[NuovoLaboratorio] dibattito su crescita - decrescita

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Author: antonio bruno
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Subject: [NuovoLaboratorio] dibattito su crescita - decrescita
vi posto alcuni articoli sul dibattito tra capitalismo e ambiente apparsi
sul quotidiano Liberazione

ciao

antonio
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Il progredire dell'inquinamento e la stagnazione economica stanno
costringendo
i governi a ratificare trattati come quello di Kyoto e a modificare il
modelllo energetico
Le contraddizioni capitalistiche, terreno per una nuova lotta ambientalista
Nicola Cipolla

Tre considerazioni nel dibattito su capitalismo e ambiente in corso su
Liberazione. La prima. Noi siamo nei primi anni del XXI secolo, dopo due
secoli di capitalismo industriale che ha utilizzato per il suo tumultuoso
sviluppo le energie fossili: il carbone e la macchina a vapore nell'800, il
petrolio (di Rockfeller e del fordismo e del consumismo) nel '900 nella cui
fase finale si sviluppò a partire dai funghi di Hiroshima e Nagasaky anche
lo sfruttamento dell'energia dell'uranio. Secoli neri in cui rovesciando un
processo naturale che in milioni e forse miliardi di anni aveva sottratto
all'atmosfera composti di carbonio ed altre materie, in modo da rendere
vivibile l'atmosfera, come noi oggi la conosciamo, si sta determinando,
ogni giorno di più su scala mai vista in passato, un progressivo e
inarrestabile inquinamento dell'atmosfera.

Questo pericolo era stato denunciato, negli ultimi decenni del '900, dal
movimento ambientalista, in mezzo a scetticismi ed opposizioni da parte
delle forze interessate al vecchio modello. Però il progredire
dell'inquinamento atmosferico e terrestre e della coscienza ecologica dei
popoli ha costretto i governi, prima a negoziare il Trattato di Kyoto, nel
1997, e poi malgrado la resistenza del governo Bush, ad arrivare nel 2005
alla ratifica da parte di paesi che rappresentano il 94% della popolazione
mondiale.

Il Trattato prevede (in contrasto con il neoliberismo dominante) interventi
programmati a livello internazionale, nazionale e regionale che, pur
essendo tardivi, insufficienti e di difficile applicazione, spingono
all'avvio di un processo di sostituzione delle energie non rinnovabili con
le energie derivanti dal sole, (idraulico, eolico, biomasse e naturalmente
solare termico e fotovoltaico).

Persino Bush, rimasto isolato, che pure aveva cercato di truccare le
relazioni redatte dai suoi tecnici sull'effetto serra, è stato costretto a
riconoscere nell'ultimo incontro del G8, in mezzo al clamore delle bombe
londinesi, l'esistenza di questo pericolo, pur continuando a manifestare
l'impossibilità per l'economia americana di sostenere il peso pur modesto
di Kyoto. Affermazione certamente arrogante ma che evidenzia ancora di più
la debolezza e la crisi di un sistema economico incapace di affrontare una
necessaria riforma. Con ciò dando ragione a coloro che nel campo della
sinistra anticapitalista sostengono che oggi accanto alle contraddizioni,
che hanno caratterizzato le lotte sociali, tra capitale e lavoro, tra
ricchi e poveri (la tassazione progressiva su redditi e patrimoni prevista
dal programma di Erfurt e imposta in un secolo di grandi lotte interne ed
esterne all'Europa per finanziare le conquiste dello stato sociale: sanità,
scuola, pensioni, etc.) esiste una terza contraddizione, che colpisce
anch'essa il profitto capitalistico e contrappone gli interessi del sistema
attuale con quelli dell'intera umanità (come nel loro piccolo le
mobilitazioni contro le discariche nucleari, i rifiuti, le nuove centrali a
carbone ed altre simili dimostrano).

