei comportamenti e nei gusti dei consumatori, i quali oggi
aspirano sempre più a soddisfare nuovi bisogni immateriali, sia pure in
forme mercificate e alienate, piuttosto che ad accumulare sempre più
beni materiali. Come ben sapeva Gramsci, ad un nuovo tipo di produttore
si accompagna un nuovo tipo di consumatore, con una diversa psicologia
ed una diversa scala di valori.

Mentre abbiamo approfondito il primo aspetto, forse siamo in ritardo nel
comprendere appieno le caratteristiche specifiche del nuovo consumismo
"postfordista" e a volte continuiamo a ragionare come se i lavoratori
precari e flessibili di oggi avessero gli stessi desideri e gli stessi
sogni dei loro padri, inchiodati alle catene di montaggio delle grandi
fabbriche della produzione di massa.

Le tendenze in atto ci mostrano in maniera inequivocabile che
all’aumentare del reddito medio aumentano le quote di consumo dei beni a
maggior contenuto di conoscenza, di tecnologia e di relazioni umane, i
quali rispetto ai beni tradizionali incorporano una minore quantità di
risorse naturali e di materie prime per unità di valore. Lo stesso
consumo alternativo, equo, ecologico e solidale, aumenta più che
proporzionalmente con il reddito disponibile perché spesso il suo
maggior costo costringe alla rinuncia forzosa a vantaggio del consumo
tradizionale. Infatti, in un’economia mercantile, per quanto equa e
solidale, il minore sfruttamento degli uomini e della natura si traduce
in un aggravio dei costi monetari di produzione e quindi dei prezzi
finali delle merci perché le esternalità negative non vengono più
scaricate sulla società ma gravano in definitiva sui consumatori finali.

Non corrisponde al vero l’opinione, diffusa in alcuni ambienti
ecologisti, secondo cui il consumo alternativo è un consumo "povero"; al
contrario esso è un consumo "ricco", non solo dal punto di vista della
soddisfazione ma anche da quello monetario. I pattern di consumo
distruttivi dell’ambiente (panfili, piscine private, suv ecc.) scattano
soltanto in presenza di una società fortemente diseguale perché trovano
origine più da motivazioni di distinzione e di status sociale che da
bisogni reali. Pertanto, una distribuzione più egualitaria del reddito,
pur aumentando il livello aggregato dei consumi privati, ne ridurrebbe
l’impatto ambientale, scoraggiando i consumi opulenti a favore di quelli
popolari.

Il problema sarebbe semmai quello di adeguare nel medio periodo la
struttura della produzione alla nuova struttura della domanda. Se non
facessimo questo, oltre all’insostenibilità economica della manovra,
incorreremmo in pesanti costi ambientali perché continueremmo a
produrre, per i consumi altrui, beni ad elevato impatto ambientale. Per
questo alla redistribuzione vanno affiancate nuove politiche di
intervento pubblico mirate all’adozione di un modello produttivo
coerente con il livello di benessere raggiunto dal nostro Paese.

Fino ad oggi il modello di sviluppo italiano è stato incentrato sul
traino delle esportazioni e ciò ha inevitabilmente significato
un’attenzione ossessiva al costo del lavoro rispetto ad altri fattori.
Una politica economica alternativa passa invece per un nuovo modello di
crescita fondato sul soddisfacimento dei nuovi bisogni interni, popolari
e di massa. Soltanto quando questo passaggio avverrà potremmo
considerare effettivamente l’Italia come un’economia avanzata e
sicuramente più attenta alla qualità sociale e ambientale della
produzione e dei consumi.

Che dire invece dell’impatto sociale e culturale dell’aumento dei
consumi popolari? Anche da questo punto di vista non condivido le
opinioni pessimiste. Credo, infatti, che il raggiungimento di una
maggiore autonomia di reddito per le classi subalterne possa rendere più
facile il conseguimento di una maggiore autonomia sociale e culturale,
perché elimina i ricatti morali e materiali di una situazione di estremo
bisogno. Certo anche l’integrazione, oltre alla privazione, è una ben
nota strategia di controllo sociale nei confronti delle classi
subalterne. Tuttavia, ho sempre pensato che la logica del "tanto peggio,
tanto meglio" sia rovinosa per i movimenti rivoluzionari.

In conclusione, la lotta per la costruzione di una nuova società, che
concordiamo nel chiamare comunista, dobbiamo essere capaci di condurla
dentro i punti più alti della modernità capitalista, laddove la
contraddizione fondamentale è quella tra le possibilità materiali di una
vita diversa e la dura concretezza quotidiana dello sfruttamento e della
mercificazione del lavoro salariato. E’ lì che si gioca la vera partita
per l’egemonia politica e culturale, laddove la produzione sociale
capitalistica ha raggiunto le sue forme più avanzate.

Un nuovo modello di consumo, quindi, passa necessariamente per una nuova
forma sociale di produzione, liberata dalla schiavitù del lavoro
salariato e del mercato e sottoposta ad un consapevole e democratico
controllo sociale. Pensare che un nuovo consumatore possa nascere senza
l’apparizione di un nuovo produttore mi sembra un’illusione. In
condizioni di sottosviluppo economico, infatti, la storia ci ha
dimostrato come le classi subalterne possano conquistare la direzione
della società soltanto al prezzo di rinunciare alla loro autonomia di
classe e di svolgere un ruolo di supplenza borghese lungo la strada
dell’unica modernità storicamente praticabile nelle condizioni a loro
concesse, quella capitalista e mercantile.

Per queste ragioni, e lo dico senza alcun intento polemico, l’apologia
della decrescita, della sobrietà e dell’austerità in un mondo ricco e
tecnologico, ma ancora devastato dal bisogno e dallo sfruttamento,
talvolta mi suona, come accadeva a Marx e a Keynes, vagamente
reazionaria.




La radice prima della crisi ecologica


Di Carla Ravaioli


Liberazione 13 luglio




Nel ricco e assai interessante dibattito sui consumi che da molti
giorni si va dipanando su Liberazione, non pochi sono i contributi per
me interamente o in larga parte condivisibili. Oltre a Giovenale,
vecchio e saggio ambientalista che trova il mio pieno consenso, e a
Paolo Cacciari, anche lui uno dei nostri, che in questo caso dice cose
particolarmente intelligenti (vedi l’idea che la recessione possa essere
benvenuta, se qualcuno saprà dimostrare che un diverso modello economico
e sociale è non solo possibile ma urgente), ho assai apprezzato il pezzo
di Cremaschi, che non è un ambientalista ma un sindacalista, e però
(cosa rara) sa vedere problema ecologico e problema sociale,
sfruttamento della natura e sfruttamento del lavoro, non in
contrapposizione ma come le due facce di un’unica grande crisi, che
“mette in discussione lo stesso sviluppo”.

Ma altri sono gli interventi di cui desidero parlare e discutere, in
particolare (tra i tanti, su cui vorrei ma non ho spazio per
soffermarmi) quelli firmati da Andrea Ricci e Luigi Cavallaro, dai quali
con maggiore evidenza emerge un impianto concettuale, d’altronde assai
diffuso nelle varie sinistre, a mio parere decisamente lontano da un
approccio utile al problema ambiente. Mi spiego. I consumi cui i due
autori si riferiscono riguardano in massima parte la “spesa”, gli
acquisti quotidiani o straordinari, di merci e servizi, che i diversi
(iniquamente diversi) livelli di reddito consentono. Viene preso in
considerazione cioè solo l’ultimo momento del processo di produzione,
scambio e consumo, che costituisce la base materiale dell’economia,
mentre si ignora il momento politico che sta a monte di questo processo
e lo determina: quello che obbedisce alle “leggi” del capitale, in primo
luogo attenendosi al dettato di accumulazione di valore che ne
costituisce il presupposto indiscusso. Si ignora insomma quella che è
la radice prima della crisi ecologica planetaria: cioè l’aporia di una
crescita produttiva illimitata in un mondo che illimitato non è, e che
in quanto tale non è in grado di alimentare un’economia in continua
espansione, così come non è in grado di assorbire e neutralizzare i
rifiuti (solidi liquidi gassosi) che ne derivano, e vanno a inquinanare
e sconvolgere l’ecosfera.

