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Auteur: comitato25aprile@katamail.com
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Sujet: [Incontrotempo] Il vento di Licata: Cronache del Campeggio Antirazzista
Il vento di Licata: Cronache del Campeggio Antirazzista
Sicilia Agosto 2005
Penso che senza volerlo sono nata in questa terra, che senza volerlo mi ritrovo cittadina di uno stato che suscita senso di compassione negli altri, mi ritrovo senza volerlo con la pelle bianca, europea, non extra ma comunitaria, mi ritrovo senza volerlo alleata con una grande potenza che da sempre è in guerra per ampliare il suo potere spacciandosi per portatrice di libertà. Mi ritrovo senza volerlo a essere complice di mille cose ingiuste.


Come Francesco Monteiro Rossi, il giovane di Sostiene Pereira, io non mi occupo di politica, sono solo una scrittrice. Così, scrivendo, mi è capitato di raccontare storielle di fantasia per bambini, mi è capitato di scrivere poesie d’amore. Mi è capitato di scrivere riflessioni per la via crucis del Venerdì Santo, mi è capitato di scrivere lettere di rabbia, mi è capitato di cominciare romanzi e di lasciarli a metà…mi è capitato poi ancora di scrivere indovinelli per una caccia al tesoro, mi è capitato come Monteiro Rossi di scrivere nulla ma scrivere molto.


1 Agosto 2005


Studiare sotto il sole filosofia della scienza, con la musica, le voci che si inseguono e si soprappongono in mille discorsi, discorsi di persone che si conoscono da una vita, di altre che si presentano appena allora e il solito “da dove vieni?” o “come ti chiami” “Si ci sono stato a Dicembre” “ Ah, pure il mio cane si chiama cos씅Insomma è un impresa ardua studiare oggi, mentre devo ancora capire dove sono, esplorare il territorio. C’è la radio inventata per il campeggio, Radio Sud Ribelle, della quale si occupano compagni di Roma, di radio onda rossa, e i ragazzi di Palermo. fotografo lo striscione con il nome e un ragazzo sotto, mi piacerebbe capire come funziona una radio ma c’è troppa gente e poco spazio dentro una casetta che ha solo tre stanze e un bagno con la tendina volante. Mentre arriviamo carichi di stanchezza, il materiale per il service e il nostro povero bagaglio, ascoltiamo dalla radio che una piccola delegazione di compagni del campeggio si trova a Ragusa davanti al centro di permanenza temporanea, dove molte donne vivono in una condizione disumana, senza alcun tipo di assistenza, né medica né legale, e non c’è nessun motivo per cui tenerle prigioniere in quel posto, per questo la tensione sale e dalla radio a fine giornata si percepisce molto.

I proprietari del posto sono persone semplici, vivono in una casetta che mi ricorda tanto la casa di Heidi, un bambino piccolissimo con il pannolino sempre cadente corre con una paletta da mare in mano, è il loro bambino, abbronzato e selvaggio, diverso dai bambini di città che solitamente si nascondono dietro le vesti delle madri di fronte agli estranei.

La notte scende senza un filo di vento, non ho ancora visto il mare e non ho ancora capito l’organizzazione di questo campeggio, e mi sarebbe piaciuto poter essere a Ragusa invece di litigare da sola con una tenda ribelle.


2 Agosto 2005

Nel primo pomeriggio, dopo l’ assemblea per organizzare bene la partenza e per capire dove andare e se andare, in meno della metà dei campeggiatori partiamo per Porto Empedocle, 6 in una macchina, uno sull’altro (va bene basta che si parte), con la macchina fotografica e un rullino soltanto e la borsa colma di mille cose essenziali. Porto Empedocle è come mille altri porti, pescatori stanchi dalle braccia forti e dalla pelle abbronzata dal sole e bruciata dal sale; turisti pallidi e biondi, su navi che sventolano le bandiere del loro paese, con l’ aria rilassata di chi è in vacanza, e un accenno di curiosità per quel posto nuovo chiamato Sicilia.

E’ un porto come mille altri, anche se questo non è vero, e il mare che bagna la banchina lo sa e lo sanno loro, che arrivano da lontano, su barche che sventolano il loro colore e la loro nazionalità, non hanno l’aria rilassata di chi è in vacanza, ma la paura di chi è scappato e sa che ancora dovrà scappare. Porto Empedocle è un porto come mille altri, ma questo non è vero e lo sanno loro, uomini in divisa che hanno avuto oggi l’ordine di “accogliere” 20 uomini arrivati su un barcone, metterli in fila come bambini all’uscita da scuola e condurli su un pulmino chiamato casualmente Cuffaro. E che Porto Empedocle non è un porto come mille altri lo sappiamo noi, che siamo venuti da ogni parte di Italia per contribuire, finché possiamo, alla libertà di uomini venuti qui a cercarla. Basteranno le nostre brutte facce, uno striscione, basteranno le nostre idee urlate, basterà semplicemente questo per far distrarre gli uomini in divisa e far fuggire gli altri. Mi chiedo quale forza abbiano trovato per sfondare un vetro e correre così veloci, dopo la traversata del mare e con la paura addosso che a me fa un effetto paralizzante.

