(L) la ko-rec, il mercato, e l'altra musica possibile

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著者: zerolabstation
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題目: (L) la ko-rec, il mercato, e l'altra musica possibile
ciao a tutt*,
posto anche in lista quanto già postato sul sito di (L)eft... per la gioia e
l'entusiasmo dei miei co-cospiratori in odore di santità :P


Questo breve scritto è la versione rivista di una relazione stesa nell’inverno
2004. Questa era il frutto di un dibattito collettivo che ci siamo trovati ad
affrontare a partire dall’ottobre di quello stesso anno. Come cambiava la figura
del creatore di musica, del musicista, in seguito alle trasformazioni che hanno
investito l’economia  mondiale negli ultimi anni? E come cambiavano le modalità
di distribuzione dei prodotti musicali in seguito all’espansione delle ICT?
Questi erano  i quesiti ai quali abbiamo provato a rispondere – di certo – in
maniera limitata e parziale. In quello stesso periodo prendevano forma sia
(L)eft, coordinamento delle produzioni musicali copyleft e no-copyright, che la
Ko-rec. Entrambe le esperienze, anche se su dimensioni e piani abbastanza
differenti, in fondo nascevano dalla necessità di rispondere da un lato in
maniera abbastanza pragmatica ai quei quesiti, dall’altro di nutrire la nostra
utopia di un processo creativo di produzione artistica completamente autonomo
dal giogo dal capitale.             





LA KO-REC, IL MERCATO, E L’ALTRA MUSICA POSSIBILE


Prologo

Sarebbe davvero difficile considerare il musicista – colui il quale dà vita ad
un processo creativo di produzione artistica – estraneo alla divisione del
lavoro intellettuale, all’intelletto collettivo, a quel general intellect di
marxiana memoria. Vero è che tanti musicisti sembrano dimenticare questo
particolare non proprio irrilevante mentre altri, pur di non essere associati al
branco di questi sedicenti artisti, preferiscono che non gli si affibbi una
simile etichetta. Come biasimarli d’altronde, i circuiti mainstream offrono un
panorama di tale desolazione che sembra rendere legittima la scelta di chi, pur
facendo musica, preferisce prendere le distanze sia dal termine artista sia da
quello di musicista. In questo breve scritto, eppure, proveremo ad esporre
alcuni degli elementi che ci portano a considerare come possibile un’altra
“musica”, dove il riferimento è a quei meccanismi che spingono verso una
trasformazione maggiormente egualitaria e democratica dello stato delle cose:
l’emancipazione relativa del processo creativo di produzione artistica dalle
dinamiche dell’accumulazione di capitale, lì dove sembrano agire solo meccanismi
che invece ne delimitano l’autonomia. Questa contesa, di fatto, rimodellerà il
concetto di proprietà intellettuale che abbiamo ereditato dal diciannovesimo secolo.


1. L’auto-produzione, il mercato e il contromercato musicale

Nel suo scritto Macchine radicali contro il tecnoimpero, Matteo Pasquinelli
sostiene: “Tre tipi d’azione che nell’ottocento erano ben distinte – lavoro
politica arte – ora si sono integrate in una stessa attitudine e sono centrali
in ogni processo produttivo. Per lavorare, fare politica, produrre immaginario
oggi ci vogliono competenze ibride. Questo significa che siamo tutti
lavoratori-artisti-attivisti ma significa anche che le figure del militante e
dell’artista sono superate e che tali competenze si formano in uno spazio comune
che è la sfera dell’intelletto collettivo”. In sostanza condividiamo questa
affermazione, ma prima di abbandonare le vecchie distinzioni proviamo a fare un
quadro della situazione. Divideremo i creatori di musica – i musicisti – in tre
grosse aree di riferimento alle quali fanno capo rapporti, forze e mezzi di
produzione differenti e assimileremo questa tripartizione allo schema
interpretativo concepito da Fernand Braudel in Civiltà materiale, economia e
capitalismo. Possiamo così considerare come indipendenti, le cosiddette indy, le
etichette che agiscono in un’“economia di mercato” collegata “orizzontalmente” e
con una certa presenza d’“automatismi concorrenziali”. Ad un livello superiore
agiscono invece le grosse etichette (o major), espressione d’interessi delle
giant corporations: in quel vertice poggiante sia sulla base della
“non-economia”, della “vita materiale”, o auto-produzione, che sullo strato
intermedio dell’economia di mercato. Probabilmente le net-label agiscono negli
interstizi di questi due piani, ovvero vita materiale ed economia di mercato,
mentre il vertice è il piano del capitalismo, quello che lo stesso Braudel
definisce “contromercato”. Qui sono generate turbolenze e meccanismi perversi
che agiscono sui piani sottostanti.    



