[Badgirlz-list] Note su aborto, diritti e natura

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Szerző: Sealz
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da Anarcotico
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Note su aborto, diritti e natura


- a cura di: Massimo Passamani


Ho letto il libretto di Silvia Guerini, Aborto. Spunti critici di
riflessione. Credo che meriti una critica aperta.
Va detto subito che il testo è cucito con strumenti che ricordano da vicino
quelli del cosiddetto Movimento per la vita: la poesia ai bambini mai nati,
le foto dei feti aspirati, le testimonianze di donne distrutte dalla scelta
di abortire e accostamenti confusi e offensivi (come quello tra aborto,
sperimentazione e commercio dei feti, inserito solo “per una maggiore
completezza dell’argomento”: pp. 68-69). In un passo si dice addirittura:
“Sterilizzazione ed eutanasia, ora interruzione della gravidanza per aborto,
tutto secondo l’idea che bisogna escludere ogni possibilità di imperfezione
[…], che non bisogna mettere al mondo creature inutili, che non permettano
alla società di ‘progredire’ economicamente (pp. 33-34)”.

In tal modo, non solo si mettono sullo stesso piano l’aborto volontario e la
sterilizzazione forzata della donna; non solo l’eutanasia vi figura
unicamente come esempio di controllo statale della vita (con i soliti
riferimenti all’eugenetica nazista), e mai come scelta consapevole di un
individuo che preferisce la ‘morte dolce’ ad un’esistenza per lui non degna
di essere vissuta; ma non si considera un solo istante che una donna possa
abortire semplicemente perché non vuole alcun figlio, e non perché lo
vorrebbe perfettamente sano e competitivo, biondo e con gli occhi azzurri, a
immagine della propaganda e della pubblicità. Così come è riduttivo pensare
che le cause dell’aborto siano quasi soltanto le difficoltà economiche (e
falsamente arruolare, in tal senso, la femminista anarchica Emma Goldman nel
campo antiabortista).

Ma quali sono le basi di tutto ciò? Leggiamo: “L’aborto e l’infanticidio si
equivalgono dal punto di vista pratico. Ciò di cui si tratta è comunque
l’uccisione di un essere umano, certo un essere umano non ancora del tutto
formato, ma col nostro stesso diritto ad esistere. (Il termine diritto non
lo connetto ad una logica statale di diritti/doveri, ma alla sua accezione
giusnaturalista. Il giusnaturalismo presuppone l’esistenza di un diritto
naturale prima di un qualsiasi altro diritto dettato dall’uomo e dalle sue
leggi, quel diritto secondo me è il diritto alla vita in libertà e secondo
il proprio naturale sviluppo, unico diritto da considerare inviolabile ed
estendibile ad ogni essere vivente) (p. 26)”.

