Segue da precedente
partendo dalla fine del secolo scorso, abbraccia i primi tre lustri del Novecento: essa è caratterizzata certo da numerose riforme democratiche (che assicurano l'elezione diretta del Senato, la segretezza del voto, l'introduzione delle primarie e dell'istituto del referendum ecc.), ma costituisce al tempo stesso un periodo particolarmente tragico per neri (bersaglio del terrore squadristico del Ku Klux Klan) e indios (spogliati delle terre residue e sottoposti ad un processo di spietata omologazione che intende privarli persino della loro identità culturale). A proposito di questo paradosso che caratterizza la storia del loro paese, autorevoli studiosi statunitensi hanno parlato di Herrenvolk democracy , cioè di democrazia che vale solo per il «popolo dei signori» (per usare il linguaggio caro poi a Hitler) (Berghe 1967; Fredrickson 1987). La netta linea di demarcazione, tra bianchi da una parte e neri e pellerossa dall'altra, favorisce lo sviluppo di rapporti di uguaglianza all'interno della comunità bianca. I membri di un'aristocrazia di classe o di colore tendono ad autocelebrarsi come i ³pari²; la netta disuguaglianza imposta agli esclusi è l'altra faccia del rapporto di parità che s'instaura tra coloro che godono del potere di escludere gli «inferiori». Dobbiamo allora contrapporre positivamente l'Europa agli Stati Uniti? Sarebbe una conclusione precipitosa e errata. In realtà, la categoria di Herrenvolk democracy può essere utile anche per spiegare la storia dell'Occidente nel suo complesso. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, l'estensione del suffragio in Europa va di pari passo col processo di colonizzazione e con l'imposizione di rapporti di lavoro servili o semiservili alle popolazioni assoggettate; il governo della legge nella metropoli s'intreccia strettamente con la violenza e l'arbitrio burocratico e poliziesco e con lo stato d'assedio nelle colonie.
E' in ultima analisi lo stesso fenomeno che si verifica nella storia degli Stati Uniti, solo che nel caso dell'Europa esso risulta meno evidente per il fatto che le popolazioni coloniali, invece di risiedere nella metropoli, sono da questa separati dall'oceano. 7. Missione imperiale e fondamentalismo cristiano nella storia degli USA E' su un piano diverso che possiamo cogliere le reali differenze nello sviluppo politico e ideologico tra le due rive dell'Atlantico. Dopo essere stata profondamente segnata dalla grande stagione dell'illuminismo, alla fine dell'Ottocento l'Europa conosce un processo ancora più radicale di secolarizzazione: a ritenere ormai ineluttabile la «morte di Dio» sono sia i seguaci di Marx sia i seguaci di Nietzsche. Ben diverso è il quadro che presentano gli Stati Uniti. Nel 1899, la rivista Christian Oracle spiega così la decisione di cambiare il suo nome in Christian Century : «Crediamo che il prossimo secolo sarà testimone, per la cristianità, dei più grandi trionfi di tutti i secoli e che esso sarà più autenticamente cristiano di tutti quelli precedenti» (in Olasky 1992, 135). In questo momento è in corso la guerra contro la Spagna, accusata dai dirigenti USA di privare ingiustamente Cuba del suo diritto alla libertà e all'indipendenza, per di più ricorrendo, in un'isola «così vicina ai nostri confini», a misure che ripugnano al «senso morale del popolo degli Stati Uniti» e che rappresentano una «disgrazia per la civiltà cristiana» (in Commager 1963, II, 5). Richiamo indiretto alla dottrina Monroe e appello alla crociata in nome al tempo stesso della democrazia, della morale e della religione s'intrecciano strettamente per scomunicare per così dire un paese cattolicissimo e conferire il carattere di guerra santa a tutti gli effetti ad un conflitto che avrebbe consacrato il ruolo di grande potenza imperiale degli USA. Più tardi, il presidente McKinley spiega la decisione di annettere le Filippine con un'illuminazione di «Dio Onnipotente» che, dopo