E’ in questa fase che vengno programmati produzione e consumo in
quantità crescenti, non solo ecologicamente intollerabili, ma
impossibili (e alcune scarsità - acqua e petrolio in primis - che già
vanno mettendo a rischio meccanismi produttivi e stili di vita, lo
dimostrano). Solitamente infatti si dimentica che la produzione di
qualsiasi genere è sempre consumo di natura. Un tavolo, un’automobile,
un abito, un paio di scarpe, una pagnotta, un grattacielo, una coperta,
una strada, un computer… qualsiasi frutto materiale dell’attività umana
è fatto di legno, ferro, cotone, lino, cuoio, creta, marmo, vetro,
ghiaia, sabbia, lana, petrolio, ecc., insomma di risorse naturali,
alcune delle quali, di origine vegetale o animale (legno grano lino
cotone cuoio lana, ecc.) sono riproducibili purché usate in modi e tempi
tali da consentirne la ricostituzione, altre (metalli, pietre, petrolio,
carbone, minerali in genere) sono destinate all’esaurimento o a un
degrado non recuperabile.

Cavallaro la giudicherà una semplificazione da ambientalista, ma
un’economia che si ritiene in buona salute solo se il Pil cresce
ininterrottamente e esponenzialmente (e a questo scopo non si perita di
abbattere porzioni vistosissime di foreste millenarie, di destabilizzare
il territorio cementificandolo e depredandolo senza risparmio, di usare
nel modo più spregiudicato il potere massmediatico per indurre
all’aumento costante dei consumi una popolazione a sua volta in costante
aumento) a me pare si collochi in decisa rotta di collisione con il
metabolismo della natura. La quale, nonostante gli straordinari
progressi di scienza e tecnica, e la crescente artificializzazione del
mondo, continua a esserne la base indispensabile. Sempre. Gli stessi
prodotti della tecnologia più avanzata, destinati a più conoscenza
comunicazione relazioni umane, quell’ “immateriale” di cui Ricci auspica
maggior diffusione in un prossimo e migliore futuro, richiedono un
cospicuo supporto materiale: uffici, immobili che li ospitano, arredi e
strumenti, in massima parte di plastica e, ciò che è peggio, di
materiali tossici, destinati dunque ad aumentare l’enorme mucchio dei
rifiuti non biodegradabili che si va accumulando sul pianeta. Non va
dimenticato d’altronde che consumi di questo tipo non sono sostitutivi,
ma aggiuntivi, e che il mercato ne impone la rapidissima obsolescenza
con la continua proposta di nuove generazioni, così che la loro
moltiplicazione comporta quantità crescenti di scarti particolarmente
difficili da trattare, e infatti già se ne segnala il problema.

Il Pil, dice Cavallaro, non è altro che un registratore della ricchezza
prodotta. Non c’è dubbio. Ma ciò che al registratore si chiede di
registrare come ricchezza, non significa nulla? Se un’economia dispone
che il Pil calcoli in positivo la produzione e il commercio di armi, e i
redditi derivanti dal disinquinamento di un lago, dal rimboschimento di
un colle, dalla ricostruzione che segue ogni catastrofe (alluvione,
incidente stradale ferroviario aereo, terremoto, guerra), e viceversa
di ignorare totalmente le perdite ambientali, sociali, culturali, umane,
che precedono o seguono tali eventi felicemente produttori di ricchezza;
e se poi propone il risultato di questa contabilità come indicatore non
solo di prosperità economica, ma di benessere e progresso sociale di un
paese, la cosa forse dovrebbe indurre qualche considerazione. Magari
sulla natura dell’ accumulazione capitalistica, che si regge su una
crescita assolutamente indiscriminata, cioè sulla produzione non
importa di che, a quale fine, con quali ricadute, purché si traduca in
più Pil. Per ricordarsene magari quando si afferma, come Cavallaro, che
il problema “concerne non già la nostra ‘generica’ capacità di produrre
e consumare, ma la nostra specifica capacità di farlo entro rapporti di
produzione, distribuzione, scambio e consumo diversi da quelli
capitalistici.” Perfetto. Ma in che modo e forma pensa di poter
instaurare questi nuovi rapporti Cavallaro non dice, dato che trova
risibile ogni ipotesi di ridurre e contenere la crescita del prodotto, e
pertanto di contravvenire al dettato dell’accumulazione, perno e motore
del capitale. A meno che (ma non voglio crederlo) non ritenga
sufficiente tassare la spesa anziché il reddito, come ampiamente
illustra in uno dei suoi interventi: proposta d’altronde (credo, non
sono un’esperta del ramo) utilissima contro l’evasione fiscale.

Anche Ricci caldamente auspica una “grande operazione redistributiva”
che ritiene “premessa di una futura ripresa economica”, e “una politica
economica alternativa” la quale, afferma, “passa per un nuovo modello di
crescita fondato sul soddisfacimento dei nuovi bisogni interni, popolari
e di massa”, a suo avviso meno inquinanti di quelli “opulenti”,
riservati ai ceti privilegiati, in quanto orientati a
quell’”immateriale” di cui ho detto sopra. A lungo Ricci parla di “lotta
per la costruzione di una nuova società, che concordiamo nel chiamare
comunista”, obiettivo su cui non si può non convenire, ma a me
francamente riesce difficile immaginare di “condurla entro i punti più
alti della modernità capitalista”. Perché la possibilità di una vita
diversa non mi pare proprio si intravveda oggi, in una situazione di
crisi da più parti ritenuta irreversibile, in cui la crescita
capitalistica si regge solo su crescente sfruttamento del lavoro e della
natura, su maggiore flessibilità, precarietà, taglieggiamento dello
stato sociale, delocalizzazione della produzione in paesi dove salari
miserabili, nessun diritto, nessuna protezione dell’ambiente, ancora
consentono una buona valorizzazione dei capitali.

Quanto a ogni ipotesi di politiche anti-crescita, Ricci è anche più
drastico di Cavallaro, e perfino a proposito di sobrietà e austerità
parla di “apologia reazionaria”. E vien fatto di riflettere
tristemente sul guasto di cui è capace un sistema onnipervasivo e
colonizzatore di cervelli come il capitalismo, in particolare nella sua
ultima versione neoliberista.



Il dibattito aperto da Liberazione non è tra "economisti", attenti solo
alla moneta e al profitto, e "ambientalisti", difensori dell'uomo e
della natura

Crescita o decrescita, confrontiamoci veramente su cosa significano e
cosa rappresentano

Di Andrea Ricci

Liberazione, 26 Luglio 2005


E' una pessima e purtroppo diffusa abitudine quella di costruire una
polemica inventandosi a piacimento i propri avversari. A questa
tentazione non sono sfuggiti Carla Ravaioli e Franco Russo nei loro
interventi su produzione e consumi. Il dibattito aperto da Liberazione
non è infatti, come essi vogliono far credere, tra "economisti", attenti
solo alla moneta e al profitto, e "ambientalisti", difensori dell'uomo e
della natura. Che il modo di produzione capitalistico operi attraverso
uno sfruttamento distruttivo degli uomini e della natura è, tra di noi,
una verità talmente ovvia da non meritare discussioni. Così come
altrettanto scontata è la critica al Pil come indicatore di benessere e
la necessità di realizzare praticamente nuove forme di produzione e di
consumo che liberino, insieme agli uomini, anche la natura dalla rapina
sistematica operata dai meccanismi economici capitalistici, garantendo
la riproduzione integrale dei cicli ecologici. La novità e lo
straordinario interesse del dibattito aperto da Liberazione consiste nel
tentativo di andare oltre la pura ripetizione di queste verità ormai per
noi acquisite e di avviare un confronto interno al pensiero
"alternativo" in merito ad una posizione che sta conoscendo una rapida
diffusione anche a sinistra, quella che va sotto il nome della
"decrescita", in particolare nella versione sostenuta dal suo principale
esponente, il sociologo francese Serge Latouche.

