[NuovoLaboratorio] Liberazione: ora la priorita' e' punire i…

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Autor: antonio bruno
Data:  
Assunto: [NuovoLaboratorio] Liberazione: ora la priorita' e' punire i no global

Liberazione: ora la priorita' e' punire i no global

a ora la priorità è punire i no global
Un tranquillo fotografo rischia più dei parà che lo arrestarono senza
prove. Solo quattro poliziotti accusati per piazza Manin. E la pediatra
manganellata aspetta il risarcimento dai giudici civili
ALESSANDRO MANTOVANI
Paolo Barbera ha 29 anni, vive in provincia di Milano e lavora come
operatore per le tv, pubbliche e private. E' un ragazzo di sinistra che,
per andare al G8 di Genova, era partito solo soletto, con lo zaino in
spalla e l la macchina fotografica al collo. Quel 20 luglio di quattro anni
fa, poco dopo l'omicidio di Carlo Giuliani, Paolo si trovò davanti i
carabinieri paracadutisti del Tuscania che risalivano corso Gastaldi,
travolgendo cose e persone con i loro mezzi da guerra. «Sono scappato in un
cortile anche per disintossicarmi dai lacrimogeni - racconta - Dentro c'era
già altra gente come me. Abbiamo aspettato cinque minuti e sono arrivati i
carabinieri. Prima, da fuori, ci hanno fatto un gesto con le mani tipo: `Vi
facciamo un culo così'. Ma io sono andato verso di loro con le mani alzate,
per dimostrarmi inoffensivo. Quello invece mi ha preso le mani e mi ha
messo le manette: `Sei in arresto, ti portiamo in galera'. Mentre ero
ammanettato ho preso una manganellata e un pugno, poi mi hanno lasciato
stare. Gli altri, quelli accovacciati, ne hanno prese un sacco». Gli hanno
preso la macchina fotografica e hanno distrutto le foto. «Un carabiniere mi
ha colpito col dorso della mano - prosegue Paolo - Diceva di essere
arrabbiato perché gli avevano bruciato la camionetta. `L'hanno bruciata a
tutti', ho risposto io, per dire che era un bene pubblico. E lui mi ha dato
un altro pugno». Paolo racconta ancora: «Non ho più le mie foto ma di
Genova mi rimane l'immagine di un giardino di fiori, di tutte le specie,
forme e colori, perché era un luogo di scambio di idee e di opinioni».
L'hanno portato in caserma e poi in carcere a Pavia, dove ha digiunato per
protesta per quattro giorni. Alla fine il gip Vincenzo Papillo, per lui
come per altri, ha deciso di non convalidare gli arresti perché non c'erano
elementi a sostegno delle accuse di resistenza a pubblico ufficiale. E
qualche mese dopo il giovane ha deciso di denunciare i carabinieri, con
l'assistenza dell'avvocato Riccardo Passeggi.

Quattro anni dopo, nella babele dei processi penali e civili sui fatti del
G8, la situazione è ancora capovolta. Paolo ha ricevuto l'avviso di
conclusione delle indagini preliminari, i pm lo hanno insomma avvertito che
intendono rinviarlo a giudizio per resistenza. Nulla di tutto questo è
accaduto, invece, agli uomini del Tuscania che risalirono corso Gastaldi al
comando del capitano oggi maggiore Guido Ruggeri, che picchiarono e
arrestarono arbitrariamente quelle dieci persone. Le indagini su di loro
sono rimaste ferme.

E' paradossale ma non casuale. Dal marzo scorso, infatti, una disposizione
del procuratore capo di Genova Francesco Lalla assegna priorità assoluta
alla conclusione delle indagini sui manifestanti. Uno dei due sostituti
impegnati sul questo fronte, il pm Andrea Canciani, è stato sollevato dal
lavoro ordinario, compresi alcuni processi di mafia. E in questi mesi la
procura, dopo aver lavorato a pieno ritmo sui filmati, ha riaperto i
fascicoli dei circa trecento arrestati di quei giorni. Una cinquantina di
manifestanti italiani e stranieri, accusati di devastazione, attendono le
richieste di rinvio a giudizio. Le posizioni al vaglio sono oltre un
centinaio e le richieste di archiviazione saranno poche.

