RIFLESSIONE. GIAMPAOLO CALCHI NOVATI: "NUOVO ORDINE MONDIALE" E "GUERRA
INFINITA"
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 luglio 2005. Giampaolo Calchi Novati,
nato nel 1935, docente universitario, e' tra i massimi esperti italiani
delle questioni del sud del mondo. Tra le opere di Giampaolo Calchi Novati:
Neutralismo e guerra fredda (1963); L'Africa nera non e' indipendente
(1964); Le rivoluzioni nell'Africa nera (1967); La rivoluzione algerina
(1969); Decolonizzazione e terzo mondo (1979); La decolonizzazione (1983);
Dopo l'apartheid (a cura di, 1986); L'Africa (1987); Nord/Sud (1987);
Maghreb (a cura di, 1993); Il Corno d'Africa nella storia e nella politica
(1994); Dalla parte dei leoni (1995); Storia dell'Algeria indipendente
(1998); Il canale della discordia (1998)]
Nessuno puo' dire con sicurezza quali siano gli obiettivi, se non degli
attivisti presi singolarmente, del terrorismo inteso come strategia unitaria
o almeno come somma di attentati e altri crimini che in qualche modo vengono
coordinati o si ripetono per emulazione. Ammesso che sia fondata l'immagine
corrente di un islam politico, radicale, fanatico, deviato o degenerato che
vuole attaccare, punire, distruggere l'Occidente e la superiorita'
tecnologica, la modernita', la democrazia e la razionalita' rappresentate
dall'Occidente, e' certo che per l'Occidente, anche nei propositi di chi
nelle varie sedi sostiene la necessita' di "militarizzare" la politica per
tener testa al terrorismo, la priorita' non e' la guerra contro l'islam.
Sono altre le ragioni alla base dei conflitti di cui e' intessuta la trama
del "nuovo ordine mondiale". Ed e' questa la manifestazione piu' evidente
dell'asimmetria della guerra in atto. Non e' solo una questione di buona
volonta'. Un modello interpretativo troppo schiacciato sulla
contrapposizione con l'universo islamico, gia' evocato da Bush senior come
un termine di riferimento obbligato per l'azione degli Stati Uniti ma piu'
in una prospettiva di convergenza che di scontro, non regge alla prova dei
fatti (e degli interessi).
*
Nel variegato teatro bellico dei Balcani, per tutti gli anni '90, dove solo
nella rivalita' diretta o a distanza fra Croazia e Serbia il fattore
musulmano non ha pesato, l'America e l'Europa hanno parteggiato di fatto per
i musulmani. Sia in Bosnia che in Kosovo, gli interventi militari della Nato
hanno finito per favorire i musulmani. La causa principale di quello
schierarsi non era l'islam ma questo fu il risultato ultimo. Stati Uniti ed
Europa avevano i propri fini e le proprie poste, fossero le vie del
petrolio, il controllo di una periferia irrequieta incamminata verso il
mercato, il contenimento dell'espansionismo panserbo o la "moralita'" di una
causa nazionale o di una minoranza conculcata (o far paura alla Cina).
Intanto, poiche' difendevano la stessa causa, o avevano gli stessi nemici,
non si fecero scrupolo di combattere fianco a fianco con alcune schegge
dell'integralismo islamico, riconoscibile come tale nella mobilitazione, nel
reclutamento e nell'espressione delle rivendicazioni. La militanza musulmana
nella Jugoslavia o ex-Jugoslavia era in parte il seguito di un movimento che
gli occidentali e in particolare gli americani conoscevano bene avendolo
suscitato, eccitato o sfruttato in Afghanistan per una battaglia che ha
inciso enormemente nelle sorti del rapporto Est-Ovest.
Il presidente Karzai ha detto durante la sua recente visita in Italia che
all'origine della voragine terroristica c'e' l'Afghanistan. Ed e'
impossibile negare che nella vicenda afghana gli Stati Uniti hanno svolto la
parte dell'apprendista stregone nei riguardi del fondamentalismo, dalla
rivolta autodifensiva delle tribu' a bin Laden e ai Taliban. Molti dei
reparti, delle armi e dell'esperienza logistico-operativa impiegati nelle
guerre balcaniche venivano dritti dritti dall'Afghanistan. Anche in Algeria,
per citare una fattispecie piu' circostanziata ma non meno dirompente nella
storia della transizione di questi nostri tempi, i cosiddetti "afghani" sono
stati una componente rilevante.