2. Produzione, distribuzione e miti organizzatori

Con tutta probabilità la musica trascende la mera espressione di una tecnica di
produzione artistica, anche se le major utilizzano la potente arma della
retorica legata alla ricerca di talenti o di virtuosi. Ciò che a loro interessa
davvero è avere musicisti che fanno (come si usa dire) catalogo. Dal nostro
punto di vista invece la musica – proprio perché forma di rappresentazione delle
cose – fomenta, ed è a sua volta fomentata dai movimenti e dagli immaginari
collettivi, dalla costruzione di grandi narrazioni e dalla nascita di miti
organizzatori, in un continuo rimando dove la sfera tecnica finisce, ad ogni
modo, con l’avere buon gioco. In questo dibattito c’è, da un lato, chi intravede
nell’utilizzo di nuove tecniche la perpetuazione di un’illusione. C’è inoltre
chi utilizza le nuove tecniche inglobandole in una concezione della composizione
musicale quale sistema distaccato da logiche, meccanismi, e processi che muovono
il mondo moderno. Sul versante opposto, invece, c’è una corrente di pensiero che
intravede nell’interpretazione critica delle tecniche di produzione artistica,
la crescita delle possibilità d’emancipazione dell’umanità. Questa visione si è
scontrata spesso con una realtà dei fatti che ha visto le major detenere una
parte cospicua di mezzi di produzione e di distribuzione, che consentiva loro di
attrarre i musicisti, ricavando enormi profitti anche grazie al volume delle
vendite. E’ questo perché le grosse imprese, applicando alla produzione i
principi del fordismo-taylorismo, trovarono terreno fertile per affermarsi in un
mondo in cui la distribuzione centralizzata del lavoro dei musicisti risultava
essere, di fatto, l’unica via possibile per consentirne una diffusione su larga
scala. D’altronde i costi di distribuzione erano troppo elevati anche solo per
immaginare soluzioni alternative. L’espansione ineguale delle reti di
comunicazione – con l’avvento della pubblicità – fece il resto, permettendo
l’innesco di quel meccanismo che, da un lato, contribuì a rigenerare le
disparità materiali, mentre dall’altro, spingeva ad incarnare il mito del
musicista che ha bisogno dei copyright per vivere. Sappiamo che l’umanità è
evidentemente inconcepibile senza la carica organizzatrice ed il potere
simbolico del mito, ma qui la questione diviene: la nascita di quale mito, per
la costruzione di quale umanità?


3. La futura scomparsa delle major

Armand Mattelart, nel suo L’invenzione della comunicazione, ritiene che già con
il consolidarsi delle reti radiofoniche, la pubblicità diventerà “un modo di
coniugare l’ordine delle merci con l’ordine dello spettacolo, di produrre le
merci come spettacolo e lo spettacolo come merce. Laboratorio per la produzione
della cultura e dell’immaginario dell’«evento», la pubblicità si tramuta in
fondamento di una logica commerciale che, con il progredire del tempo ed il
succedersi delle innovazioni tecnologiche, diviene sempre più determinante non
tanto sul piano dello stimolo all’acquisto, quanto su quello della stessa
configurazione del complesso mediatico, al punto di inglobarlo nel proprio
complesso”. Oggi eppure sembrano prefigurarsi nuovi scenari. In primo luogo,
alcuni attori sociali hanno cominciato ad utilizzare la pubblicità –
sovvertendone però la logica via détournement – contro le stesse corporation
transnazionali. Secondo luogo, con l’arrivo d’internet, i costi di distribuzione
dei prodotti musicali si sono ridotti drasticamente. Nella sua Promessa di un
mondo senza copyright, Fogel intravede la messa a punto di “un meccanismo di
selezione più raffinato [che] consentirebbe alle opere di diffondersi solo in
base al loro merito”. Nuovi benefici per lui sarebbero apportati da quello che
assume i contorni di “un ritorno alla vecchia e ricca cosmologia della
creatività”. Il rischio implicito però è che tutto questo si riduca alla ricerca
dell’eldorado. Ora rivolgiamo l’attenzione verso alcuni degli argomenti
utilizzati dalle forze che animano la battaglia dei copyright. Da un lato, le
major che – via procedimenti penali – provano ad imporre la loro visione,
appoggiate in maniera becera solo da alcuni musicisti che abbagliati dai loro
privilegi, sembrano non avere ancora capito chi, come, e perché tira i fili dei
burattini. Grosse etichette che, qualunque sarà il risultato estorto da questi
procedimenti penali, o dalle prossime legislazioni che proveranno a disciplinare
il peer-to-peer, escono già sconfitte, screditate nell’immaginario di chi –
resistendo – continua a praticare la condivisione dei file. Come già detto,
però, non è tempo per le facili illusioni. Il loro declino, infatti, non passerà
necessariamente per un miglioramento delle condizioni materiali in cui vivono i
musicisti, anche se è probabile che le major non sopravvivano nella loro forma
attuale. Destinate a soccombere poiché schiacciate dal peso del loro stesso
successo. In effetti, quello stesso meccanismo che ne ha determinato l’ascesa –
sul lungo periodo – ne logora le fondamenta, gettando le basi di quello che
viene ad essere un lento ed inesorabile declino.