La lotta ambientalista entra perciò in una nuova fase. Non più della
propaganda del pericolo, ma dell'attuazione e del superamento dei trattati
e delle norme elaborate ed attuate a livello di comunità europea, di stato
nazionale, di piani energetici ambientali regionali.

La seconda considerazione riguarda il nesso tra sviluppo economico e
mutamento del modello energetico. L'attuale fase di stagnazione e di crisi
in cui versa l'economia capitalistica e in particolare nel nostro paese
dimostra che il modello di sviluppo economico dei due secoli precedenti non
riesce più neanche a determinare i famosi incrementi del Pil necessari per
mantenere livelli di occupazione e di servizi sociali raggiunti nella
seconda metà del XX secolo. Ciò vale per l'Europa e più per l'Italia. I
ritmi di sviluppo degli Usa e della Cina sono eccezioni che confermano
questa regola. In quanto gli Usa attraverso il doppio deficit del bilancio
statale e della bilancia dei pagamenti finanziano il keynesismo militare
della guerra permanente e una politica di consumi che non possono crescere
indefinitamente, ma preparano, accanto all'aggravarsi della dipendenza
economica e finanziaria dei prestiti esteri, crisi economiche di dimensioni
analoghe a quelle del '29. E naturalmente rendono sempre più difficile il
rientro dal dissesto ecologico di cui gli Usa sono i primi responsabili con
il 25% dei consumi di petrolio, il 30% delle emissioni di gas serra e con
consumi pro capite di energia fossile doppi di quelli del Giappone e della
Ue e dieci volte quelli attuali della Cina. Quest'ultima e gli altri paesi
asiatici del terzo mondo che sono in fase di sviluppo hanno certamente
tassi di crescita da XX secolo perché stanno attuando, come rileva Immanuel
Wallerstain, il passaggio di centinaia di milioni di lavoratori dal modo di
produzione arretrato e semifeudale, basato essenzialmente sull'agricoltura
(modo di produzione asiatico) ad un moderno modo di produzione
capitalistico. Questo passaggio però, unito all'irrefrenabile deriva
ecologica americana, aggrava ancora di più il pericolo ambientale globale
del mondo. In questa situazione affidarsi ad un confronto ideologico tra
keynesiani ed antikeynesiani, tra politica della domanda e politica
dell'offerta ha lo stesso grado di attualità di un dibattito che si
svolgesse nel secolo del fordismo a partire dai testi dei liberisti inglesi
e degli economisti protezionisti tedeschi dell'800.

Il passaggio a un modello energetico basato sulle fonti rinnovabili avrà in
questo secolo, e già comincia ad averle nel settore eolico e del solare a
partire dai paesi più avanzati, lo stesso effetto sugli investimenti,
sull'occupazione e sull'organizzazione dell'economia e dello stato che ha
avuto, nei due secoli precedenti, l'avvento del carbone e del petrolio. Lo
sviluppo infatti delle energie alternative, pur previsto in quote minime
dagli accordi di Kyoto e dai successivi regolamenti e provvedimenti
comunitari, nazionali e regionali, comincia ad interrompere la catena che
parte dalle concessioni di ricerca e di coltivazione, passa per gli
oleodotti, le petroliere, le raffinerie fino al distributore di benzina che
raccoglie le monete che si trasformano poi in profitti e rendite per tutto
il sistema di organizzazione economica e di comando politico che è anche
alla base delle spese militari, dei servizi segreti, delle guerre per il
petrolio, e delle resistenze che esse suscitano, e che insanguinano il
mondo attuale.

L'utilizzo delle fonti alternative porta a costruire una rete che non solo
produrrà e produce effetti ambientali positivi, può anche modificare il
sistema di comando e di appropriazione tipico delle energie non
rinnovabili. Al limite ogni comune, ogni condominio, ogni casa, ogni
azienda agricola produrrà energia per sé e per gli altri. Si chiuderanno
fabbriche e impianti produttivi e se ne creeranno degli altri (né la teoria
economica della domanda né quella dell'offerta possono fornire lumi, semmai
il processo di distruzione creativa e di creazione di nuove schiere di
imprenditori può avere analogie con le ipotesi di Schumpeter).