Questa posizione, oltre ad avere una valenza teorica, impatta
direttamente sulla proposta politica e sugli obiettivi concreti che
ispirano la nostra azione in questa particolare congiuntura storica,
caratterizzata da una crisi economica e sociale strutturale in Italia e
in Europa. Nel mio precedente intervento ho cercato di motivare le
ragioni analitiche e politiche che rendono la teoria della decrescita
inconciliabile con una ipotesi di fuoriuscita da sinistra dal modello
neoliberista. Sul merito delle argomentazioni che portavo a sostegno non
ho finora ricevuto risposta. Ciò che ha sollevato i maggiori
risentimenti è stata invece la frase circa il carattere talvolta
reazionario che si nasconde dietro l'apologia della decrescita. In
verità non era mia intenzione affrontare la questione delle origini
ideologiche e culturali di siffatta teoria né tanto meno togliere il
velo su sconcertanti connessioni intellettuali, ma ormai vi sono stato
trascinato ed allora ben venga un confronto chiarificatore.

Tra i principali adepti e ammiratori della decrescita e, in particolare
del suo nume tutelare Serge Latouche, troviamo in Francia la corrente
della "nouvelle droite" di Alain de Benoist e in Italia il Movimento
leghista dei Giovani Padani e il vasto arcipelago della "nuova destra",
di matrice pagana e comunitaria, che si raccoglie intorno ad
intellettuali come Marco Tarchi, Marcello Veneziani, Franco Cardini,
Massimo Fini ed Eduardo Zarelli, ispiratori di numerose riviste e
associazioni politico-culturali di chiaro orientamento neofascista. La
fervente adesione di alcuni di questi personaggi alla decrescita
talvolta raggiunge livelli davvero imbarazzanti.

Su Liberazione del 13/5/2005 è comparso un articolo di Fabrizio
Giovenale dal titolo: "Non dobbiamo salvare il Pil, ma la terra e
l'uomo", in cui si affermava: "Non è il caso di cominciare a riflettere
se pensare soltanto agli aumenti del Pil non sia una solenne
sciocchezza? E addirittura se non ce la faremmo lo stesso a cavarcela -
magari anche meglio - con una "economia in contrazione"? E cioè
producendo, comprando e vendendo non molto di più del necessario per
vivere? ". Poco tempo dopo mi è capitato tra le mani per puro caso il
numero 270 (marzo-aprile 2005) di Diorama Letterario, una delle riviste
di punta del neofascismo nostrano, e sono stato attratto da un pezzo a
firma di Eduardo Zarelli dal titolo "Recessione, e se fosse
un'opportunità? ". Sono rimasto di stucco: l'articolo in questione
conteneva, senza virgolette e senza citazione alcuna, le stesse frasi
sopra riportate di Giovenale! Ho ragione di ritenere che il nostro
compagno sia stato vittima di un inqualificabile plagio letterario che
però è inquietante.

Latouche ama ripetere che l'obiettivo del suo movimento è la
fuoriuscita, non dal capitalismo, ma dalla mentalità economica tout
court, e per far ciò propone un modello di organizzazione sociale
fondato su micro-comunità locali autosufficienti, rese fortemente coese
da un profondo senso di appartenenza identitaria ad un territorio e ad
una cultura autoctona. E la strada per giungere a questa armonia è
indicata nella volontaria trasformazione psicologica interiore, nella
"decolonizzazione dell'immaginario" attraverso un processo di
progressiva sottrazione individuale dalle macroreti del mercato e del
denaro.

Il retroterra ideologico di Latouche, facilmente rintracciabile da
chiunque abbia confidenza con i suoi lavori, è il frutto di un eclettico
miscuglio delle principali correnti spiritualiste e antimaterialiste del
Novecento. In esso si fondono la critica heideggeriana della tecnica,
che costituisce il fondamento mistico di ogni contemporanea metafisica
irrazionalista, con lo spengleriano "tramonto dell'Occidente", che vede
nell'avvento della civiltà liberal-borghese la causa della corruzione
morale del mondo; l'estetismo brutale e reazionario di Junger con il
ciclo nietzchiano dell'eterno ritorno; l'ossessione di Ortega y Gasset
per la società di massa, causata dall'irrompere del proletariato nella
storia, con l'ambientalismo antiprogressista e conservatore di un Lasch
e di un Naess, che auspicano la risacralizzazione animistica del
vivente; il fondamentalismo calvinista di un Ellul con quello del
cattolicesimo visionario di un Ivan Ilich. Il filo rosso che unisce
queste differenti ispirazioni culturali è un viscerale anti-illuminismo,
che si traduce in un rifiuto radicale della modernità in nome di un
richiamo nostalgico ad un immaginario passato di armonia e di equilibrio
dell'uomo con la natura e con se stesso, come quello che sarebbe valso
nelle comunità tribali africane, non a caso oggetto di numerosi lavori
di Latouche. Non sorprende allora che le sue idee possano trovare
insospettabili sostenitori nei nuovi teorici del razzismo
differenzialista come nei più o meno raffinati cultori neonazi di Julius
Evola o nei giovani seguaci di Borghezio.

Vi sembro accecato da vis polemica? Bene, allora andatevi a sfogliare il
catalogo della casa editrice Arianna, vero e proprio centro culturale
dell'estremismo reazionario italiano, diretta dal nostro plagiario
Zarelli, e scoprirete che Serge Latouche è uno dei suoi autori di punta,
come prefatore di libri altrui e come autore. Oppure date un'occhiata
alla rivista virtuale di geofilosofia "Estovest" di ispirazione
esoterica, ariana e antidarwiniana e ugualmente troverete, accanto al
solito ecofascista, il sociologo transalpino nella lista dei principali
collaboratori. D'altra parte Latouche è un fervente sostenitore
dell'insignificanza delle categorie destra/sinistra, ritenute vecchie e
superate, in nome di un nuovo spartiacque politico fondato (ah, la
modestia!) sul binomio crescita/decrescita e a tal fine ha organizzato
un nuovo movimento politico-culturale, molto attivo in Francia ed ora
anche in Italia, che ha trovato spazio soprattutto in alcune frange
no-global. Gli ambienti neofascisti che guardano con interesse alle sue
teorie sono, infatti, gli stessi che qualche tempo fa furono al centro
di una furiosa polemica per la loro partecipazione attiva ad una
manifestazione di sostegno alla resistenza irachena, organizzata
dall'"ultrasinistra" neostalinista.

Curiosi e insospettabili legami, non trovate? In realtà, come è sempre
accaduto almeno dalla Rivoluzione francese in poi, il rifiuto dello
stato di cose presenti, che oggi si chiama globalizzazione capitalista,
può avvenire da due punti di vista tra loro opposti. Da un lato quello
reazionario, che vede nel ritorno ad un'epoca premoderna e ancestrale,
vagheggiata come un rassicurante eden perduto, la soluzione alle
tragedie dell'oggi. L'altro punto di vista, quello rivoluzionario,
critica invece non la modernità ma al contrario la sua incompiutezza,
derivante dai limiti imposti dal capitale, e quindi progetta la
liberazione degli uomini e della natura da ogni forma di sacralità, sia
essa quella capitalistica della merce e del denaro o quella antica della
comunità razziale, territoriale o culturale.



Crescita e decrescita. Molta acqua è passata sotto i ponti e molto
neoliberismo ha ristrutturato le nazioni, i popoli, gli Stati e, va da
sé, i modi della produzione

Sono finiti i tempi dell'equazione "l'amico del mio nemico è mio nemico"

Di Pierluigi Sullo

Liberazione, 27 Luglio 2005


Ho seguito con molto interesse la discussione che si è aperta su
Liberazione a proposito della "decrescita". Come sai, il mio giornale è
da sempre un sostenitore delle tesi di Serge Latouche, dalla critica
all'utilitarismo all'analisi del post-sviluppo, ad esempio in Africa,
fino appunto alla decrescita. Tesi, aggiungerò, che si collocano in un
campo molto più vasto, quello in cui intellettuali e ricercatori di
molti paesi (tra gli italiani potrei citare Marco Revelli, Tonino Perna,
Bruno Amoroso, Alberto Magnaghi, Alberto Castagnola, Francuccio
Gesualdi, nonché il neopresidente dell'Acquedotto pugliese Riccardo
Petrella) ragionano e sperimentano (vedi l'esperienza di Perna come
presidente del Parco dell'Aspromonte e la creazione di una "moneta
locale", l'Eco-Aspromonte) attorno a un'economia non dominata dal mito
della crescita, ma a quel che Karl Polaniy chiamava "la buona vita". Non
mi dilungo, perché altri ne hanno già scritto molto bene e perché è
evidente a chiunque - tu stesso sei stato a Porto Alegre - che il
movimento altermondialista, cui Rifondazione ha scelto di appartenere, è
fortemente influenzato, per lo meno, da questo tipo di critica
dell'economia.