Il giusnaturalismo è una dottrina che 1) afferma l’esistenza di un ordine
morale superiore (il diritto naturale) al quale le norme sociali (diritto
positivo) non possono sottrarsi; che 2) ritiene un diritto positivo non
conforme al diritto naturale privo di qualsiasi validità, per cui contro il
primo è possibile ribellarsi in nome del secondo. Da questi due punti ne
consegue che le regole sono risultati di forze sulle quali la volontà umana
non ha alcuna influenza; che i valori non vanno creati e condivisi, ma
semplicemente applicati nella loro naturale, immutabile, oggettiva
esistenza. L’etica allora non è una scelta individuale, bensì una sorta di
rigido determinismo, di fondamento a priori. Io credo che una simile visione
mal si concilii con una concezione anarchica della vita. Inoltre in natura
non c’è nulla che assomigli a un “diritto alla vita in libertà”. Primo
perché nel regno animale ci sono soppressioni crudeli quanto costanti di
tale “diritto”. Secondo perché in natura c’è il “diritto” di fare quasi
tutto e il suo opposto, a meno che non si consideri l’uomo una sorta di
escoriazione malvagia — ma questo condurrebbe all’antropoclastia di una
certa “ecologia profonda”, non certo all’anarchia. L’azione umana più
riprovevole fa parte della natura quanto il gesto più generoso e sublime. Se
vogliamo proprio scorgere un “diritto” in natura, insomma, questo sembra
semmai il “diritto del più forte”. Tuttavia è un’assurdità antropomorfica
quella di applicare categorie morali ai processi naturali (l’eruzione di un
vulcano è giusta o sbagliata?). Il volontarismo etico che molti anarchici
sostengono mi sembra incompatibile con l’idea che i “diritti” siano
inscritti in “leggi naturali” rispetto alle quali nulla può la volontà
individuale. Abortire o rifiutarsi di farlo sono due scelte che non solo la
natura, ma la stessa storia umana (come del resto dimostra l’excursus nelle
pagine finali del libretto sulle società greche, latine, indiane, eccetera)
rendono possibili. Lasciamo perdere i “diritti naturali”, dunque, e parliamo
di quel principio che sottende il ragionamento di tutto il testo: il
rispetto per ogni essere vivente. È evidente che si tratta di una tensione,
non di una condizione definitivamente acquisibile. “Il diritto alla vita in
libertà e secondo il proprio naturale sviluppo” è “inviolabile ed
estendibile ad ogni essere vivente” solo se diamo a quest’ultimo una
definizione che tenga conto delle nostre facoltà mentali e sensoriali, cioè
solo se operiamo distinzioni — lo si voglia o meno — antropocentriche.
L’esistenza umana (ma potremmo dire la Natura tout court) è incompatibile
con il principio di non distruggere alcuna forma vivente. Perché dovremmo
escludere da tale principio, infatti, i microbi o le piante? Perché noi non
ne percepiamo i flussi vitali e l’eventuale dolore? Ma questo, ci suggerisce
Silvia, ci farebbe ricadere nello specismo e nella visione gerarchica delle
forme di vita. Se però assumessimo il dolore in sé come metro di giudizio
(secondo un certo utilitarismo anglosassone, di cui Peter Singer è un
esponente significativo), troveremmo più odioso uccidere un cavallo adulto
che un neonato di pochi mesi, giacché il primo è un essere vivente
senz’altro più sviluppato e sensibile del secondo. Pur essendo vegano da
molti anni, tuttavia, non mi sognerei mai di affermare che chi mangia carne
è peggiore di un infanticida… Perché? Il principio fondamentale della mia
etica è la reciprocità: da questo traggo il mio rifiuto dello sfruttamento,
della gerarchia, del dominio. Ma so che la reciprocità non può fare a meno
della “simpatia” (in senso etimologico, cioè della capacità di percepire
come propri gli altrui sentimenti e sensazioni). Ecco perché la reciprocità
ci risulta più immediata con gli esseri umani, più difficile con gli animali
e con le piante. Se così non fosse, anche l’anarchico più conseguente si
sentirebbe costantemente un assassino di innumerevoli forme di vita. In tal
senso mi chiedo cosa vorrà mai dire essere contro ogni antropocentrismo. Mi
sembra evidente che attribuiamo a certi sviluppi della vita più valore che
ad altri, altrimenti non parleremmo neanche con compagni che mangiano carne.
Vorrei sapere in base a cosa, infatti, per Silvia una donna che abortisce
commette un crimine superiore (paragonabile infatti all’infanticidio)
rispetto a una persona che mangia un cervo? Non era contraria ad ogni
specismo? Cosa penserebbe se una mamma invece di dare carne ai propri figli
desse in pasto i propri figli ai propri cani? Uccisioni intercambiabili? Dal
punto di vista della Natura e dei suoi presunti diritti sì, ma non certo dal
nostro. L’ampliarsi della simpatia verso le altre forme viventi è una
tensione, non un principio immutabile che vaga nello spazio. In quello
spazio, infatti, noi non potremmo viverci. La conclusione di una tale
metafisica sarebbe la condanna dell’uomo in quanto tale, se non della vita
stessa, come aveva intuito Leopardi. Eppure le premesse da cui parte Silvia
non sono forse condivise da molti compagni?