Tutti questi pensieri mi distraggono così tanto che non mi importa niente dei poliziotti che adesso sono parati pronti per partire in guerra: caschi, manganelli e scudi, la solita scenetta in cui loro fanno la parte dei duri contro tutti gli altri, disobbedienti, compresi i giornalisti, i fotografi e l’avvocato che voleva esercitare solo il suo dovere. Ad un tratto penso che noi non dovremmo neppure essere li a manifestare per una cosa ovvia e innata, il diritto all’esistenza. Mi sento confusa da questa contraddizione: la legge da una parte, i diritti umani dall’altra, mi sento confusa dal fatto che per molti sia normale questa netta differenza tra il potere della legge e la libertà dell’uomo. Si, credo che sono proprio le contraddizioni alle quali giorno dopo giorno assistiamo, a farci essere così poco felici.

Torniamo a casa e guardo le campagne intorno, campagne aride, senza un albero, senza un riparo, campagne che a correrle sembra non finiscano mai.

Mentre torniamo in macchina racconto la storia di Hannah, la bambina Etiope che ho avuto la fortuna di conoscere un paio di anni fa, e di una coppia di giovani Srilankesi dal nome troppo complicato da scrivere con i quali abbiamo vissuto momenti di umanità immensa.

Chissà, mi chiedo, se questi uomini riusciranno a incontrare persone amiche, un riparo per la notte, un sorso d’acqua fresca, un pasto per la sera.


3 Agosto


E’ ancora l’alba quando una tempesta di vento ci costringe a svegliarci e a smontare le tende. La nostra tenda resiste, si apre e chiude come un polmone gigante, è in tensione e sento che sta per strapparsi, così l’atterriamo noi prima che sia il vento a farlo. E’ meno imbarazzante.

E’ un giorno disorientante, la terra insieme alla sabbia e al sale ricopre in breve tempo ogni poro del nostro corpo. La forza assoluta del vento mi impressiona, la spiaggia si perde sotto le onde di un mare impazzito, la ringhiera delle scale dondola e tutto crolla intorno a noi come durante un terremoto.

La sera a Licata il vento è meno forte, siamo impresentabili pure a noi stessi e sulla nostra testa la sabbia può dare vita a una varietà di allegre piante grasse.

Il corteo parte con gli striscioni e gli slogan, il più bello mi sembra “la Sicilia ce l’ha insegnato, emigrare non è reato” ma noi lo aspettiamo dal palco in piazza Progresso, dove facciamo la guardia pure al tavolino dei ragazzi di rifondazione comunista che vendono magliette e libri.

Una comitiva di ragazzi francesi si ferma, parlano poco l’inglese e l’italiano ma si capisce che vogliono una maglietta di taglia molto piccola,

poi ci chiedono informazioni e con i gesti e qualche parola in inglese cerchiamo di spiegare che manifestiamo per i diritti degli immigrati, perché vogliamo che vivano liberi nella nostra terra dove invece sono trattati come fossero delinquenti. Ci ringraziano gentilmente e proseguono verso il corteo.

Un anziano signore legge lo striscione appeso davanti al palco, ha la faccia contorta come se avesse cercato di tradurre dall’arabo, sempre con la stessa espressione mi chiede cosa stiamo facendo, gli spiego che c’è un corteo per manifestare contro i CPT e la faccia gli si contorce ancora di più, gli spiego cosa sono, mormora qualcosa e mi abbandona sempre con la stessa espressione da traduzione dall’arabo quando l’unica lingua che conosci è il siciliano.

Quando il corteo ritorna, dal palco mettiamo un CD di canzoni da manifestazione e un gruppo di ragazzi balla scalzo tra le pattuglie della polizia.

Al corteo erano in molti, c’erano pure i cani campeggiatori come noi.

Quando torniamo al campo il vento sembra calato, il paesino di Licata assorbe nella notte parole come “ANTIRAZZISMO” e “DIRITTI UMANI” come fossero parole strane di un nuovo dizionario.


4 Agosto


Da Lampedusa arriva la tragica notizia che un barcone con 130 persone per lo più eritree è sparito nel mare che oggi è spietato più di ieri.

Guardo dalla casetta dei proprietari il campeggio, le tende abbattute, bottiglie vuote e sparse in giro, in giro c’è sparsa ogni cosa, nel caos più totale, così come nelle docce e dappertutto. Mi rendo conto che mettere molte teste insieme è difficile e senza organizzazione, per quanto le iniziative esterne vadano bene, il campeggio provoca solo stress e scazzi incontenibili.

Faccio amicizia con poche persone che vivono insieme a noi le stesse situazioni, parliamo delle cose più umane e del desiderio di poter essere ciò che vogliamo nella nostra terra. Ci rendiamo conto di essere veramente tutti clandestini e migranti. Francesco che da Roma vive a Firenze, e la sua ragazza Barbara che invece è dovuta andare più in la a Vicenza. Trascorriamo molto tempo insieme e parliamo di tutto, di musica, di poesia, dell’importanza della storia, dei nostri sogni, il sogno di due innamorati di poter vivere insieme, il sogno di un’ artista di poter vivere della sua arte.