prolungate preghiere in ginocchio, finalmente, in una notte sino a quel momento particolarmente angosciosa, lo libera da ogni dubbio e indecisione. Non era lecito, lasciare nelle mani della Spagna la colonia o cederla «alla Francia o alla Germania, i nostri rivali commerciali in Oriente»; e neppure era lecito affidarla agli stessi filippini che, «inadatti all'autogoverno», avrebbero fatto piombare il loro paese in una condizione di «anarchia e malgoverno» ancora peggiori di quelli prodotti dal dominio spagnolo: «Non ci restava null'altro che mantenere le Filippine, che educare i filippini, innalzandoli, civilizzandoli e cristianizzandoli, e, con l'aiuto di Dio, fare il nostro meglio per loro, come nostri fratelli, per i quali, anche, Cristo è morto. E allora andai a letto, mi addormentai e dormii profondamente» (in Millis 1989, 384). Oggi sappiamo degli orrori che ha comportato la repressione del movimento indipendentista nelle Filippine: la guerriglia da esso scatenata fu fronteggiata con la distruzione sistematica dei raccolti e del bestiame, rinchiudendo in massa la popolazione in campi di concentramento dove era falcidiata da inedia e malattie e in certi casi ricorrendo persino all'uccisione di tutti i maschi al di sopra dei dieci anni (McAllister Linn 1989, 27, 23). E, tuttavia, nonostante l'ampiezza dei «danni collaterali», la marcia dell'ideologia della guerra imperial-religiosa conosce una nuova trionfale tappa col primo conflitto mondiale. Subito dopo l'intervento, in una lettera al colonnello House, così Wilson si esprime a proposito dei suoi «alleati»: «Quando la guerra sarà finita, li potremo sottoporre al nostro modo di pensare per il fatto che essi, tra le altre cose, saranno finanziariamente nelle nostre mani» (in Kissinger 1994, 224). Indipendentemente da ciò, non ci sono dubbi sul fatto che «agiva un forte elemento di Realpolitik» (Heckscher 1991, 298) nell'atteggiamento da Wilson assunto sia nei confronti dell'America Latina che del resto del mondo. E, tuttavia, ciò non gli impedisce di condurre la guerra come una Crociata nel senso persino letterale del termine: i soldati americani sono «crociati» protagonisti di una «trascendente impresa» (Wilson 1927, II, 45, 414) di una «guerra santa, la più santa di tutte le guerre», destinata a far trionfare nel mondo la causa della pace, della democrazia e dei valori cristiani. E di nuovo, interessi materiali e geopolitici, ambizioni egemoniche e imperiali e buona coscienza missionaria e democratica si fondono in un'unità indissolubile e irresistibile. Con questa medesima piattaforma ideologica, gli USA affrontano gli ulteriori conflitti del Novecento. Particolarmente significativa è la vicenda della guerra fredda. Uno dei suoi protagonisti, Foster Dulles, è, secondo la definizione di Churchill, «un puritano rigoroso». Egli è orgoglioso del fatto che «nel dipartimento di Stato nessuno conosce la Bibbia meglio di me». Il fervore religioso non è un affare privato: «Sono convinto che abbiamo bisogno di far sì che i nostri pensieri e pratiche politiche riflettano in modo più fedele la fede religiosa secondo cui l'uomo ha la sua origine e i suo destino in Dio» (in Kissinger 1994, 534-5.). Assieme alla fede, altre fondamentali categorie della teologia irrompono nella lotta politica a livello internazionale: i paesi neutrali che si rifiutano di prender parte alla Crociata contro l'Unione Sovietica si macchiano di «peccato», mentre gli USA che si pongono alla testa di tale Crociata sono il «popolo morale» per eccellenza (in Freiberger 1992, 42-3). A guidare questo popolo che si distingue da tutti gli altri per la sua moralità e la sua vicinanza a Dio è, nel 1983, Ronald Reagan. Questi dà impulso alla fase culminante della guerra fredda, destinata a sancire la disfatta del nemico ateo, con un linguaggio esplicitamente e squillantemente teologico «Nel mondo c'è peccato e male e dalla Scrittura e da Gesù Nostro Signore