Questo influenzerà l'occupazione, le relazioni tra gli uomini e i popoli,
il modo di produrre merci e di finanziare i servizi sociali necessari e il
modo di governare.

La terza considerazione riguarda il ruolo in questo processo della classe
operaia e delle forze politiche che alla sua funzione liberatrice si
ispirano. E qui il taglio dell'intervento di Cremaschi, nella sua doppia
veste di esponente della Fiom e di autorevole partecipante al processo di
Rifondazione Comunista, apre una prospettiva. Il ruolo della classe operaia
nei due secoli neri è stato determinante sia nella conquista delle
istituzioni democratiche (suffragio universale a scrutinio proporzionale,
diritto di associazione sindacale e politica e diritto di sciopero,
conquista di diritti sociali per sé all'interno della fabbrica diventati
poi diritti sociali di cittadinanza) sia nella lotta per l'indipendenza e
la liberazione dei popoli coloniali.

La classe operaia e la cultura politica che da essa deriva può avere un
ruolo nella lotta ambientalista? La risposta è affermativa e si basa
sull'apporto che la Fiom di Garavini e il sindacato scuola ispirato da
Luporini ebbero nella vittoriosa battaglia antinucleare condotta contro non
solo gli interessi nazionali e internazionali soprattutto americani, ma
anche contro quella parte del movimento comunista e operaio (la maggioranza
della direzione del Pci e la segreteria nazionale della Cgil diretta da
Lama) che vedevano nello sviluppo del nucleare anche un interesse
occupazionale della classe operaia. Senza questo apporto della sinistra
comunista (Bassolino e Mussi al Congresso di Firenze, la Fgci di Folena e
Nichi Vendola) le forze ambientaliste da sole non avrebbero vinto la
battaglia antinucleare.

Ispirandosi a quest'esperienza può essere possibile oggi costruire una
piattaforma programmatica di sinistra rosso-verde a livello nazionale ed
europeo capace di dialogare in questa fase della lotta politica con le
forze espresse in Italia da Prodi, presidente del Consiglio al momento
della stipula del Trattato di Kyoto e presidente della Commissione europea
nella difficile battaglia per arrivare alla sua ratifica, ed imporre non
solo l'allontanamento di Berlusconi ma anche l'avvio di una fase nuova.

22.7.05
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Liberazione, 26-Luglio-2005

Il dibattito aperto da Liberazione non è tra
"economisti", attenti solo alla moneta e al profitto,
e "ambientalisti", difensori dell'uomo e della natura

Crescita o decrescita, confrontiamoci veramente su
cosa significano e cosa rappresentano