Mi rendo conto che molte delle persone che sono al campeggio, hanno ormai da tempo dimenticato i sogni e si sono dati all’abbandono più totale, di se stessi e di tutto ciò che li circonda. E questo è triste se si pensa che invece 130 persone oggi sono morte andando incontro verso quello che per loro doveva essere la vita, vita di persone libere con il proprio vissuto da raccontare, con le proprie amarezze e le tante speranze, con le foto nel portafoglio di amori lontani.

Persone come Abu, spero si scriva così, che stasera dal palco ha raccontato cos’è per lui questa assurda legge Bossi-Fini, figlia della Turco-Napolitano, a testa alta, con un abito particolare del suo Paese, in un Italiano perfetto, con i congiuntivi al posto giusto, ci ha lasciati tutti senza parole.


5 Agosto


E’ già mezzogiorno, abbiamo nello stomaco un caffè amaro senza neanche un cornetto, sotto il sole aspettiamo l’autista della macchina blu, del quale però non ricordiamo il nome. Quando arriva mi ricordo, è Sandro, il papà di Giulia e Yuri, due gemelli di tredici anni che giocano a scambiarsi i ruoli, a porre indovinelli su chi fosse di loro due il maschio e la femmina, e il dubbio, dopo la rivelazione continua a persistere, tanto da occupare per un giorno i tuoi pensieri. Sandro è un uomo dal cuore grande, e quando parla dei figli fa tenerezza, ha due figli davvero in gamba, glielo ripetiamo più volte e lui ne è contento. Sono in gamba, credo, perché hanno due genitori in gamba. Lui ha un lavoro e una casa, ma nel tempo libero occupa le case per chi non ne ha e non sa come si fa ad ottenerne una. Ci parla dell’autorità paterna e ci spiega la distinzione tra autorità e autoritarismo. La differenza è interessante e fondamentale: l’autorità nasce dall’amore, autorità è fiducia verso un uomo più grande che ti ha dato la vita e di cui ti puoi fidare perché è tuo papà. L’autoritarismo è solo smania di superiorità.

Lei è rimasta a Roma a lavorare. Oggi i ragazzi resteranno al bar dove hanno fatto amicizia con le ragazze che vi lavorano e danno una mano perché, dice Giulia “tutti stanno a fare, e noi che famo?”


Alla prefettura di Agrigento appendiamo uno striscione alle finestre del primo piano, un altro lo teniamo sulla strada dove distribuiamo volantini che raccontano di quanto accaduto il giorno prima nel mare di Lampedusa.

Un ragazzo francese si ferma davanti lo striscione, con aria di commiato ci spiega che conosce la legge e sa che purtroppo in Italia abbiamo Berlusconi, che con la erre moscia dei francesi risulta ancora peggio.

Gli spieghiamo che per una simile tragedia hanno adoperato solo meno di mezza pagina sul giornale “La Sicilia”, lui ci saluta dispiaciuto “Spero che in Francia parlino di questo fatto” Ci dice e se ne va traducendo alla compagna che lo segue perplessa.

Una delegazione sale dal Prefetto, quando scende ci porta le solite promesse, non sospenderanno le ricerche, continueranno a cercare le cause del naufragio e i morti in fondo al mare; nel frattempo qualcuno da Ragusa ci comunica che 6 donne sono state liberate dal CPT, e in molti applaudono, anche se la gente che passa non capisce, alcuni passando mormorano qualcosa scrollando la testa.

Torniamo a Porto Empedocle con lo striscione “Meglio liberi di scappare che morti in fondo al mare” ci sono molte tv locali, alcuni di noi vengono ripresi mentre gettano a mare delle rose rosse, al bar del porto rivediamo il video della giornata del 2 Agosto a Porto Empedocle da un televisore, non si vede molto bene ma la gente che è lì capisce cosa è accaduto e sta accadendo. E’ una giornata oltremodo lunga e stancante, ma la sera il sonno arriva come un regalo tanto atteso

E’ l’ultimo giorno, il 6 Agosto il campeggio va a Messina per la manifestazione contro il ponte, noi, torniamo a Siracusa, la nostra città, e mentre sono per strada penso a cose semplici come alle montagne, alle mucche che brucano sul ciglio della strada, alle nuvole che creano immagini di animali strani e mitologici dal cielo, penso che senza volerlo sono nata in questa terra, che senza volerlo mi ritrovo cittadina di uno stato che suscita senso di compassione negli altri, mi ritrovo senza volerlo con la pelle bianca, europea, non extra ma comunitaria, mi ritrovo senza volerlo alleata con una grande potenza che da sempre è in guerra per ampliare il suo potere spacciandosi per portatrice di libertà. Mi ritrovo senza volerlo a essere complice di mille cose ingiuste.

Adesso credo di sapere cosa voglio!

Comitato25aprile
http://www.uonna.it/vento-di-licata.htm
Simona Caruso

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