Mi pareva dunque che su Liberazione, fino ad oggi, gli argomenti degli
uni e degli altri (essendo gli altri i post-neo-keynesiani tuttora
legati alla dottrina dell'aumento della produzione, cioè dei salari,
cioè dei consumi, come indice del benessere di una società) avessero
potuto svolgersi con una certa pacatezza. Finalmente, mi dicevo, si
accetta un confronto così spinoso, per la cultura di sinistra, così
duramente ancorata allo "sviluppo delle forze produttive" da "liberare"
dai vincoli imposti da quel "rapporto sociale" che passa sotto il nome
di capitale. E nemmeno il disastro ambientale, o la crisi generalizzata
della democrazia, o la catastrofe sociale globale, o la scelta - per
molti versi obbligata - della guerra come motore dell'accumulazione
hanno scalfito, negli ultimi anni, la convinzione di molti "economisti
marxisti" (denominazione che a me suona come un ossimoro) che la
soluzione a tutti i guai stia nella ripresa dello "sviluppo", purché al
posto di guida della macchina infernale ci sia la "politica", essa sì in
grado di orientare gli "investimenti", "redistribuire la ricchezza",
ecc.

Ma insomma, mi dicevo, questo problema si è finalmente aperto anche in
un partito comunista come Rifondazione. Merito, pensavo, delle aperture
culturali dell'ultimo congresso, sulla nonviolenza (che non è solo una
maniera di fare gentile, ma un'altra possibile forma delle relazioni
sociali nonché una critica del potere), sulla democrazia municipale
(basata sul presupposto che le "classi" sono state sparpagliate sul
territorio, che è la "fabbrica" neoliberista, oltre che su un diverso
rapporto tra città e campagna, tra produzione e consumo), e su altre
acquisizioni dell'altermondialismo. E dello zapatismo, aggiungerò.

Senonché, ieri apro Liberazione e trovo un articolo di Andrea Ricci che
mi ha - per certi versi felicemente - fatto precipitare verso il
passato, quando avevo molti meno anni. A quell'epoca, l'equazione
"l'amico del mio nemico è mio nemico" era la base fondamentale di gruppi
e gruppuscoli di estrema sinistra. Perciò eravamo tutti dominati
dall'ossessiva ricerca del nemico, si trattasse di un commissario di
polizia, di un "picchiatore fascista" o di un democristiano
"malgovernante". Che è esattamente il procedimento di Ricci: il quale,
pescando citazioni da pubblicazioni filo-naziste, o "prove" di
contiguità in cataloghi di case editrici, o episodi significativi di
"aderenze" tra gli uni e gli altri, espone il seguente teorema: i
sostenitori della decrescita, primo tra tutti Serge Latouche, sono alla
meglio reazionari, sennò direttamente fascisti o nazisti, o ambedue le
cose. Al povero Fabrizio Giovenale, ambientalista storico, Ricci
addebita perfino il fatto che un certo neofascista lo avrebbe plagiato:
un'evidenza del fatto che i due sono d'accordo.

Nei miei anni giovanili mi sono anche molto occupato della corrente di
pensiero che fa capo ad Alain de Benoist e, in Italia, a Marco Tarchi,
con il quale - lo segnalo a Ricci come dichiarazione di colpevolezza -
ho perfino tenuto, in anni lontani, un carteggio che aveva al suo centro
le rispettive, molto diverse, interpretazioni di Antonio Gramsci. Di
questo tema ebbi modo di dibattere, con Tarchi, a un "Campo Hobbit",
sorta di camping estivo dei neonazisti che ero andato a visitare per
scriverne sul manifesto, di fronte a duecento camerati in tuta mimetica
e con il cranio rasato.

Ricci ne ricaverà un ulteriore teorema: ecco da dove viene Carta, dove
nasce la sua passione per la decrescita. Io cito questi fatti, invece,
per dire che so bene di che cosa stiamo parlando, e quanto vecchia
(inizio anni ottanta) è la "scoperta" del comunitarismo di stampo
neonazista (il fascismo c'entra poco, faccio notare a Ricci). Da allora
molta acqua è passata sotto i ponti e molto neoliberismo ha frantumato e
ristrutturato (sto citando Marcos) le nazioni, i popoli, gli Stati e, va
da sé, i modi della produzione. Ed è francamente inquietante che vi sia
chi, come Ricci, evidentemente smarrito in una scolastica ""marxista"
(ma lasciamo in pace Marx), come quel tale cavaliere, che non se n'era
accorto, andava combattendo ed era morto.

Seguissi lo stesso stile, potrei "dimostrare" che gli appelli allo
"sviluppo" o alla "crescita" di questa sinistra-economista sono identici
a quelli del presidente del Fondo monetario o, più modestamente, del
capo della Confindustria o del governatore della Banca d'Italia. E che
infatti il sostegno della sinistra più "responsabile" a privatizzazioni,
ponti sugli stretti e altri orrori antisociali germina da quella
medesima radice. Ma lasciamo perdere. Appunto, si tratterebbe di tenere
la discussione nei limiti della decenza, secondo me.




Le devastazioni del clima globale


Di Carla Ravaioli

Il manifesto 6 agosto



Nel suo vasto articolo del 30 luglio scorso Luigi Cavallaro parla di
ambiente, di qualcosa cioè che riguarda calotte polari che si sciolgono,
deserti che si espandono, milioni di persone senz’acqua, caldo oltre i
40° con 85% di umidità in quelle che ancora si chiamano “zone
temperate”, migrazioni massicce da terre e acque ormai infeconde,
alluvioni disastrose (una da milleduecento morti in India, appena la
scorsa settimana). Parla di globalizzazione, cioè di qualcosa che
significa corsa forsennata alla valorizzazione dei capitali mediante
sfruttamento brutale di lavoro e natura, disuguaglianza apertamente
teorizzata ai fini di dinamiche economiche favorevoli a competitività e
crescita, poveri più poveri e ricchi più ricchi, come ormai largamente
riconosciuto (vedi - per limitarmi a due nomi - Stiglitz e Deaglio, che
non sono militanti no global). E parla di opposte letture di questi
fatti, cosa che dovrebbe riguardare da un lato chi ne denuncia
l’insostenibilità ecologica e sociale tentando di richiamare su di essa
l’occhio distratto di economisti e poltici, dall’altro quanti
assiduamente si impegnano a negarne il rischio, anzi l’esistenza, in
difesa del mercato, della produttività, del nostro stile di vita.

      Ma nulla di tutto ciò trova spazio nel testo di Cavallaro. I suoi
riferimenti sono “la famosa curva di Kuznets”, i movimenti della
“cosiddetta Zona di convergenza intertropicale”, i quindici millenni
successivi alla fine dell’era glaciale, la mobilità nelle società di
cacciatori e raccoglitori, i contadini della Mesopotamia di 5000 anni
fa. Eccetera. Su queste basi, con occhio e linguaggio di raffinato
economista (ancorché nato e tuttora attivo come magistrato) e insieme
con rigorosa fede marxista (non sono pochi i marxisti segretamente
sedotti dalla scienza del nemico) rimette in causa praticamente tutto
quanto è stato pensato e detto sulla materia, e anche non poco di quanto
parrebbe appartenere al più elementare buon senso.        