Tornando all’aborto, non si può far astrazione del fatto che nessuno sente
(fisicamente e quindi eticamente) il feto alla stregua di un neonato: per
questo è aberrante e offensivo paragonare l’aborto all’infanticidio. Le
analisi più o meno scientifiche sulle percezioni e i sogni dell’embrione non
equipareranno mai i due gesti, perché si tratta di forme di vita
incomparabili. Dire che feto e neonato sono entrambi esseri umani, è come
dire che un seme nella terra e un alberello sono entrambi degli alberi.

Credo che nessun aborto sia una scelta facile, giacché nessuna donna
percepisce il feto al pari di una ciste o di un’unghia. E a ben poco serve
mostrare attraverso la tecnologia cos’è la vita che cresce nel ventre
materno (anche perché con gli argomenti della scienza si può facilmente
rispondere che un ovulo fecondato non è affatto una persona in divenire,
visto che durante i primi giorni di sviluppo se ne possono formare… due).
Solo un’esistenza alienata ha bisogno di appellarsi alla scienza per fondare
una morale. E non è forse segno della nostra alienazione attribuire alla
natura diritti e doveri mutuati in realtà dalle società umane, oppure
parlare astrattamente dell’uguaglianza di tutte le forme viventi? In una
vita che è tutt’uno con il proprio ambiente, in un processo che non è di
rispecchiamento totale di presunte leggi naturali, bensì di naturalizzazione
dell’uomo e di umanizzazione della natura, il rispetto per il nostro habitat
sarebbe tutt’altra cosa. Invece dell’attuale cupidigia distruttrice, ci
sarebbe un sentimento di gratitudine verso quelle forme di vita a cui nostro
malgrado facciamo violenza. La feticizzazione della Vita mi sembra invece il
rovescio della civilizzazione di cui siamo i prodotti, l’altra faccia del
totalitarismo tecnologico.

Se può essere vero che c’è talvolta una certa superficialità e
irresponsabilità nei rapporti sessuali, non si può forse dire altrettanto
delle ragioni per cui molte persone mettono al mondo dei figli? Quante donne
lo fanno per assecondare i voleri del marito o della famiglia? Quanti
chiedono ai figli di colmare quel senso di vuoto che deriva dalla miseria di
un’esistenza avvertita come isolata, effimera, casuale? Quanti bambini
crescono in ambiente mortiferi, affidati alle cure di perfetti cretini
desiderosi di “farsi una famiglia” per non sfigurare in società? Quanti
rivoluzionari hanno messo al mondo figli di cui poi non hanno potuto
occuparsi, delegando il compito alle compagne o ai propri genitori? E’ così
consigliabile rimediare ad una leggerezza o ad un errore con leggerezze ed
errori ben più gravidi di conseguenze? Prima di pensare ai “diritti” dei
nascituri, mi sembra, dovremmo guardare come vivono e muoiono milioni di
nati in questo mondo odioso. Nel libretto si insinua di continuo che
abortire sia una scelta egoistica. Perché cos’è, invece, mettere al mondo un
figlio? Di certo non è una scelta che si fa per il bene di un essere che
ancora non esiste. Ci sono così tanti bambini costretti in condizioni infami
da adottare, che la sola ragione per cui se ne mettono al mondo altri è la
gioia che si prova nell’essere genitori o il desiderio di sopravvivere alla
propria morte, o altri bisogni tutt’altro che “disinteressati” perché umani,
troppo umani. La vita comincia con un atto di piacere. Lasciamo perdere,
quindi, l’egoismo.