Nella guerra contro l'Iraq del 1990-'91 dopo l'invasione del Kuwait, l'islam
non e' stato cosi' importante come alcuni comprimari hanno creduto. Il
petrolio troneggiava sullo sfondo della riaggregazione dei poteri dopo la
fine della guerra fredda. I due contendenti appartenevano allo stesso mondo
arabo-islamico. L'Iraq non aveva rimostranze di carattere islamico da
rivolgere al vicino ma riprendeva un antico revanscismo territoriale o
nazionalistico. Se mai, Saddam Hussein chiedeva di essere ripagato per gli
sforzi e i sacrifici che aveva compiuto nella guerra intentata all'Iran per
frenare la spinta dell'islamismo integralista trionfante a Teheran e
minaccioso per tutti nel Golfo.
*
Gli Stati Uniti organizzarono la guerra partendo dall'Arabia Saudita,
custode tradizionale e indiscusso dei "luoghi santi" dell'islam. Molti paesi
arabi, in primis Egitto e Siria, aderirono alla coalizione contro l'Iraq. Il
tentativo di Saddam di usare il linguaggio della "guerra santa" cadde nel
vuoto. Un partito come l'algerino Fronte islamico della salvezza reagi'
all'abuso commesso dall'Iraq prendendo posizione a favore del Kuwait e
dell'Arabia Saudita proprio per coerenza con la sua devozione per i campioni
del wahhabismo: fu solo dopo una lacerante revisione critica che il Fis si
sposto' sul versante dell'Iraq, e non furono argomenti islamici a indurre i
governi del Maghreb (o l'Olp) a tenersi fuori dalla "grande alleanza" che
alla fine umilio' l'Iraq e restitui' il Kuwait al suo sovrano.
Far partire tutto l'armamentario del terrorismo islamico dall'11 settembre
2001 e' un espediente tattico. Ma e' una semplificazione eccessiva di un
fenomeno complesso e sfaccettato, che a rigore, proprio per le motivazioni
che gli vengono attribuite, trascende il Medio Oriente investendo altri
scacchieri, poco importa se oggi silenti, rassegnati o impotenti. Non per
niente e' la versione che torna piu' utile alla "sindrome di Pearl Harbor",
ai teorici della guerra come risposta a una guerra iniziata e addirittura
dichiarata dagli altri, sapendo bene che un'escalation di piu' lunga durata
vedrebbe gli Usa un po' meno incolpevoli. Gli stessi Stati Uniti avevano
fatto ricorso all'arma delle ritorsioni anni prima, come nel 1998, ancorche'
per andare a caccia di terroristi o di complici del terrorismo per episodi
come gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Del resto,
piu' si allarga la tematica a scenari apocalittici come appunto le guerre di
civilta', le crociate e soprattutto la guerra dell'islam contro l'Occidente
o dell'Occidente contro l'islam, e piu' il casus belli rischia di dover
essere retrodatato: alla guerra dei sei giorni o, perche' no, a Suez 1956 o
al vulnus per eccellenza che per gli arabi e un certo islamismo e'
costituito dalla formazione dello Stato di Israele con la perdita di
Gerusalemme. Una volta fermata l'immagine sulle Torri Gemelle e al-Qaeda, la
matrice islamica ha guadagnato il centro della scena e non l'ha piu'
lasciato. Ha inquinato progressivamente anche la guerra contro Saddam del
2003, malgrado sia stata ufficialmente giustificata con le efferatezze del
tiranno e la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Un fatto
compiuto per forza d'inerzia.
*
E' ragionevole supporre che in una fase storica di profondi sconvolgimenti a
livello di sovranita' e di integrazione, le elites e le popolazioni arabe e
musulmane nutrano piu' acrimonia e ambizioni di altri spicchi di quello che
negli anni della guerra fredda era il Terzo mondo, sede anche in passato
delle guerre in proprio o per interposta persona. Sono pressoche' tutti
islamici gli stati inseriti da Bush nell'Asse del Male. Basta pensare
tuttavia alla funzione del Pakistan di Musharraf o dell'Egitto di Moubarak,
con l'Arabia Saudita costretta dalla prudenza a un profilo piu' basso, o
alle stesse bombe disseminate in Indonesia o a Sharm el-Sheikh, per capire
che si tratta pur sempre di una realta' (o di una metafora) trasversale.