La globalizzazione, ad esempio. Nel secolo che precede la guerra 1915-18
il mondo era “assai più globalizzato di adesso”, afferma Cavallaro. Cosa
che francamente riesce difficile non dico accettare, ma accettare di
discutere. Non mi consta che all’inizio del ‘900 ogni anno prendessero
un aereo 655 milioni di persone in Usa e 328 milioni in Europa, e si
trasportassero per il mondo 19 miliardi di tonnellate di merci, come è
accaduto nel 2000 (Dati Ipcc. Ne mancano di più recenti, ma la tendenza
è a un fortissimo aumento). Né ho notizia di manufatti all’epoca “made
in the world”, come oggi normalmente accade, ad esempio automobili
progettate in Germania, fabbricate parte in Brasile parte in Corea,
assemblate in Spagna, pubblicizzate in Italia, commercializzate in Usa;
o di imprenditori che all’epoca provvedessero a “delocalizzare”
l’azienda in terre di più facili profitti, mantenendone il controllo
dalla madrepatria per via informatica; senza dire appunto di radio, tv,
telefonia mobile, internet, ecc., quel boom della comunicazione
planetaria che senza sosta va spostando idee saperi mode modelli, e di
conseguenza persone e masse. Se poi l’autore intende dire che la
globalizzazione neoliberista non è una novità in assoluto, collocandosi
come un processo inevitabile nel solco della politica capitalistica di
sempre, per sua natura tendente a estendere su scala mondiale relazioni
commerciali e culturali d’ogni tipo, be’, tutti d’accordo. Perfino la
sottoscritta ne ha parlato per alcune pagine in quel suo“Un mondo
diverso è necessario” (Editori Riuniti 02) citato da Cavallaro come un
pamphlet campione di confusione somma, alla pari (ciò che molto mi
lusinga) di “Deglobalizzazione. Idee per una nuova economia mondiale”
(Baldini Castoldi Dalai 04) di Walden Bello.

Oppure il tentativo di togliere argomenti alle “apocalittiche
allucinazioni di ambientalisti paranoici” affermando, in base ad analisi
condotte da Vercelli e Borghesi, che “le correlazioni esistenti fra
reddito pro capite e alcuni indici di degrado ambientale (…) sono
caratterizzati da un ritmo prima crescente e poi decrescente”. Cosa di
cui l’autore si compiace assai, mentre contestualmente riprende
dall’ottimo libro di McNeil le cifre dell’esplosione quantitativa del
secolo scorso: popolazione quadruplicata, economia cresciuta
quattordici volte, consumo di energia aumentato per sedici, per quaranta
volte moltiplicata la produzione industriale. Senza rendersi conto che
in tale situazione l’inquinamento, anche se ridotto in misura
percentuale, non può complessivamente non risultare catastrofico.

E l’insistita sollecitazione a collocare in una prospettiva storica i
problemi attuali per meglio risolverli, sostenuta da un dotto
spiegamento di nozioni e argomenti: un lungo passato di glaciazioni,
diluvi, carestie, pestilenze, eppure eccolo qua l’homo sapiens, vivo e
trionfante, di che preoccuparsi? Nozioni e argomenti non certo nuovi tra
l’altro, da anni sciorinati da autori per lo più di idee fermamente
conservatrici, volonterosamente arruolati a sostegno di Bush e di tutti
i petrolieri americani. Non una bella compagnia per un convinto
marxista. E nemmeno un discorso di qualche pratica utilità: se non è la
prima volta che il mondo è sommerso dal diluvio, non perciò un diluvio
cessa di essere una calamità; nè parrebbe di qualche efficacia studiare
i ritmi del clima onde adeguararvi i nostri comportamenti, se proprio
totale mancanza di regole e assoluta imprevedibilità sono
caratteristiche ormai accertate del “tempo che fa”. E così via.

Ma ciò che più mi risulta difficile è capire a che cosa miri un discorso
del genere per chi si ponga come fine non (si suppone) la difesa dei più
retrivi interessi del capitale, ma una qualche soluzione utile per la
collettività. Tanto più che se tutti sono pronti a ricordare che sempre
le società umane hanno dovuto modificare i loro modi di vita adeguandoli
all’ambiente, tutti o quasi tendono a dimenticare che anche le società
umane fin dalle epoche più remote (vedi, sempre per limitarmi a un paio
di notissimi nomi, Eibl Eibesfeld e Jay Gould) hanno modificato
l’ambiente, e specie negli ultimi due secoli lo hanno fatto in misura
massiccia indiscriminata e stolida (vedi appunto McNeil, che Cavallaro
apprezza facendone però un uso parziale), da un lato confidando
nell’inesauribilità della natura, dall’altro contraddicendone e
offendendone in ogni modo le leggi. Secondo un rapporto e
un’interpretazione della realtà che, non a caso, trova riscontro e
supporto nell’impianto della macchina capitalistica, e nella teoria
economica dominante, la quale ne rispecchia e codifica le dinamiche. Di
fatto ignorando sia l’incapacità materiale di far vivere un sistema
produttivo in continua espansione all’interno e per mezzo di una
quantità finita come l’ecosfera terrestre, sia l’irreversibilità dei
fenomeni fisici dimostrata dal secondo principio della termodinamica, il
famoso principio di “entropia” che l’ambientalismo più qualificato ha
fatto proprio: la “freccia del tempo” non è un’ invenzione di filosofi e
poeti.      


Cose elementari, cose ovvie. Eppure lontanissime dall’orizzonte mentale
di gran parte della sinistra (non si dice di altri settori politici).
Cavallaro non fa eccezione, anche quando s’impegna a considerare quelli
che con azzardata litote chiama “i capricci del clima”, o quando dedica
qualche attenzione a un confuso pamphlet come quello che reca la mia
firma. Scorrendo il quale sembra stupirsi che vi si auspichi “uno
sbaraccamento culturale del modello neoliberista”, come se la cultura
nulla avesse a che vedere con la politica, con l’economia, con la
crescita produttiva, come se la pressione culturale al consumo non fosse
ormai parte integrante dei meccanismi di accumulazione; e non si avvede
come il riferimento a una “crescente scarsità delle risorse” parli di
qualcosa da assumere per dare motivo e senso a una possibile “nuova
razionalità economica, capace di recepire e accettare la finitezza non
come negatività”, e si ponga dunque in una chiave che con Walras e i
modelli economici neoclassici ha davvero ben poco da fare.

Peccato. Apprezzare la critica alla crescita produttiva, cioè
all’accumulazione, motore primo del capitalismo, parrebbe naturale per
un marxista. A meno che non si lasci innamorare dell’economia. La quale
– diceva Claudio Napoleoni – “in quanto disciplina autonoma è nata come
scienza del capitale, e tale è sostanzialmente rimasta.”




Il pianeta Terra è una quantità finita


Di Carla Ravaioli


Liberazione 7 agosto



Singolare modo di polemizzare quello di Andrea Ricci. Invece di
impegnarsi a dimostrare l’infondatezza, o la scarsa validità dei testi
oggetto del suo dissenso, dedica la gran parte del suo intervento del 26
luglio a un’ampia rassegna di varia letteratura di destra, in cui,
passando da Evola a Borghezio, si sostengono idee coincidenti con quelle
dell’ambientalismo, a suo parere espresse anche da qualche partecipante
al dibattito su consumi e crescita in corso su Liberazione. Come se
fosse una novità l’esistenza - dai tempi del Terzo Reich e prima ancora
- di un ambientalismo, anzi di vari ambientalismi di destra, fondati o
sul culto di una natura primigenia, idillica e serena (di fatto mai
esistita) e sul sogno di un improbabile ritorno ad essa, oppure
sull’incrollabile fede nelle magnifiche sorti e progressive, e sulla
indefessa capacità umana di sopperire alle scarsità e alle stanchezze
dell’ecosfera. E come se fosse da stupire il possibile verificarsi in
questi ambiti di analogie anche con l’ambientalismo più qualificato e
chiaramente collocato a sinistra: analogie d’altronde sempre parziali e
di fatto negate dall’impianto teorico e politico complessivo.

Sorvolo sugli aspetti meno simpatici di questo argomentare di Ricci:
ignorare (come fa nei confronti di Giovenale) il fatto che qualsiasi
brano, separato dal suo contesto e riportato senza virgolette né altri
riferimenti, puo’ essere usato all’interno di qualsiasi discorso di
tutt’altro taglio politico senza perciò rivelarsi omogeneo ad esso;
attaccare furibondamente Latouche, che non è stato in alcun modo
partecipe della discussione e che (in vacanza sui Pirenei) nulla ne sa;
attribuire alla sottoscritta la volontà di far credere che il dibattito
aperto da Liberazione sia “tra ‘economisti’, attenti solo alla moneta e
al profitto, e ‘ambientalisti’, difensori dell’uomo e della natura”: in
base a quale mio detto non si sa. Eccetera.