I procedimenti contro le forze dell'ordine per i fatti di piazza camminano
assai più lentamente. Solo un mese fa il pm Francesco Albini Cardona ha
inviato gli avvisi conclusivi a quattro agenti del reparto mobile di
Bologna che parteciparono alle cariche di venerdì 20 luglio in piazza
Manin, dove manifestavano la rete Lilliput e le aree pacifiste laiche e
cattoliche che certo non rappresentavano un problema di ordine pubblico.
Rimase ferita persino la parlamentare di Rifondazione Elettra Deiana.

Gli autori materiali delle violenze non sono riconoscibili perché erano a
volto coperto. I quattro rispondono però dei verbali d'arresto falsi e
calunniosi a carico di due manifestanti spagnoli, accusati di essersi
lanciati all'assalto con spranghe inesistenti. C'era qualche testimone e il
procedimento contro di loro è stato archiviato. Ma saranno archiviate anche
le sessanta querele presentate da altrettanti manifestanti che non erano
accusati di nulla ma hanno denunciato la polizia. E lo stesso vale per i
vari episodi del giorno seguente, sabato 21 luglio, durante il grande
corteo sul Lungomare. Sempre la stessa storia: caschi, fazzoletti e
passamontagna impediscono i riconoscimenti, a volte i magistrati hanno
ritenuto che le decisioni di ordine pubblico non siano penalmente
perseguibili e altre volte ancora, semplicemente, non hanno avuto tempo.
Perché nessuno ha mai sollevato dal lavoro ordinario i pm che indagano
sulla polizia.

Arrivano notizie migliori, tutto sommato, dal tribunale civile, che può
condannare il ministero dell'interno a risarcire i danni anche se i
responsabili materiali rimangono ignoti. E' la strada intrapresa da due
donne che furono picchiate proprio in piazza Manin. Una di loro è la
dottoressa Marina Pellis Spaccini, una pediatra triestina di 55 anni che
ogni anno va in missione in Africa con il Cuamm, un'organizzazione non
governativa legata alla curia di Padova. Era in piazza Manin «con la rete
Lilliput - racconta - e con la nostra storia di medici che lavorano nei
paesi poveri. E' importante agire sul campo ma anche esporre le proprie
idee, creare cultura». La presero a manganellate in testa, venne
fotografata mentre soccorreva un ragazzo con il volto insanguinato e la
foto, pubblicata in copertina da Diario, fece il giro del mondo. Ricorda
tutto molto bene: «Nessuno mi aveva mai bastonata in vita mia». Un medico
dovrà stabilire se la lesione è compatibile con il manganello d'ordinanza.
La dottoressa, assistita dall'avvocato Alessandra Ballerini, ha chiesto
centomila euro di risarcimento. «Ma non lo faccio certo per i soldi - dice
- Quelli, se me li daranno, andranno via in solidarietà. Ma spero che una
sentenza favorevole possa essere un piccolo contributo alla verità».
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Non siamo farina per fare ostie»
Con il console dei camalli Batini e il suo vice Amanzio la memoria corre
tra il '60 e il G8
L'organizzazione «Noi avevamo per guide i partigiani che dicevano: ora vai,
ora scappa nei carrugi. I no global erano 200 mila ma senza comando, di
fronte a una forza repressiva tremenda»
LO. C.
GENOVA
Domani come ogni 20 luglio da quattro anni, una delegazione di lavoratori
portuali si recherà in piazza Alimonda per salutare Haidi e Giuliano, i
genitori di Carlo. «Porteremo un cuscinetto di fiori bianchi e rossi che
sono i colori sociali della Compagnia», mi dice l'irriducibile console dei
camalli genovesi, Paride Batini. Uno che la sua città la conosce bene, uno
con una memoria lunga fino al 30 giugno del `60, quando la Genova dei
ragazzi con le magliette a strisce insorse contro il governo Tambroni e
dopo giorni di scontri nelle piazze e nei carrugi, riuscì a impedire che
nel santuario dell'antifascismo si tenesse il congresso del Msi. «E'
destino che ogni quarant'anni questa città debba esplodere», racconta
Amanzio Pezzolo, viceconsole della Compagnia da poco in pensione. Con
Paride e Amanzio abbiamo cercato di capire le similitudini e le differenze
tra il `61 e il G8. Se chiedi a chiunque di una certa età un'opinione, un
ricordo sui «fatti di Genova», ottieni in risposta sempre la stessa
domanda: «Quali»? Su un punto Paride e Amanzio sono d'accordo. Più che un
punto è una critica, affettuosa ma ferma come quella che può fare un padre
a un figlio, una generazione a quella successiva: «Hai portato la gente a
buscarle. Nel 2001 - dice Paride - è mancata l'organizzazione, o almeno
quella che c'era era insufficiente a reggere il livello dello scontro.
Dall'altra parte - perché io stavo e sto dalla parte dei ragazzi che
contestavano il G8 - c'era un gigantesco accumulo di forza: Genova era
stata blindata, imprigionata, spaccata dalle grate che chiudevano la zona
rossa. Cavalli di frisia, migliaia di militari in assetto di guerra. I
ragazzi dicono che la mentalità del movimento è diversa dalla nostra, che i
giovani non sono incasellabili dentro i servizi d'ordine. D'accordo. Però,
se vai allo scontro devi avere un'organizzazione adeguata, qualcuno che ti
dica adesso vai avanti, ora colpisci, ora scappa e ritirati, adesso si
riparte. Mi spiego?».