siamo obbligati ad opporci ad essi con tutte le nostre forze» (in Draper 1994, 33). Veniamo infine ai giorni nostri. Nel discorso che inaugura il suo primo mandato presidenziale, Clinton non è meno religiosamente ispirato dei suoi predecessori e del suo successore: «Oggi celebriamo il mistero del rinnovamento americano». Dopo aver ricordato il patto intercorso tra «i nostri padri fondatori» e «l'Onnipotente», Clinton sottolinea: «La nostra missione è senza tempo» (Lott 1994, 366). Riallacciandosi a questa tradizione e radicalizzandola ulteriormente, George W. Bush ha condotto la sua campagna elettorale proclamando un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo» (Cohen 2000). Come si vede, nella storia degli Stati Uniti la religione è chiamata a svolgere a livello internazionale una funzione politica di primo piano. Siamo in presenza di una tradizione politica americana che si esprime con un linguaggio esplicitamente teologico. Più che alle dichiarazioni rilasciate dai capi di Stato europei, le «dottrine» di volta in volta enunciate dai presidenti statunitensi fanno pensare alle encicliche e ai dogmi diffuse o proclamati dai pontefici della Chiesa cattolica. I discorsi inaugurali dei presidenti sono delle vere e proprie cerimonie sacre. Mi limito a due esempi. Nel 1953, dopo aver invitato i suoi ascoltatori ad inchinare il capo dinanzi a «Dio onnipotente», rivolgendosi direttamente a Lui, Eisenhower esprime questo auspicio : « che tutto possa svolgersi per il bene del nostro amato paese e per la Tua gloria. Amen» (Lott 1994, 302). In questo caso balza agli occhi con particolare evidenza l'identità che c'è tra Dio e America. A quasi mezzo secolo di distanza il quadro non cambia. Abbiamo visto in che modo si apre il discorso inaugurale di Clinton. Ma vediamo in che modo si conclude. Dopo aver citato la sacra «Scrittura», il neo-presidente termina così: «Da questa vetta della celebrazione noi udiamo una chiamata al servizio nella valle. Abbiamo sentito le trombe. Abbiamo fatto il cambio della guardia. Ed ora, ciascuno a suo modo e con l'aiuto di Dio, dobbiamo rispondere alla chiamata. Grazie e che Dio vi benedica tutti» (Lott 1994, 369). E di nuovo, gli Stati Uniti sono celebrati come la città sulla collina, la città benedetta da Dio. Nel discorso pronunciato subito dopo la sua rielezione, Clinton sente il bisogno di ringraziare Dio di averlo fatto nascere americano. Dinanzi a questa ideologia, anzi a questa teologia della missione l'Europa si è sempre trovata a disagio. E' nota l'ironia di Clemenceau a proposito dei quattordici punti di Wilson: il buon Dio aveva avuto la modestia di limitarsi a dieci comandamenti! Nel 1919, in una lettera privata, John Maynard Keynes definisce Wilson «il più grande impostore della terra» (In Skidelsky, 1989, p. 444). In termini forse ancora più aspri si esprime Freud, a proposito della tendenza dello statista americano a ritenersi investito di una missione divina: siamo in presenza di «spiccatissima insincerità, ambiguità e inclinazione a rinnegare la verità»; d'altro canto, già Guglielmo II riteneva di essere «un uomo prediletto della Provvidenza» (Freud, 1995, 35-6). Ma qui Freud si sbaglia; egli rischia di accostare due tradizioni ideologiche assai diverse. E' vero, anche l'Imperatore tedesco non disdegna di abbellire con motivi religiosi le sue ambizioni espansionistiche: rivolgendosi alle truppe in partenza per la Cina, egli invoca la «benedizione di Do» su un'impresa chiamata a stroncare nel sangue la rivolta dei Boxers e a diffondere il «cristianesimo» (Röhl 2001, 1157); è incline a considerare i tedeschi come «il popolo eletto di Dio» (Röhl 1993, 412). Lo stesso Hitler dichiara di sentirsi chiamato a svolgere «l'opera del Signore» e di voler obbedire alla volontà dell'«Onnipotente» (Hitler 1939, 70, 439), tanto più che i tedeschi sono «il popolo di Dio» (in Rauschning 1940, 227). D'altro canto, è noto e famigerato il motto