Altro assai più mi interessa. Dunque Ricci sostiene che per lui come per
tutta la sinistra sono ormai scontate ovvietà sia che la produzione
capitalistica sfrutta brutalmente lavoro e natura, sia che il Pil è da
rifiutare come indicatore di benessere. Molto bene. Ma così stando le
cose, mi riesce difficile capire come mai la grande maggioranza degli
esponenti di sinistra – di tutte le sinistre, temo – insistano
nell’invocare più Pil quale soluzione dei tremendi problemi che ci
affliggono, e nell’indicare maggiore produttività e competitività quali
strumenti per conseguirla: dopo decenni di crescita ininterrotta che non
ha impedito una drammatica caduta dell’occupazione, un brutale attacco
allo stato sociale, una crescente precarizzazione del lavoro; e quando
ormai la più comune strategia aziendale perseguita ai fini di crescente
produttività e competitività è lo spostamento di tutta o parte della
produzione verso paesi in cui il peggiore sfruttameno sia del lavoro sia
della natura consente ancora facile valorizzazione dei capitali: il
tutto naturalmente al costo di ulteriori pesanti perdite d’impiego.

Queste cose in parte già le ho dette nel mio intervento del 13 luglio,
proprio riferendomi alle parole di Ricci (7 luglio). Ma lui si lamenta
che nessuno abbia risposto a quelle che sono a suo avviso “le ragioni
politiche e analitiche che rendono la teoria della decrescita
inconciliabile con una ipotesi di fuoruscita da sinistra dal modello
neoliberista” . Entriamo dunque nel dettaglio. Ricci analizza l’attuale
crisi italiana, dovuta a “cronica insufficienza della domanda interna”
conseguente alle politiche restrittive imposte dal Trattato di
Maastrischt, che si traducono in un “razionamento di massa” per le
classi lavoratrici e aumento di “consumi opulenti” per i ricchi;
situazione per noi tutti inaccettabile, così come è inaccettabile
l’ipotesi di ulteriore riduzione dei consumi per pensionati,
cassintegrati, precari, ecc. S’impone quindi “una grande operazione
redistributiva, premessa e non conseguenza di una futura ripresa
economica”, con aumento di consumi, sia privati che pubblici.

Il motore di questa operazione consisterebbe fondamentalmente in “nuove
politiche di intervento pubblico” intese a pivilegiare non più l’aumento
delle esportazioni, come è stato finora, ma “il soddisfacimento di nuovi
bisogni interni, popolari e di massa”: ciò che – sostiene Ricci –
rappresenterebbe “una politica economica alternativa”, anzi “un nuovo
modello di crescita”. In quali modi questa operazione potrebbe trovare
attuazione Ricci non lo dice, e non sembra minimamente porsi il problema
di quella (iniqua devastante ma reale) cosa che chiamiamo
“globalizzazione”, alle cui regole comunque l’Italia, come l’Europa e il
mondo, poco o tanto risponde; e francamente riesce difficile immaginare
come il nostro paese, isolatamente, sarebbe in grado di mettere in campo
e portare avanti “una politica economica alternativa”, anzi “un nuovo
modello di crescita”.

Ma la domanda, anzi le domande, a imporsi sono altre. Perché mai la
politica che Ricci propone può definirsi “alternativa”? L’aumento di
consumi popolari e di massa non è proprio una novità. Ci aveva già
pensato Henry Ford. Solo che ai suoi tempi la cosa ha funzionato: oggi
ho i miei dubbi che si ripeterebbe. E comunque funzionava innanzitutto
ai fini dello sviluppo capitalistico. Analogamente, può davvero
considerarsi “nuovo” un modello fondato sulla crescita? Su che cosa si
sono fondati, e si fondano, i vari modelli di produzione e consumo
capitalistici succedutisi in due secoli, ultimo quello neoliberista, se
non sulla crescita, strumento primo dell’accumulazione capitalistica?
Eppoi non s’era detto che nessuno a sinistra crede più all’aumento del
Pil, alla crescita cioè, come a un indicatore di progresso e benessere?
Tanto da doverci vergognare noi che ci ostiniamo a dirlo ancora?

E veniamo alla salvaguardia dell’ambiente, problema immane, di cui
nessuno, sinistre comprese, pare avvertire tutta intera la gravità.
Torri sembra ritenere di poterlo risolvere con la politica dei consumi
popolari, che sarebbero meno inquinanti di quelli “opulenti”, panfili
piscine e simili, preferiti dai ricchi. Via, non scherziamo. Basterebbe,
se non altro - anche volendo per un attimo, e per assurdo, ritenerli
meno inquinanti singolarmente - pensare quale enorme volume inquinante
rappresenta la quantità dei consumi di massa. E ho già risposto
nell’articolo precedente a proposito dei consumi cosiddetti
“immateriali”, che in realtà immateriali sono assai poco. Ma in
quell’articolo avevo anche insistito (troppo, secondo qualcuno)
sull’argomento base, in qualche modo istitutivo dell’ambientalismo:
l’essere il pianeta Terra una quantità finita, come tale incapace sia di
fornire alimento a un’economia in continua espansione, sia di assorbirne
e neutralizzarne i rifiuti. La cosa, a quanto pare, non ha convinto
Torri. O forse non l’ha nemmeno presa in considerazione. Mentre immagino
resti fedele all’idea di una società comunista da realizzare “dentro i
punti più alti della modernità capitalista”, cioè alla surreale ipotesi
di emendare i mali del mondo mediante gli stessi strumenti e la stessa
logica che li hanno prodotti.

Per finire. Decrescita, la parola scandalo. Parola mutuata dal francese,
da movimenti gruppi riviste nati in Francia appunto, che ora anche in
Italia è titolo di un movimento e di una rivista appena apparsa. Parola,
dico subito, che non mi entusiasma granché. Non credo che “decrescere”,
cioè crescere meno, ridurre la crescita, rappresenti la soluzione: ciò
che occorre, a me pare, è cancellare l’idea stessa di crescita da ogni
ipotesi di modello economico alternativo, espungerla dal tentativo di
pensare un mondo diverso. E non mi si dica che i poveri gli affamati gli
emarginati, persone e popoli, di crescita hanno bisogno: la Fao, che non
mi consta essere un organo eversivo, afferma che il cibo prodotto nel
mondo è sufficiente a sfamarne l’intera popolazione. Sarebbe dunque
necessaria una gigantesca operazione redistributiva (proprio così,
compagno Torri, ma a livello planetario, non in Italia soltanto, e non
basata una volta ancora sulla crescita, come tu proponi) della enorme
ricchezza oggi esistente, ma concentrata tutta in poche mani, fino a
determinare la paradossale intollerabile iniquità di un mondo dove da un
lato si muore di fame, dall’altro si muore di obesità da
iperalimentazione.

In che modo farlo? Non possiedo la ricetta, ovviamente, né altri credo
la possiedano oggi. E però se si incominciasse a porre la domanda, già
sarebbe un buon inizio. Lo sarebbe soprattutto se le sinistre se la
ponessero, e magari anche si dessero il tremendo compito di abbozzare
una risposta: chi altri, se no? Nel frattempo, in un mondo che, da
destra e da sinistra, non sa che invocare crescita, la parola
“Decrescita” ha una sua funzione sanamente provocatoria. Non a caso
molti giovani del movimento l’hanno fatta propria.

Molti giovani del movimento hanno fatto propria anche quella necessità
di “decolonizzare l’immaginario collettivo” che Ricci rimprovera a
Latouche come un abbassamento della lotta contro il capitale, o
addirittura una rinuncia ad essa, ma che in realtà si pone come suo
necessario antefatto: processo di liberazione (o forse addirittura si
dovrebbe parlare di disinquinamento, di disinfestazione?) da modelli
esistenziali fatti di competitività e individualismo esasperato, di
corsa al possesso al consumo al successo al reddito, che lo strapotere
mediatico impone, penetrando il corpo sociale fino alle sue fibre più
segrete, a definire comportamenti desideri e scelte di vita. Non di rado
a determinare incapacità di critica adeguata anche tra chi più ne
avrebbe il dovere e la funzione.