«Noi camalli non siamo teneri, non siamo farina da far ostie», sintetizza
Amanzio, «e quando c'è da scendere in piazza non ci si pensa due volte.
Però in testa abbiamo sempre un obiettivo: riportare tutti a casa sani e
salvi. Prima del G8 ci eravamo trovati di fronte all'ennesima provocazione.
Forza nuova voleva manifestare in città in occasione dell'anniversario del
30 giugno `61. Noi ci siamo visti, abbiamo fatto sapere a tutti che eravamo
pronti a riprenderci la piazza. Poi, quando i 40-50 fascisti arrivati a
Genova sono stati relegati in una pizzeria fuori mano, abbiamo cercato di
contenere i giovani del movimento che giustamente volevano impedire anche
quella provocazione di ripiego, ma dall'altra parte c'erano centinaia e
centinaia di poliziotti. Che senso aveva andarsele a buscare, soprattutto
quando il risultato più importante era stato raggiunto?».

Il `60, dice Amanzio, era una storia diversa. «Una storia nostra. Il G8 ci
è piovuto sulla testa. Anche se in Compagnia avevamo intuito che sarebbe
arrivata tanta gente da fuori e che dall'altra parte, governo e forze
dell'ordine cercavano lo scontro e a questo scopo avevano allestito dei
gran trappoloni». 30 giugno `60, i gipponi che facevano i caroselli, i
ragazzi che assaltavano le camionette, fermavano i gipponi e poi via, giù
per i carrugi e hai voglia a rincorrerli. I `rivoltosi' avevano il
controllo della piazza. «Nel 2001, invece, cosa è stato fatto per difendere
quei 200-300 mila inermi intrappolati da polizia, carabinieri, guardia di
finanza e chi più ne ha più ne metta?».

Diversa l'origine - genovese la prima, «estranea» la seconda - e diversa la
gestione della piazza. «Il 30 giugno è cominciato diversi giorni prima, con
le riunioni quotidiane a piazza Banchi con tutti i ragazzi. Eravamo
organizzati», dice Paride, «già ai primi cortei verso piazza De Ferrari e
ai primi scontri all'altezza del Duomo. Nei giorni era cresciuta la
maturazione del movimento: qui, in una città dove solo 15 anni prima erano
stati uccisi dai fascisti tanti compagni, tanti partigiani, tanta gente
comune, i fascisti non dovevano parlare. Noi ragazzi con le maglie a
strisce e le braghe consumate - mica firmate come quelle di adesso -
avevamo delle guide, dei punti di riferimento. Alle spalle avevamo
l'organizzazione del Pci, dell'Anpi, della Cgil. Quando cominciarono gli
scontri, i partigiani - quelli della montagna che tutti si rispettava - si
misero i bracciali e presero il comando impedendo qualsiasi degenerazione,
tenendo a bada le teste calde. Mi capisci? A me in un certo senso giravano
i coglioni, però stavo alle regole. Alla fine della fiera ci fu un
riconoscimento nei nostri confronti e, scampato il pericolo, impedito il
congresso del Msi, fummo tutti tesserati all'Anpi».