Gott mit uns (Dio con noi)S E, tuttavia, non bisogna sopravvalutare il peso di queste dichiarazioni e di questi motivi ideologici. In Germania (la patria di Marx e di Nietzsche) il processo di secolarizzazione è assai avanzato. L'invocazione della «benedizione di Dio» da parte di Guglielmo II non viene presa sul serio neppure nei circoli sciovinisti: almeno agli occhi dei loro esponenti più avveduti (Maximilian Harden), ridicoli appaiono il ritorno ai «giorni delle Crociate» e la pretesa di «conquistare il mondo al Vangelo»; «così gironzolano attorno al Signore i visionari e gli speculatori furbi» (in Röhl 2001, 1157). Sì, prima ancora di ascendere al trono, il futuro imperatore celebra i tedeschi come «il popolo eletto di Dio», ma a prenderlo in giro è già la madre, figlia della regina Vittoria e incline, semmai, a rivendicare il primato dell'Inghilterra (Röhl 1993, 412). E' un punto, quest'ultimo, su cui conviene riflettere ulteriormente. In Europa i miti genealogici imperiali si sono in una certa misura neutralizzati a vicenda; le famiglie reali erano tutte imparentate tra di loro sicché, nell'ambito di ognuna di esse, si affrontavano idee di missione e miti genealogici imperiali tra loro diversi e contrastanti. A screditare ulteriormente queste idee e queste genealogie ha inoltre provveduto l'esperienza catastrofica di due guerre mondiali; d'altro canto, nonostante la sua finale sconfitta, qualche traccia ha pur lasciato nella coscienza europea la decennale agitazione comunista condotta in nome della lotta contro l'imperialismo e in nome del principio dell'uguaglianza delle nazioni. Il risultato di tutto ciò è chiaro: in Europa risulta priva di credibilità ogni idea di missione imperiale e di elezione divina agitata da questa o quella nazione; non c'è più spazio per l'ideologia imperial-religiosa che un ruolo così centrale occupa negli Stati Uniti. Per quanto riguarda in particolare la Germania, la storia che va dal Secondo al Terzo Reich presenta un'oscillazione tra la nostalgia di un paganesimo guerresco e incentrato attorno al culto di Wotan e l'aspirazione a trasformare il cristianesimo in una religione nazionale, chiamata a legittimare la missione imperiale del popolo tedesco. Questo secondo tentativo trova la sua espressione più compiuta nel movimento dei Deutsche Christen , i «cristiani tedeschi». Poco credibile a causa già del processo di secolarizzazione che, oltre alla società nel suo complesso, aveva investito la stessa teologia protestante (si pensi a Karl Barth e a Dietrich Bonhoeffer) e poco credibile altresì a causa delle simpatie paganeggianti dei dirigenti del Terzo Reich, questo tentativo non poteva avere che scarso seguito. La storia degli Stati Uniti è, invece, attraversata in profondità dalla tendenziale trasformazione della tradizione ebraico-cristiana in quanto tale in una sorta di religione nazionale che consacra l' exceptionalism del popolo americano e la missione salvifica a lui affidata. Ma questo intreccio di religione e politica non è sinonimo di fondamentalismo? Non è un caso che il termine fondamentalismo compare per la prima volta in ambito statunitense e protestante e come auto-designazione positiva e orgogliosa di sé. Possiamo ora comprendere i limiti dell'approccio di Freud e Keynes: ovviamente, nelle amministrazioni americane che via via si succedono non mancano gli ipocriti, i calcolatori, i cinici, ma non c'è motivo per dubitare della sincerità ieri di Wilson oggi di Bush jr. Non bisogna perdere di vista il fatto che siamo in presenza di una società scarsamente secolarizzata, nell'ambito della quale il 70 per cento degli abitanti crede nel diavolo e più di un terzo degli adulti pretende che Dio parli loro direttamente (Gray 1998, 126; Schlesinger jr., 1997). Ma questo è un elemento di forza, non già di debolezza. La tranquilla certezza di rappresentare una causa santa e divina facilita non solo la mobilitazione corale nei momenti