Neppure cio' che dice Kissinger o scrivono i neo-realisti di casa nostra sul
diritto-dovere di bombardare l'Iran per prevenire un riarmo nucleare degli
ayatollah vale da prova suprema dell'accanimento discriminatorio contro
l'islam. Il mondo musulmano, se ha senso definirlo in questi termini, ha la
sua brava bomba "legale" in mano al Pakistan, accusato a suo tempo di essere
la centrale di tutte le possibili, paventata o inventate bombe "islamiche",
dall'Iraq alla Libia, e riabilitato dopo che si e' messo giudiziosamente al
servizio delle guerre americane.
Sciaguratamente, la guerra dell'islam o contro l'islam ha fatto macchia
d'olio coinvolgendo, come dimostrano gli ultimi avvenimenti, le comunita'
musulmane che vivono in Europa e che sono parte integrante dell'Europa (meno
degli Stati Uniti, dato che il melting pot americano ha altri ingredienti e
altre caratteristiche). L'accentuazione della qualificazione "islamica" del
conflitto e' un pericolo mortale perche' prefigura una guerra dell'Occidente
contro l'Occidente. Con queste premesse, anche una scelta, politica e in
fondo innocua, come l'ammissione della Turchia nell'Unione Europea cambia
diametralmente di significato. La guerra sta assumendo infatti sempre piu'
l'aspetto di un'enorme guerra civile: la "libanizzazione" come fine e come
mezzo, "moderati" contro "estremisti", ecc. La tipologia e' quella delle
"nuove guerre" studiate da Mary Kaldor, in cui la dimensione infrastatuale
prevale su quella interstatuale e in cui le vittime sono in grande
maggioranza civili (anche delle guerre, non solo del terrorismo, purtroppo).
*
La guerriglia di movimento non conviene alle grandi potenze, piu' a loro
agio con la guerra di posizione lungo un fronte visibile e riconosciuto. Da
qui la ricerca, spesso tendenziosa, di stati, meglio se lontani, in cui
"formalizzare" la guerra. Ed invece la guerra - globale come globale e' la
strategia che l'ispira, "infinita" nel tempo e nello spazio - appare,
scompare e riappare in tutti i luoghi in cui il Sud e il Nord si incontrano
e rimbalza fin dentro gli slums delle metropoli postindustriali attraverso i
figli e nipoti dell'era coloniale, della manodopera di riporto e
dell'emigrazione clandestina. Quella presenza dava la misura di quanto fosse
attraente e vincente l'Occidente, ma, ulteriore motivo di frustrazione e di
rivalsa, e' percepita ormai come l'anello debole di un dominio che in quanto
tale peraltro nessuno e' disposto seriamente a mettere in discussione.
Il pregiudizio anti-islam e' lampante in molti atteggiamenti politici e
culturali dei governi e soprattutto delle opinioni pubbliche dei paesi
occidentali, comprensibilmente nelle condizioni che si sono venute a creare.
Ma quello che conta davvero e' l'incapacita' del sistema mondiale cosi' come
forgiato nell'Ottocento, sulla scorta della diffusione dell'ordine imperiale
dettato allora dall'Inghilterra vittoriana, di accettare alla pari i popoli
o i regimi che, a prescindere dalla religione, l'ideologia o il modo di
produzione, non rinunciano a una propria soggettivita', magari, e per
paradosso, nell'interesse di gruppi dirigenti allettati dalla lezione
impartita dall'Europa e dal capitalismo. Alle nazioni illiberali il
liberalismo fa fatica a riconoscere diritti. Anche se non ci sono nessi
immediati, e' qui che si annida la spirale perversa guerra-terrorismo o, se
si preferisce, terrorismo-guerra. Le potenze costituite non vogliono
condividere con nessuno il privilegio di decidere, loro e solo loro, il
livello di violenza che e' ammissibile in politica internazionale. Tanto
piu' quando, come oggi, il contenzioso, al di la' di tutte le finzioni ed
esasperazioni, riguarda l'accesso alle risorse energetiche, la padronanza
delle vie di comunicazione e la disponibilita' della forza-lavoro su scala
mondiale.
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