«Genova è una città fiera, capace di far cadere i governi, è una città che
ha memoria. Eppure, sarà perché il G8 ci è caduto addosso, è come se dopo 4
anni la memoria cominciasse a vacillare. C'è una parte che vive il ricordo
di Carlo e di quei giorni in modo militante - è l'opinione di Amanzio -
mentre un pezzo di città tende a rimuovere. Non c'è quel clima forte del 20
luglio del 2002, quando in maniera assolutamente spontanea e imprevista la
città intera si riversò in piazza, un anno dopo. Genova è una città ferita,
offesa dalla militarizzazione del G8, chi costretto ad andarsene per via
delle grate e delle minacce inverosimili montate dai giornali, chi
costretto a restarsene chiuso in casa. Ferita per gli scontri e le violenze
ingiustificate della polizia. Ferita alla Diaz e a Bolzaneto. Così c'è chi
cerca di pensare ad altro». Però Genova, aggiunge Amanzio, «aprì le porte
ai ragazzi che scappavano e anche le pompe dell'acqua, per alleviare il
caldo di quei giorni».

«Te la dico così: Genova si è vista catapultare addosso una carica enorme
di violenza, di quei giorni ricorda la militarizzazione della città, i
tombini saldati e le grate davanti alla porta di casa. Ricorda anche le
stronzate di qualche ragazzotto che spaccava tutto. Vedi, si dice che i
genovesi sono spilorci, non è vero ma certo non ci piace veder bruciare le
cose a cui teniamo. Metti che io ho una macchina e ci sto ancora pagando le
rate. Se un blac bloc me la brucia m'incazzo, è naturale. Ma se il giorno
dopo vedo dei ragazzi inseguiti dalla polizia come il topo col gatto, è
ovvio che apro la porta al topo per metterlo in salvo. Ecco, questa è
Genova», taglia corto Paride. Ma prima che io lasci la sua stanza, dalla
cui finestra si domina il porto con i container e i «suoi» camalli al
lavoro, Paride vuole la garanzia di non essere stato frainteso, come
successe ai tempi del G8 con un altro giornalista che lo mise in
contrapposizione con i giovani no global: «Sia chiaro che io sto, oggi come
sempre, dalla stessa parte della barricata di chi si batte contro le
ingiustizie. Le critiche sulla carenza di organizzazione non hanno a niente
a che vedere con la condivisione degli obiettivi. Carlo è un ragazzo che ha
militato per la libertà, in difesa degli interessi dei più deboli. Un
ragazzo generoso, com'è generosa la nostra gioventù».
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Nutriamo la memoria con l'azione
LO. C.
GENOVA
Non dico che sembra un salotto, ma certo è che di lavoro ne hanno fatto
tanto i ragazzi del centro sociale Buridda per rendere vivibili, persino
attraenti i locali dismessi dalla facoltà di economia dell'università di
Genova, sopra piazza Corvetto. E' in questo luogo della socialità giovanile
che incontro tre dei tanti ragazzi impegnati a tenere accesa la fiammella
della memoria, il ricordo del G8 e di Carlo. I ragazzi per fortuna guardano
avanti, magari non ricordano chi disse che il modo migliore per ricordare
un compagno caduto è quello di continuare le sue battaglie, ma è questo il
senso del loro impegno. Alessio fa il padrone di casa al Buridda (il nome
viene da un piatto genovese dove pesci e verdure diverse si mescolano e si
migliorano), Manuel coordina i Giovani comunisti e Domenico porta il punto
di vista del centro sociale Terra di nessuno. «Genova rimuove il 20 luglio,
salvo chi è stato direttamente coinvolto che ne fa una ragione d'esistenza.
Il programma di quest'anno - inizia Alessio - è più ricco che negli anni
scorsi, le istituzioni sembrano più disponibili ma si stenta a decollare.
C'è il rischio che il G8 venga surgelato nel freezer della memoria
dell'antifascismo genovese, perdendo la concretezza di quei giorni e della
nostra battaglia. Io credo che il ciclo di Genova si sia chiuso e che se ne
riapra un altro, a partire da dov'eravamo rimasti prima del 20 luglio 2001.
Il movimento è fragile, carsico, ma c'é». «Si è esaurita la spinta
propulsiva di Genova ma da ogni angolo escono pezzetti di impegno sociale,
gruppi che si propongono, iniziative nel territorio. Metterle insieme non è
semplice - interviene Manuel - e come potrebbe esserlo? Tu ti fai in
quattro per organizzare la lotta contro i Cpt, riesci anche a intercettare
positivamente le istituzioni come è successo a Bari con Vendola e i 14
governatori e poi, solo 24 ore dopo, Fassino applaude Pisanu che dice che i
Cpt sono utili nella lotta al terrorismo. E altri a sinistra dicono che
quei lager non vanno chiusi ma `umanizzati'».