di crisi, ma anche la rimozione o bagatellizzazione delle pagine più nere della storia degli Usa. Sì, nel corso della guerra fredda Washington ha inscenato in America Latina sanguinosi colpi di Stato e imposto feroce dittature militari, mentre in Indonesia, nel 1965, ha promosso il massacro di alcune centinaia di migliaia di comunisti o di filo-comunisti; ma, per spiacevoli che possano essere, questi dettagli non sono in grado di offuscare la santità della causa incarnata dall'«Impero del Bene». E' più vicino alla verità Weber allorché, nel corso della prima guerra mondiale, denuncia il «cant» americano (Weber 1971, 144). Il «cant» non è la menzogna e neppure, propriamente, l'ipocrisia cosciente; è l'ipocrisia di chi riesce a mentire anche a se stesso; è un po' la falsa coscienza di cui parla Engels. Sia in Keynes sia in Freud si manifestano al tempo stesso la forza e la debolezza dell'illuminismo. Largamente immunizzata dall'ideologia imperial-religiosa che imperversa al di là dell'Atlantico, l'Europa si rivela tuttavia incapace di comprendere adeguatamente questo intreccio tra fervore morale e religioso da un lato e lucido e spregiudicato perseguimento dell'egemonia politica, economica e militare a livello mondiale dall'altro. Ma è questo intreccio, anzi questa miscela esplosiva, è questo peculiare fondamentalismo a costituire oggi il pericolo principale per la pace mondiale. Più che ad una nazione determinata, il fondamentalismo islamico fa riferimento ad una comunità di popoli, i quali, non senza ragione, ritengono di essere il bersaglio di una politica di aggressione e di occupazione militare. Il fondamentalismo statunitense, invece, trasfigura e inebria un paese ben determinato che, forte della sua consacrazione divina, considera irrilevante l'ordinamento internazionale vigente, le leggi puramente umane. E' in questo quadro che va collocata la delegittimazione dell'Onu, la sostanziale messa fuori gioco della Convenzione di Ginevra, le minacce rivolte non solo ai nemici ma persino agli «alleati» della Nato. 8. Dalla campagna contro la «drapetomania» alla campagna contro l'antiamericanismo Oltre che a combattere il «male» e a diffondere i valori cristiani e americani, la guerra contro l'Irak, e le altre che si profilano all'orizzonte, hanno il compito di espandere la democrazia nel mondo. Quale credibilità ha quest'ultima pretesa? Ritorniamo al giovane indocinese che abbiamo visto denunciare, nel 1924, l'orrore dei linciaggi contro i neri. Dieci anni più tardi, egli ritorna nella sua terra d'origine per assumere il nome, divenuto poi celebre in tutto il mondo, di Ho Chi Minh. Nel momento dei feroci bombardamenti scatenati da Washington avrà pensato il dirigente vietnamita all'orrore della violenza anti-nera scatenata dai campioni della white supremacy ? In altre parole, l'emancipazione degli afro-americani e la conquista da parte loro dei diritti civili e politici ha realmente significato una svolta oppure gli Stati Uniti continuano in sostanza ad essere una Herrenvolk democracy , anche se gli esclusi non sono più da ricercare sul territorio metropolitano ma al di fuori di esso, come d'altro canto a lungo si è verificato nell'ambito della storia della «democrazia» europea? Possiamo esaminare il problema da una diversa prospettiva, a partire da una riflessione di Kant: «Cos'è un monarca assoluto ? E' colui che quando comanda -la guerra deve essere,- la guerra segue». Ad essere qui presi di mira non sono gli Stati dell'Antico regime, bensì l'Inghilterra, che pure aveva alle sue spalle un secolo di sviluppo liberale (Kant 1900, 90 nota). Dal punto di vista del grande filosofo, il presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere considerato dispotico due volte. In primo luogo, a causa dell'emergere negli ultimi decenni di una «imperial presidency» che, nell'intraprendere azioni militari, mette spesso il Congresso dinanzi al fatto compiuto. In questa sede, ci