Insomma, per condannare l’aborto ci vuole ben altro che qualche radiografia
o qualche excursus storico — e cioè un pregiudizio morale. Non a caso nel
ragionamento di Silvia la maternità smette di essere una possibilità, per
diventare un dato ontologico. Leggiamo: “Il femminismo ha diviso due aspetti
fondamentali, ha scisso la ‘donna’ libera e indipendente, dalla ‘madre’
sottomessa e schiava, senza comprendere che la donna è madre e la madre è
donna; questo a prescindere che una donna metta al mondo o meno un figlio, è
un discorso ontologico (p. 47)”. Secondo questa concezione, la maternità non
è una potenzialità femminile (potenzialità inscritta, certo, in un dato
biologico), ma una sua condizione ontologica, relativa, cioè, alla radice
stessa del suo essere. E una donna che non vuole avere figli? È per questo
fuori della natura? Qualcuno diceva che la maternità sta alla donna come la
guerra sta all’uomo, e non era proprio un libertario. Come si vede, quando
si pretende che certi fini siano inscritti nelle leggi di natura (senza il
concetto di fine quello di valore non avrebbe senso), la conclusione è che
chi se ne allontana è contro-natura, deviante, criminale, eccetera. Non si
arriva forse così a quel pensiero totalitario di cui si parla nel libretto a
proposito della giustificazione dell’aborto? Non è un caso, mi sembra, che
condanna dell’aborto e condanna dell’omosessualità vadano spesso assieme. Se
il Fine della natura è la riproduzione della vita, dove mettere le donne che
abortiscono o gli esseri umani le cui inclinazioni sessuali non sono
feconde? Se c’è un discorso che assomiglia a una litania del Progresso
incurante degli individui e della loro vita è esattamente questo. Se proprio
vogliamo tirare in ballo l’ontologia, poi, ciò che emerge è che diventiamo
individui in un rapporto costante con l’ambiente e con la storia, non
applicando codici o diritti già scritti (dallo Stato, dalla ragione
universale o dalla Natura poco importa). Inoltre, proprio ontologicamente
l’essere umano, lo ripeto ancora, non può mettere sullo stesso piano tutte
le forme di vita.

La cosiddetta “dignità del feto” è un discorso al futuro (anche perché si
tratta di un organismo che dipende totalmente dal corpo della madre), ma
quel futuro è fatto di scelte della donna su cui non pesa alcuna costrizione
ontologica, bensì, al limite, sociale, religiosa, morale. Il fatto che il
feto non sia una persona, non significa che sia paragonabile a un dente o a
una verruca. Significa solo che sono forme di vita qualitativamente (quindi
eticamente) diverse. Sarà un caso se chi difende “i diritti dell’embrione” è
quasi sempre un sostenitore più o meno mascherato dello Stato etico e un
nemico più o meno subdolo di ogni libertà?

Situazioni di vita più comunitarie renderebbero forse meno frequente il
ricorso all’aborto (dico forse perché le società primitive ne registrano la
pratica assai costante), ma non eliminerebbero del tutto la volontà di
alcune donne di vivere senza figli. La “società anarchica” non è una
“società naturale”, bensì un insieme di rapporti che favoriscono certe
possibilità naturali e ne escludono altre, in base a valori creati e
condivisi a partire dalla propria esperienza. Queste possibilità sono
fortemente legate agli usi e ai costumi, in breve al modo di vivere. La
scommessa dell’etica anarchica è quella di trasformare il modo di vivere in
un’avventura appassionante fra noi e il nostro ambiente, senza l’ansia del
dominio né i crampi del senso di colpa.

Questo per dire che l’unica parte davvero condivisibile del libretto è
quella in cui vengono esposti i metodi di contraccezione naturale come mezzo
per evitare, con la maggior consapevolezza possibile, gravidanze
indesiderate. Nella tensione verso una vita in cui le azioni non sono mai
separate dalle loro conseguenze, anche questo è un contributo necessario. Ma
tutto il resto?

Massimo Passamani




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