Andrea Ricci
E' una pessima e purtroppo diffusa abitudine quella di
costruire una polemica inventandosi a piacimento i
propri avversari. A questa tentazione non sono
sfuggiti Carla Ravaioli e Franco Russo nei loro
interventi su produzione e consumi. Il dibattito
aperto da Liberazione non è infatti, come essi
vogliono far credere, tra "economisti", attenti solo
alla moneta e al profitto, e "ambientalisti",
difensori dell'uomo e della natura. Che il modo di
produzione capitalistico operi attraverso uno
sfruttamento distruttivo degli uomini e della natura
è, tra di noi, una verità talmente ovvia da non
meritare discussioni. Così come altrettanto scontata è
la critica al Pil come indicatore di benessere e la
necessità di realizzare praticamente nuove forme di
produzione e di consumo che liberino, insieme agli
uomini, anche la natura dalla rapina sistematica
operata dai meccanismi economici capitalistici,
garantendo la riproduzione integrale dei cicli
ecologici. La novità e lo straordinario interesse del
dibattito aperto da Liberazione consiste nel tentativo
di andare oltre la pura ripetizione di queste verità
ormai per noi acquisite e di avviare un confronto
interno al pensiero "alternativo" in merito ad una
posizione che sta conoscendo una rapida diffusione
anche a sinistra, quella che va sotto il nome della
"decrescita", in particolare nella versione sostenuta
dal suo principale esponente, il sociologo francese
Serge Latouche.
Questa posizione, oltre ad avere una valenza teorica,
impatta direttamente sulla proposta politica e sugli
obiettivi concreti che ispirano la nostra azione in
questa particolare congiuntura storica, caratterizzata
da una crisi economica e sociale strutturale in Italia
e in Europa. Nel mio precedente intervento ho cercato
di motivare le ragioni analitiche e politiche che
rendono la teoria della decrescita inconciliabile con
una ipotesi di fuoriuscita da sinistra dal modello
neoliberista. Sul merito delle argomentazioni che
portavo a sostegno non ho finora ricevuto risposta.
Ciò che ha sollevato i maggiori risentimenti è stata
invece la frase circa il carattere talvolta
reazionario che si nasconde dietro l'apologia della
decrescita. In verità non era mia intenzione
affrontare la questione delle origini ideologiche e
culturali di siffatta teoria né tanto meno togliere il
velo su sconcertanti connessioni intellettuali, ma
ormai vi sono stato trascinato ed allora ben venga un
confronto chiarificatore.

Tra i principali adepti e ammiratori della decrescita
e, in particolare del suo nume tutelare Serge
Latouche, troviamo in Francia la corrente della
"nouvelle droite" di Alain de Benoist e in Italia il
Movimento leghista dei Giovani Padani e il vasto
arcipelago della "nuova destra", di matrice pagana e
comunitaria, che si raccoglie intorno ad intellettuali
come Marco Tarchi, Marcello Veneziani, Franco Cardini,
Massimo Fini ed Eduardo Zarelli, ispiratori di
numerose riviste e associazioni politico-culturali di
chiaro orientamento neofascista. La fervente adesione
di alcuni di questi personaggi alla decrescita
talvolta raggiunge livelli davvero imbarazzanti.

Su Liberazione del 13/5/2005 è comparso un articolo di
Fabrizio Giovenale dal titolo: "Non dobbiamo salvare
il Pil, ma la terra e l'uomo", in cui si affermava:
"Non è il caso di cominciare a riflettere se pensare
soltanto agli aumenti del Pil non sia una solenne
sciocchezza? E addirittura se non ce la faremmo lo
stesso a cavarcela - magari anche meglio - con una
"economia in contrazione"? E cioè producendo,
comprando e vendendo non molto di più del necessario
per vivere? ". Poco tempo dopo mi è capitato tra le
mani per puro caso il numero 270 (marzo-aprile 2005)
di Diorama Letterario, una delle riviste di punta del
neofascismo nostrano, e sono stato attratto da un
pezzo a firma di Eduardo Zarelli dal titolo
"Recessione, e se fosse un'opportunità? ". Sono
rimasto di stucco: l'articolo in questione conteneva,
senza virgolette e senza citazione alcuna, le stesse
frasi sopra riportate di Giovenale! Ho ragione di
ritenere che il nostro compagno sia stato vittima di
un inqualificabile plagio letterario che però è
inquietante.

Latouche ama ripetere che l'obiettivo del suo movimento è la fuoriuscita,
non dal capitalismo, ma dalla mentalità economica tout court, e per far ciò
propone un modello di organizzazione sociale fondato su micro-comunità
locali autosufficienti, rese fortemente coese da un profondo senso di
appartenenza
identitaria ad un territorio e ad una cultura autoctona. E la strada per
giungere a questa armonia è indicata nella volontaria trasformazione
psicologica interiore, nella "decolonizzazione dell'immaginario" attraverso
un processo di progressiva sottrazione individuale dalle macroreti del
mercato e del denaro.