interessa soprattutto il secondo aspetto: la Casa Bianca decide in modo sovrano quando le risoluzioni dell'Onu sono vincolanti e quando non lo sono; decide in modo sovrano chi sono i rogue States , contro i quali è lecito imporre l'embargo, affamando un intero popolo, ovvero è lecito scatenare l'inferno di fuoco, compresi i proiettili ad uranio impoverito e le cluster bombs che continuano ad infierire sulla popolazione civile ben al di là della fine del conflitto. Sempre in modo sovrano, la Casa Bianca decide l'occupazione militare di questi paesi per tutto il tempo che essa ritiene necessario, condannando all'ergastolo o incarcerando i loro dirigenti e i loro «complici». Contro di loro e contro i «terroristi» è lecito ricorrere anche al targeted killing , ovvero ad un killing tutt'altro che targeted , ad esempio il bombardamento di un normale ristorante dove si ritiene che possa trovarsi Saddam HusseinS E' chiaro che le garanzie giuridiche non valgono per i «barbari». Anzi, a ben guardare, come dimostra il Patriot Act , la rule of law non si applica neppure per coloro che, pur non essendo« barbari» nel senso stretto del termine, sono tuttavia sospettabili di fare il loro gioco. E' interessante esaminare la storia alle spalle dell'espressione « rogue States ». A lungo, tra Sei e Settecento, in Virginia i semi-schiavi, gli schiavi a tempo di pelle bianca, allorché venivano catturati dopo la fuga cui spesso cercavano di far ricorso, erano marchiati a fuoco con la lettera R (che stava per « Rogue »): resi così immediatamente riconoscibili, non avevano più via di scampo. Più tardi, il problema dell'identificazione veniva risolto definitivamente sostituendo ai semi-schiavi bianchi gli schiavi neri: il colore della pelle rendeva superflua la marchiatura a fuoco, il nero era già di per sé sinonimo di Rogue . Ora ad essere marchiati come «Rogue» sono interi Stati. La Herrenvolk democracy è dura a morireS Ma questa è una storia vecchia. Nuova è invece l'insofferenza crescente che Washington mostra nei confronti degli «alleati». Anche loro sono chiamati a inchinarsi, senza troppe tergiversazioni, al volere della nazione eletta da Dio. Ben si comprendono le perplessità e le reazioni negative che provoca l'atteggiarsi da parte del presidente degli Stati Uniti a sovrano planetario non vincolato e non limitato da nessun organismo internazionale. Ed ecco che gli ideologi della guerra gridano allo scandalo per il diffondersi di questo morbo terribile che, come sappiamo, è l'antiamericanismo. Per singolare che sia tale reazione, essa non è priva di analogie storiche. Alla metà dell'Ottocento, nel sud degli Stati Uniti il regime schiavista è vivo e vitale. E', tuttavia, già si diffondono i primi dubbi e le prime inquietudini: aumenta il numero degli schiavi fuggitivi. Questo fenomeno non solo allarma ma stupisce gli ideologi della schiavitù e della white supremacy : com'è possibile che persone ³normali² si sottraggano ad una società così bene ordinata e alla gerarchia della natura? Deve senza dubbio trattarsi di un morbo, di una turba psichica. Ma di cosa propriamente si tratta? Nel 1851, Samuel Cartwright, chirurgo e psicologo della Louisiana, ritiene finalmente di poter giungere ad una spiegazione che egli comunica ai suoi lettori dalle colonne di un'autorevole rivista scientifica, il «New Orleans Medical and Surgical Journal». Prendendo le mosse dal fatto che nel greco classico drapeths è lo schiavo fuggitivo, lo scienziato conclude trionfalmente che la turba psichica, il morbo che spinge gli schiavi neri alla fuga è per l'appunto la «drapetomania» (in Eakin, 2000). La campagna ai giorni nostri in corso contro l'antiamericanismo ha molti punti di contatto con la campagna scatenata oltre un secolo e mezzo fa contro la drapetomania!
Riferimenti bibliografici
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www.voceoperaia.it]
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