Ancora su Georgescu-Roegen


Di Davide Biolghini


Carta, 26 Agosto 2005




Nella discussione su come affrontare la crisi recessiva della rubrica
“Nel nome di Caffè” mi ha sorpreso come chi propone o di stimolare la
domanda o di sostenere l’offerta di beni e servizi, non entri nel merito
delle modifiche degli stili di vita, consumo e produzione collegate a
tali opzioni, così come invece viene delineato dalla critica radicale
dell’attuale modello di sviluppo avviata, seppur con accenti diversi,
dalle varie componenti del movimento altermondialista.

Per motivi diversi (i riferimenti non corretti) sono stato colpito da
come sono state riprese, sempre su questi temi, le posizioni del
bioeconomista Georgescu Roegen. Lucarelli nel suo intervento del 5/8
“Roegen e l’ambiente” ha sostenuto che “…decrescere … e consumismo … non
costituiscono il punto teorico cui la riflessione di Georgescu Roegen
conduce”. Data la necessaria brevità mi limito, seppur consapevole della
parzialità del metodo, a richiamare alcuni suoi scritti tradotti in
“Bioeconomia” (Boringhieri 2003): “…credo fermamente che qualsiasi
progetto inteso a mantenere una esistenza tollerabile per tutta
l’umanità in futuro debba intervenire principalmente dal lato della
domanda e non da quello dell’offerta…In poche parole il mio programma
bioeconomico richiedeva la rinuncia a tutti i lussi e a qualche
comfort…”. E ancora: “La mania della crescita è ancora molto forte…Tutto
ciò comporta essenzialmente il ‘desviluppo’ [undevelopment] dei paesi
sviluppati…”.

Le principali riflessioni di Georgescu insistono proprio sulla necessità
di arrestare il modello di sviluppo occidentale, e nascono da una
analisi approfondita, seppur eterodossa rispetto a quella degli
economisti classici, sul degrado (entropico) costante ed irrevocabile
dell’energia/materia disponibile sul nostro pianeta.

A questo proposito concludo con una citazione da un’intervista di
Georgescu apparsa sul New York Times nel 1980 che dovrebbe far pensare
chi sor-ride di coloro “… la cui critica del capitalismo si risolveva
in ‘ profezie più o meno gravide di paura’…” (Cavallaro in “Nel nome di
Caffè” del 12/8): “Se non verrà presto realizzata un’azione seriamente
concertata per razionalizzare la produzione e la distribuzione dei
carburanti fossili, i missili probabilmente voleranno per assicurarsi
l’ultima goccia di petrolio”. Poi ci sono state le invasioni USA
dell’IRAQ del 1991 e quella in corso…






Crescita e decrescita tra economia e ambiente


Lo Spettro di Stalin e la rivoluzione d'Ottobre dietro le recenti
suggestioni dell'ambientalismo radicale? Troppo bello per esser vero

Di Emiliano Brancaccio









Negli ultimi anni, all'interno di molte formazioni politiche della
cosiddetta sinistra radicale europea, è prevalsa una concezione
perniciosamente "multiculturalista" della teoria e della prassi
politica. Secondo questa concezione, il successo di un partito non
dipenderebbe più dalla capacità di sviluppare una ferrea dialettica tra
le varie posizioni in campo e di derivare, da essa, una sintesi
superiore che possa guidare l'azione politica. Al contrario, il consenso
si misurerebbe in base alla capacità di giustapporre visioni anche
contraddittorie tra loro e di lasciare che tutte sopravvivano - ognuna
depositaria di una propria verità parziale - grazie ad una sostanziale
neutralizzazione dello scontro dialettico interno. La polemica
ambientalista, che si trascina ormai stancamente da anni, ha subito
anch'essa questo infausto destino. Ed è un peccato, considerato che gli
ambientalisti appartengono a quella rarissima, dialetticamente
fondamentale categoria di soggetti capaci di avere, al tempo stesso,
ragione da vendere e torto marcio.

Devo avvisare che nel tentativo di superare questa contraddizione farò
riferimento, in quel che segue, ad alcuni elementi di teoria. Il che
dopotutto è inevitabile: per costruire infatti la sintesi rosso-verde di
cui tanto si parla ma che tuttora sembra ben lungi dall'essere
acquisita, non mi risulta che basti citare a caso qualche passaggio
apparentemente agevole del Capitale.

Gli ambientalisti hanno ragione perché sono materialisti. Essi hanno
compreso, prima e meglio di tutti, che lo sviluppo illimitato del
capitale si inscrive in un orizzonte naturale finito, e che già da tempo
si avvertono i primi, devastanti segnali di impatto tra la meccanica
pervasiva dell'accumulazione capitalistica e i confini insuperabili del
sistema naturale. Gli ambientalisti ci ricordano inoltre che tali
segnali sono destinati a diffondersi e ad intensificarsi. E le loro
evidenze risultano ormai talmente robuste da far giustamente dubitare
della buona fede di chi avanza obiezioni nei loro confronti.

Un problema tuttavia si pone, e riguarda il modo in cui si decide di
interpretare la pressione crescente del capitale sul vincolo delle
risorse naturali. Sussistono a questo riguardo due opzioni: ci si può
soffermare sulla possibilità che questa pressione stravolga le attuali
condizioni di riproduzione dei rapporti sociali, oppure ci si può
concentrare sull'eventualità che essa finisca per compromettere le
condizioni di riproduzione della stessa vita sulla Terra.

Non è un mistero che molti ambientalisti prediligano, a torto, questa
seconda chiave di lettura. In particolare, la prospettiva
dell'autodistruzione del genere umano viene esaltata da una frangia
dell'ambientalismo radicale che potremmo definire "apocalittica". Il
relativo successo di questa frangia sembra direttamente proporzionale ai
suoi giganteschi limiti analitici: per quanto infatti la plausibilità di
un apocalisse ambientale sia ormai un dato scientifico acquisito, appare
evidente che una tale fretta di giungere alla "fine della Storia" denoti
una macroscopica carenza di strumenti per lo studio dei processi sociali
in corso. Non è un caso del resto che proprio gli "apocalittici" si
rivolgano, sia nelle loro analisi che nelle invocazioni, all'umanità
presa come un tutto, anziché alle classi e ai gruppi di interesse che la
compongono e che ne costituiscono le vicende. Purtroppo questo
orientamento risulta diffuso non solo presso la generosa militanza di
base, ma anche tra giganti del calibro di Nicholas Georgescu-Roegen,
sempre prodighi di esortazioni verso una non meglio specificata
"generazione presente" a tener conto degli interessi di una ancor meno
definita "generazione futura". Georgescu-Roegen fu un brillante critico
della economia volgare dominante. In alcune circostanze, come quella del
"teorema di non sostituzione", egli giunse persino ad anticipare alcuni
nodi cruciali del dibattito marxista novecentesco. Ciò nonostante,
bisogna ammettere che la tipica scelta, sua e degli ambientalisti, di
declinare il conflitto in chiave intergenerazionale anziché di classe,
rende i loro contributi esattamente speculari a quelli dell'economia
volgare. Il che in un certo senso è paradossale, visto che l'obiettivo
dichiarato di quest'ultima è di valorizzare l'astinenza dal consumo
presente per favorire non certo il risparmio energetico ma, al
contrario, proprio l'accumulazione futura di capitale.

La difficoltà di introiettare il vecchio insegnamento di Marx ed Engels,
secondo il quale la storia di ogni società è storia di lotte di classi,
spinge tuttora troppi ambientalisti verso una risibile deriva
etico-normativa, che li induce nella migliore delle ipotesi a formulare
progetti di ingegneria sociale tanto minuziosi quanto improbabili, e
nella peggiore a ricercare conforto in vere e proprie fughe
all'indietro, dal mondo e dal processo storico. Si pensi ad esempio al
dibattito sulla "decrescita". Su di esso è bene chiarire che, di fronte
alla ormai perenne sudditanza dei programmi delle sinistre europee ai
capricci del ciclo capitalistico, un attacco del genere all'apologia
della crescita potrebbe anche rivelarsi salutare. E questo non certo
perché il legame tra crescita capitalistica e occupazione si sia
attenuato, come qualcuno erroneamente si ostina a dichiarare; quanto
piuttosto perché risulta ormai chiaro a tutti il fallimento delle
strategie volte a subordinare le lotte per i diritti fondamentali,
incluso il lavoro, alle bizzarrie della congiuntura. Inoltre bisogna
aggiungere che, in linea di principio, non vi sarebbe nulla di sbagliato
nel porsi l'obiettivo politico di comprimere il reddito medio procapite
a livello mondiale. Si tratterebbe anzi di una decisione assolutamente
logica, se al netto del più ottimistico sviluppo delle tecnologie
risparmiatrici di risorse naturali si dovesse comunque registrare un
contrasto insanabile tra i limiti dell'ecosistema e l'espansione della
produzione e quindi dei consumi. Ovviamente, però, un obiettivo di tale
portata merita di esser preso sul serio solo se gli si affiancano
adeguati strumenti d'azione. E chiunque abbia un minimo di dimestichezza
con il funzionamento di un sistema economico complesso non tarderebbe a
riconoscere nell'abbandono dell'anarchia capitalistica e nella
espansione della economia pianificata l'unica svolta in grado di
trasformare lo slogan d'élite della decrescita in un credibile obiettivo
di massa.