Il retroterra ideologico di Latouche, facilmente rintracciabile da chiunque
abbia confidenza con i suoi lavori, è il frutto di un eclettico miscuglio
delle
principali correnti spiritualiste e antimaterialiste del Novecento. In esso
si fondono la critica heideggeriana della tecnica, che costituisce il
fondamento mistico di ogni contemporanea metafisica irrazionalista, con lo
spengleriano "tramonto dell'Occidente", che vede nell'avvento della civiltà
liberal-borghese la causa della corruzione morale del mondo; l'estetismo
brutale e reazionario di Junger con il ciclo nietzchiano dell'eterno
ritorno; l'ossessione
di Ortega y Gasset per la società di massa, causata
dall'irrompere del proletariato nella storia, con
l'ambientalismo antiprogressista e conservatore di un
Lasch e di un Naess, che auspicano la
risacralizzazione animistica del vivente; il
fondamentalismo calvinista di un Ellul con quello del
cattolicesimo visionario di un Ivan Ilich. Il filo
rosso che unisce queste differenti ispirazioni
culturali è un viscerale anti-illuminismo, che si
traduce in un rifiuto radicale della modernità in nome
di un richiamo nostalgico ad un immaginario passato di
armonia e di equilibrio dell'uomo con la natura e con
se stesso, come quello che sarebbe valso nelle
comunità tribali africane, non a caso oggetto di
numerosi lavori di Latouche. Non sorprende allora che
le sue idee possano trovare insospettabili sostenitori
nei nuovi teorici del razzismo differenzialista come
nei più o meno raffinati cultori neonazi di Julius
Evola o nei giovani seguaci di Borghezio.

Vi sembro accecato da vis polemica? Bene, allora
andatevi a sfogliare il catalogo della casa editrice
Arianna, vero e proprio centro culturale
dell'estremismo reazionario italiano, diretta dal
nostro plagiario Zarelli, e scoprirete che Serge
Latouche è uno dei suoi autori di punta, come
prefatore di libri altrui e come autore. Oppure date
un'occhiata alla rivista virtuale di geofilosofia
"Estovest" di ispirazione esoterica, ariana e
antidarwiniana e ugualmente troverete, accanto al
solito ecofascista, il sociologo transalpino nella
lista dei principali collaboratori. D'altra parte
Latouche è un fervente sostenitore dell'insignificanza
delle categorie destra/sinistra, ritenute vecchie e
superate, in nome di un nuovo spartiacque politico
fondato (ah, la modestia!) sul binomio
crescita/decrescita e a tal fine ha organizzato un
nuovo movimento politico-culturale, molto attivo in
Francia ed ora anche in Italia, che ha trovato spazio
soprattutto in alcune frange no-global. Gli ambienti
neofascisti che guardano con interesse alle sue teorie
sono, infatti, gli stessi che qualche tempo fa furono
al centro di una furiosa polemica per la loro
partecipazione attiva ad una manifestazione di
sostegno alla resistenza irachena, organizzata
dall'"ultrasinistra" neostalinista.

Curiosi e insospettabili legami, non trovate? In
realtà, come è sempre accaduto almeno dalla
Rivoluzione francese in poi, il rifiuto dello stato di
cose presenti, che oggi si chiama globalizzazione
capitalista, può avvenire da due punti di vista tra
loro opposti. Da un lato quello reazionario, che vede
nel ritorno ad un'epoca premoderna e ancestrale, vagheggiata come un
rassicurante eden perduto, la soluzione alle tragedie dell'oggi. L'altro
punto di vista, quello rivoluzionario, critica invece non la modernità ma
al contrario la sua incompiutezza, derivante dai limiti imposti dal
capitale, e quindi progetta la liberazione degli uomini e della natura da
ogni forma di sacralità, sia essa quella capitalistica della merce e del
denaro o quella antica della comunità razziale, territoriale o culturale.
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