[Badgirlz-list] album di famiglia delle sufragette

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85 anni fa, il Tennessee fu l'ultimo Stato Usa
a ratificare il diritto di voto alle donne
Le suffragette americane
l'alba del femminismo
Washington, 2600 fotografie alla Libreria del Congresso
per raccontare quelle cittadine di seconda categoria


dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON - Le nonne del femminismo ci guardano corrucciate dal pozzo del
tempo, senza sorridere, nessuna di loro. Non c'è una di quelle duemila e
seicento donne raccolte nell'album di famiglia delle suffragette esposto
ora alla Libreria del Congresso di Washington che osi concedersi al lampo
di magnesio, come se tutte temessero di dare un segno di "debolezza
femminile".

Quella debolezza che le aveva condannate a essere cittadine americane di
seconda categoria. Le più anziane, le veterane dei picchetti e degli
appelli come Susan B. Anthony, le altre imbustate e strizzate in corsetti,
stringhe e "bustier" (il mito dei reggipetti bruciati era ancora molto
lontano) hanno un'espressione di amara determinazione, come se sapessero
che non avrebbero mai attraversato il traguardo per il quale avevano
camminato tutta la vita e che sarebbe stato tagliato un 26 agosto come
oggi di 85 anni or sono, quando l'ultimo stato americano, il Tennessee,
ratificò il voto alle donne. E infatti Susan Anthony, soprannominata
"Napoleone" per il suo cipiglio di condottiera, era già morta.

Queste terrificanti rivoluzionarie con i capelli bianchi, il cappellino di
paglia, il collare di pizzo e il cammeo, erano le vandale in sottogonne di
crinolina che "avrebbero distrutto la famiglia" e "spazzato via i valori
morali della nostra società" come tuonava l'immancabile trombone
dell'epoca, Orestes Bronson. I buoni cittadini, i bravi padri di famiglia,
i conservatori erano terrorizzati dalla coincidenza fra il movimento
femminile e la invenzione del processo di vulcanizzazione della gomma che
nel 1859 aveva permesso la produzione industriale di profilattici moderni,
palese strumento di devastazione morale e di liberazione della sessualità,
come decenni dopo la "pillola". Ma le rovinafamiglia hanno tutte,
nell'album, un'aria di impeccabile e vittoriana rispettabilità borghese,
come era il mondo dal quale venivano.

Erano mogli di austeri businessmen, di predicatori quaccheri o anglicani,
certamente più beghine che dissolute, predicatrici della temperanza,
studentesse frustrate in una società nella quale Elizabeth Cady si sentì
dire dal padre avvocato, dopo anni di pratica nel suo ufficio: "Peccato
che tu sia femmina, Liz, saresti stata un eccellente avvocato" e Harriet
Stowe poteva scrivere un best seller sconvolgente come "La Capanna dello
Zio Tom", ma non votare neanche per il consiglio comunale. Hanno in fondo
la stessa espressione di orgoglio e di pudore dei fantaccini ritratti in
uniforme prima di essere mandati al massacro. E se nessuna di queste
signore immortalate nei primi dagherrotipi del 1848 (lo stesso anno del
Manifesto marxiano), quando il movimento per il voto alle donne cominciò
con una "Dichiarazione di sentimenti" scritta attorno a una tazza di tè da
Lucretia Mott e da Jane Hunt e poi fino alla vittoria del 1920, cadde al
fronte, parecchie finirono dietro le sbarre.

Nello sguardo severo e rampognante che l'ormai anziana "Napoleone" rivolge
all'obbiettivo insieme con l'amica e compagna di battaglia Elizabeth Cady
maritata Stanton, l'avvocato mancato, come negli occhi accesi e duri di
Amelia Boomer, che nella propria casa di Seneca Falls, nello stato di New
York, ospitò molte cospiratrici, sembra esserci il segno di un rimprovero
lanciato attraverso le generazioni alle loro nipoti e pronipoti, alle
diciottenni e ventenni di oggi che, ancora più dei loro coetanei maschi,
disertano in massa le cabine elettorali conquistate dalle bisnonne.

Eppure i padri fondatori, tirati per la giacca dalle madri fondatrici che
avevano scritto ai mariti, come la signora Abigail Adam al marito e futuro
Presidente John, "ti prego, mio caro, di non dimenticare le donne nelle
leggi che scrivete", sembravano aver affermato senza equivoci la
eguaglianza tra uomini e donne, nel preambolo della Costituzione, e i loro
"inalienabili diritti". Belle parole, ma già nel 1777 una legge passata in
fretta dal Congresso aveva negato il voto alle femmine, per i successivi
143 anni.

Si capisce, dunque, perché quelle duemila e seicento donne non sorridano
nel vecchio album del femminismo. Neppure Presidenti abolizionisti come
Lincoln, "progressisti" come Theodore Roosevelt o "illuminati" come
Woodrow Wilson, accettarono le petizioni del Nawsa, il movimento nazionale
delle suffragette. Il Congresso, davanti al quale ogni anno,
implacabilmente, Susan Anthony si presentava per pronunciare le sue
filippiche, faceva altrettanto.

Applaudiva, incoraggiava, sorrideva e poi insabbiava. La famiglia, si
doveva proteggere la famiglia.
Furono la guerra, spietata madre di cambiamenti, dove 350 di queste donne
perdettero un figlio in uniforme, a sbloccare le ruote della storia e dare
senso a una Costituzione che, come tutte le carte costituzionali, ha
soltanto valore nell'applicazione e non nella lettera. Nel grande
rimescolamento culturale e morale degli anni '20, fu votato e approvato
quell'emendamento costituzionale che gli Stati poi ratificarono. Le nonne
del femminismo avrebbero potuto finalmente sciogliersi i corsetti,
respirare e sorridere, ma soltanto fino al 1976, quando l'emendamento che
avrebbe definitivamente vietato ogni discriminazione "basata sul sesso" si
arenò a 36 dei 38 stati necessari. Lì è rimasto.

Per confermare il vecchio detto della saggezza popolare americana, che "il
lavoro di una donna non è mai finito"