C'è dunque lo spettro di Lenin e della Rivoluzione d'Ottobre dietro le
più recenti suggestioni dell'ambientalismo radicale? Troppo bello per
esser vero. In realtà la grande maggioranza degli ecologisti si divide
tra chi si lascia sedurre da sofisticati meccanismi di incentivo e
punizione fiscale - elaborati nell'ambito dell'economia volgare al fine
di bandire l'ipotesi della "proprietà pubblica" dal dibattito politico -
e chi addirittura decide di aderire alle farneticazioni di Latouche e
dei suoi epigoni sulla costituzione di enclaves di produzione e consumo
eque e solidali, autonome, periferiche e dissidenti rispetto alla
"megamacchina capitalistica". Insomma, se qualcuno ancora pensava che le
fantasticherie di Proudhon e dei socialisti borghesi fossero ormai alle
nostre spalle, farà bene a ricredersi in fretta.

I pochi ambientalisti più attrezzati sul piano sociologico e politico,
tuttavia, resistono con facilità a simili, sciagurate tentazioni. Essi
naturalmente non negano affatto l'eventualità dell'apocalisse
ambientale, né tantomeno si risparmiano quando si tratta di mettere
sotto accusa l'apologia imperante della crescita capitalistica. A tutto
questo, però, essi ritengono indispensabile premettere un esame dei
mutamenti che il vincolo delle risorse naturali provoca sul corso della
Storia, attraverso il suo impatto sulle condizioni di riproduzione dei
rapporti sociali prima ancora che della vita in generale. Non mancano, a
questo proposito, ricerche tese ad evidenziare come, già a partire dal
prossimo decennio, possa determinarsi una nuova tendenza nella
evoluzione dei prezzi relativi del sistema economico mondiale, e quindi
anche nella dinamica della distribuzione del reddito e del potere tra le
varie classi sociali. Queste ricerche rivelano che, nella classifica dei
"grandi ricchi" di domani, gli innovatori in campo scientifico,
tecnologico e finanziario potrebbero essere rapidamente soppiantati dai
meri proprietari di risorse naturali scarse: dalle fonti energetiche
all'acqua, passando per le sempre più rare e inaccessibili oasi
incontaminate, luoghi per eccellenza del privilegio. Tale tendenza
dovrebbe tra l'altro circoscrivere l'ottimismo di chi ha recentemente
sostenuto che la pressione capitalistica sull'ambiente possa esser
mitigata dallo sviluppo futuro di produzioni "immateriali e pulite".
Questo ottimismo potrebbe infatti essere al limite condiviso in termini
fisici, ma non certo in termini di valore. La ragione è che le
produzioni immateriali non pongono alcun ostacolo all'innovazione
tecnologica e quindi all'abbattimento dei costi di produzione. Al
contrario, la possibilità di ridurre i costi delle merci ad elevato
contenuto di risorse naturali risulterà sempre condizionata dai vincoli
fisici che tali risorse pongono alle innovazioni. La conseguenza è che
il peso economico delle produzioni immateriali è destinato a diminuire,
mentre quello delle risorse naturali, e della rendita ad esse associata,
pare inesorabilmente incamminato lungo un sentiero di crescita.

La domanda che a questo punto si pone è la seguente: chi pagherà
l'incremento delle rendite assegnate ai proprietari di risorse? I dati,
a questo proposito, sono inequivocabili. Da tempo si rileva che
l'impresa capitalistica riesce a scaricare l'intero peso della rendita
sul salario netto per unità di prodotto, attraverso una pressione
diretta sui prezzi e sulle condizioni di lavoro, e una pressione
indiretta sulle istituzioni per l'abbattimento della spesa sociale e la
privatizzazione demaniale. Volendo ricercare una spiegazione teorica per
questo fenomeno, dovremmo constatare l'ennesimo fallimento dell'economia
volgare: questa, infatti, basandosi sul principio secondo cui viene
sempre pagato meglio il "fattore produttivo" più scarso, dà luogo al
risultato, opposto ed armonico, secondo cui l'accumulazione e la
conseguente abbondanza relativa di capitale dovrebbero provocare un
accrescimento non soltanto delle rendite dei proprietari di risorse
naturali ma anche dei salari dei lavoratori. E dovremmo invece porgere
ancora una volta un tributo agli schemi di derivazione marxiana, gli
unici in grado di dar conto della compressione salariale e del
conseguente legame di fatto tra sfruttamento della natura e sfruttamento
del lavoro.

Ma, una volta accertata l'esistenza teorica ed empirica di questo
legame, quali sono le implicazioni politiche che se ne possono trarre?
L'implicazione decisiva è che l'attore principale della contraddizione
tra crescita economica e limiti dell'ecosistema non si situa affatto
alla periferia della "megamacchina capitalistica", ma esattamente al
centro della stessa. E' infatti sulla classe lavoratrice che ricade sia
lo sforzo della messa in movimento dell'accumulazione capitalistica, sia
il danno derivante dalle scarsità naturali che la stessa accumulazione
produce ed amplifica. Da anni questa contraddizione sfugge ai più, a
causa del fatto che la frammentazione produttiva ha reso i lavoratori
invisibili e pressoché muti sul piano politico. Essi, tuttavia, a
differenza della Natura e delle generazioni future (mute per
definizione), sono tuttora gli unici soggetti in grado di mettere in
crisi il meccanismo di sfruttamento sul quale è fondato il sistema di
potere vigente.

Per il perseguimento di questo obiettivo, gli strumenti di cui i
lavoratori dispongono, allo stato dei fatti, sono ben noti: una spinta
"incompatibile" sul salario per unità di prodotto e sulla quota di
disavanzo pubblico destinata alla spesa sociale. Chiunque preservi
ancora un minimo di memoria storica, dovrebbe riconoscere che una spinta
del genere non può mai essere interpretata semplicemente alla luce della
pur comprensibile esigenza dei lavoratori di migliorare le loro
condizioni di vita, assolute e soprattutto relative. Quella spinta,
infatti, proprio perché potenzialmente incompatibile, si presenterà
sempre, in primo luogo, come una vera e propria dichiarazione: di
esistenza politica e quindi di lotta per il potere e per la
trasformazione sociale.

Gli ambientalisti sensibili all'insegnamento marxiano non avranno alcuna
difficoltà nel convenire sul fatto che una seria battaglia in difesa
della natura dovrà sempre logicamente collocarsi all'interno e in
assoluta coerenza con le spinte incompatibili che la classe lavoratrice
eserciterà sulle variabili economiche del sistema. Gli altri ecologisti,
che preferiranno invece prender le distanze, magari paventando il
rischio che tali spinte diano luogo nel breve periodo a un incremento
dei consumi e quindi dell'inquinamento, indubbiamente avranno vita più
facile. Essi potranno infatti placidamente continuare a pubblicare
articoli allarmisti per il loro selezionatissimo pubblico, a giocare con
i loro inutili esercizi di ingegneria sociale, e qualche volta avranno
persino l'opportunità di flirtare con gli attuali centri di potere del
sistema capitalistico. Il tutto senza avere alcun bisogno di impegnarsi
nell'arduo compito di far uscire l'immaginario dei lavoratori dalla
gabbia capitalistica nella quale è rinchiuso. Non credo dunque di
sorprendere nessuno se, per questi ultimi ecologisti, riesumerò la
vecchia definizione di nemici. Di classe, e quindi dell'ambiente.






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