Un ciclo si è chiuso ma Genova è stato il motore di tante lotte sociali «in
tutt'Italia», dal social forum europeo di Firenze alle manifestazioni
contro la guerra. Senza dimenticare Scanzano e Melfi, solo per fare due
esempi di «autorganizzazione della società civile». «In un paese vicino
Genova è tutto pronto per costruire un Cpt: il nostro governatore,
Burlando, non può firmare il documento di Bari e poi chiudere gli occhi in
casa. Il sindaco - continua Manuel - sembra resistere ma non vorrei che lo
facesse solo perché non vuole migranti tra i piedi».

Non è facile il rapporto di questi giovani attivisti con la «Politica»: «è
vero che Violante è venuto a Genova a chiedere scusa ma è altrettanto vero
che un anno dopo hanno invitato Scajola alla festa dell'Unità», ricordano
in coro e aggiungono un'altra perla: il sindaco Pericu che chiese,
inutilmente, di costituire il comune parte civile nel processo contro i
manifestanti. «Su 25 ragazzi imputati - dice Domenico - 19 sono
disobbedienti, quelli di via Tolemaide, quelli del Carlini che hanno sempre
agito in modo scoperto, mostrando a tutti scudi e gomma piuma». Domenico
insiste su un fatto: poche chiacchiere, adesso bisogna dimostrare
concretamente solidarietà e condivisione di una battaglia comune anche
«raccogliendo i soldi per continuare a seguire i processi che sono tanti e
richiedono uno sforzo politico ed economico. Noi di Terra di nessuno ci
siamo assunti l'onere di registrare il processo ai 25».

La vita - e la lotta - continua, passa attraverso la riappropriazione degli
spazi urbani - «il Buridda è un esempio positivo» - e prosegue con gli
appuntamenti nazionali contro i Cpt, un'agenda lunga come l'autunno che
passa per Gradisca e Bari. «Non si vive di ricordi», insiste Domenico,
anche se la memoria va nutrita costantemente. E se un anno dopo la morte di
Carlo, in una forma del tutto imprevista, 100 mila genovesi sono scesi in
piazza vuol dire che non si deve partire dalle fondamenta, «qualcosa si è
sedimentato, si tratta di togliere le incrostazioni». Perché le
incrostazioni possono portare all'indifferenza.

Affrontiamo un ultimo aspetto con i tre giovani genovesi, piuttosto
delicato. Come rispondete alle critiche fraterne di chi (come i camalli che
dicono: bisogna sempre riportare tutti a casa sani e salvi) denuncia una
mancanza di organizzazione durante i giorni del G8? «Noi eravamo
organizzati per quel che potevamo, ma non hai visto cosa c'era dall'altra
parte? Noi hai visto l'apparato militare, la violenza gratuita? Come si fa
a rispondere a chi ti spara addosso?». Così pensano Alessio, Domenico e
Manuel che aggiungono: «Per questo movimento l'unico servizio d'ordine
possibile sono le telecamere, i riflettori accesi. Sono l'unica arma che
abbiamo per difenderci, per mostrare la verità».
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"Eppure il vento soffia ancora...."

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antonio bruno FORUM AMBIENTALISTA MOVIMENTO ROSSO VERDE 339 3442011
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Vogliamo aiutare le vittime della violenza delle forze dell'ordine a Genova
(luglio 2001).
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