4. I regni dell’opacità

La vita materiale ed il capitalismo, la base ed il vertice, anche se per motivi
differenti, sono definiti da Braudel i “regni dell’opacità”. Di sicuro è
difficile svelare l’arcano della produzione degli enormi profitti, lì nel
laboratorio segreto dove il possessore del denaro incontra quello del potere
politico. Così come la mancanza di una documentazione storica adeguata rende
difficile individuare e classificare le pratiche di resistenza alle turbolenze
di chi si muove a livello della vita materiale, anche se il rapporto tra le due
dimensioni, ovvero tra un certo tipo di pirateria e grosse etichette, non è
proprio privo d’ambiguità. Così diventa davvero difficile arrivare a capire cosa
i responsabili di queste etichette hanno in testa quando parlano di caccia alla
pirateria. Enrico Menduni, nel suo libro Il mondo della radio, sostiene: “La
caccia ai «pirati» ha sempre un limite nel fatto che i loro veloci vascelli
hanno il pregio di trasportare i prodotti dei danneggiati in porti lontani dove
non sarebbero riusciti ad andare. Ricordiamo anche che [...] il confine tra
pirateria ed establishment non è mai stato troppo rigido. Nell’era di una
riproduzione tecnica così perfezionata da rendere il prototipo indistinguibile
dalle copie, la circolazione delle opere e la loro affermazione su prodotti
concorrenti è essa stessa un valore, soprattutto se con i pirati è possibile
trovare qualche accordo […] L’importante è continuare comunque a fare profitti”.
Per quanto riguarda tali profitti, sono tanti i fattori che incidono sul calo
del volume delle vendite che denunciano le etichette, ma in questa prospettiva
tale calo sarà considerato quale apogeo di quelli corrispettivi già verificatisi
nel corso degli anni ottanta e novanta del ventesimo secolo. In quegli anni non
vi era nessun peer-to-peer su cui poter recriminare, ma additandolo come causa
principale, le grosse etichette vogliono nascondere che, in primo luogo, durante
quegli anni al calo dei profitti contribuì la finanziarizzazione dell’economia
mondiale, altrimenti definita bolla speculativa, un ritmo ciclico che vide
l’ingente trasferimento di capitale dalla produzione materiale in direzione dei
mercati finanziari per mano di quegli stessi gruppi transnazionali che oggi
denunciano le perdite, per poi dar vita al boom ed al crac delle famose dotcom.
In secondo luogo, alcuni studi sostengono che le major sono le uniche al momento
che trarrebbero (il condizionale è d’obbligo) dal file sharing ancora dei
notevoli vantaggi in termine di vendite. I musicisti più famosi in genere
risultano essere proprio tra i più scaricati in rete.


5. Ko-rec come sindacalismo altro

La Ko-rec è una net-label, un punto nodale concepito come struttura di
movimento. Infatti, oltre alla necessità di produrre e distribuire della buona
musica, anche grazie all’ampliamento di canali alternativi a quelli mainstream,
con questo percorso proveremo ad incidere in qualche grado o misura sui processi
di composizione, nei termini espressi dalla relazione tra Auto-produzione e
soggettivazione politico-sociale (si veda Scarph Rec), e di riappropriazione di
questi stessi meccanismi di produzione e di distribuzione da parte della coppia
fruitore/creatore di musica. Com’etichetta, quindi, auspica e contribuisce alla
crescita ed al radicamento di tutti quei network che con il loro agire spingono
verso la de-mercificazione della musica e, più in generale, dei saperi e delle
conoscenze, ed alla cui base vi è l’utilizzo delle pratiche del no-copyright e
del copyleft. L’aumento della portata di questi network sembra passare per il
collaudo di pratiche sindacali “altre”. Tali pratiche dovrebbero definirsi in
qualcosa di sostanzialmente diverso dalle organizzazioni, come la SIAE, emerse a
presunta tutela degli autori nel corso del diciannovesimo secolo ed aventi una
struttura centralizzata, rigida, burocratizzata e, soprattutto,
anti-democratica, a favore invece delle pressioni auto-organizzanti. Queste
pressioni sembrano dare già vita a dei percorsi virtuosi: reti rizomatiche,
strutture flessibili, aperte e modulari di gruppi che riescono a diffondere in
qualche maniera la loro musica su larga scala. E’ proprio da qui che prende
avvio Ko-rec: un progetto sonoro, pubblico ed auto-gestito, la cui intenzione è
quella di agevolare la produzione e la distribuzione libera della musica, ovvero
la diffusione di una cultura pubblica del suono. La nostra filosofia ci porta a
considerare il musicista non un congegno da cui potere avviare la macinazione di
profitto ma bensì una macchina radicale e, soprattutto, desiderante alla quale
abbiamo la sola pretesa di fornire un ulteriore dispositivo al fine della
produzione musicale. Consideriamo le lobbie del disco, con le pressioni
esercitate sui governi, quali responsabili dell’aumento della repressione nei
confronti dei creatori di musica e dei fruitori non allineati ai loro interessi,
con il varo di leggi il cui tentativo è quello di limitare tout court la libera
diffusione delle conoscenze e dei saperi, nelle loro molteplici forme
espressive. Queste lobbie inoltre sono, a nostro avviso, responsabili della
precarizzazione, dell’aumento delle disparità materiali e della crescente
polarizzazione socio-economica a cui sono soggetti i creatori di musica.



Epilogo

Il dibattito sui copyright, eredi della censura inglese già a partire dal
sedicesimo secolo, e sui diritti di proprietà intellettuale sanciti a Berna nel
1886, è denso e ricco di sfumature, di posizioni differenti, talvolta
strumentali e in netta contrapposizione. Per molti aspetti, queste due nozioni
entrano in crisi. Così, qualcuno sostiene che la messa in discussione possa
finire con il favorire una nozione a discapito dell’altra. C’è invece chi
rigetta tale ipotesi, come nel caso della comunità aperta di narratori Wu Ming,
ed afferma che “nessun autore inventa o scrive da solo, […] le idee sono
nell’aria e non appartengono a un singolo individuo. L’autore, qualunque autore,
è più che altro un «riduttore di complessità», e svolge una funzione temporanea,
cioè trae una sintesi precaria da flussi di informazione/immaginazione che
vengono trasmessi dall’intera società e la riattraversano in lungo e in largo,
senza sosta, come le onde elettromagnetiche. In linea di principio, è assurdo
voler imporre una proprietà privata della cultura. Se al fondo tutto è prodotto
dalla moltitudine, è giusto che ogni «prodotto dell’ingegno» sia a sua
disposizione. Non ci sono «geni», quindi non ci sono «proprietari». C’è lo
scambio e il riutilizzo delle idee, cioè il loro miglioramento”. In conclusione,
le etichette discografiche indipendenti o, meglio, le net-label avranno per
certi aspetti un ruolo rilevante in questo processo. Queste, se non altro,
sembrano avere il vantaggio di non essere vincolate agli standard di selezione
propri delle major, che agevolano la solidificazione della musica in generi
separati da rigidissimi confini. Fattore questo che può favorire di sicuro
l’acquisizione d’alcune quote di mercato, ma il punto è in che grado o misura le
indipendenti contribuiranno alla de-mercificazione degli anelli delle catene di
produzione e di distribuzione dei prodotti musicali, suggellata in parte
dall’espansione di circuiti alternativi a quelli mainstream. Allo stato attuale
delle cose vi sono sia elementi che spingono in questa direzione, sia elementi
che spingono in senso opposto. Da questa dialettica emergerà, di fatto, una
nuova nozione di proprietà intellettuale, se questa sarà espressione di un mondo
dove le disparità materiali saranno ulteriormente amplificate o notevolmente
ridotte è al momento ancora impossibile saperlo.


www.ko-rec.org
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