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Autor: ugo
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Assumpte: [NuovoLaboratorio] Agghiacciante rapportodell'Ufficio internazionaledel lavoro sulla schiavitù
NEL MONDO GLOBALE PIU' DI 12 MILIONI SONO ANCORA SCHIAVI

Per guerra o per nascita, per povertà o per casta, sotto la minaccia delle
armi o al chiuso di una cella: sono oltre 12 milioni gli schiavi che abitano
la terra. Un esempio: a Myanmar, l'ex Birmania, la schiavitù è protetta direttamente
dallo stato. Uomini, donne, soprattutto bambini: corpi ridotti a mero strumento
di profìtto, in una fabbrica globale che rende 25 miliardi di euro ogni anno.
La cifra è altamente indicativa, e naturalmente per difetto, poiché censire
tutti i lavoratori forzati non è davvero possibile.
L'Ufficio internazionale del lavoro (Ilo) ci ha provato e ne ha contati 12.300.000,
per la precisione, specificando che «II lavoro forzato è il rovescio della
globalizzazione. Un insulto ai diritti e alla dignità degli esseri umani,
una piaga sociale che non dovrebbe esistere nel mondo moderno». Parole che
il direttore dell'Ilo, Juan Somavia, ha pronunciato commentando il nuovo
rapporto, intitolato «Un'allenza globale contro il lavoro forzato», presentato
ieri a Ginevra.
Schiavisti di stato
II dossier è chiaro: non si riferisce alla massa sempre più vasta di lavoratori
sottopagati e con scarsi; dirit ti, ma a milioni di persone realmente ridotte
in schiavitù, «costrette a lavorare sotto minaccia», come si legge nelle
prime righe, «e ormai incapaci di riacquistare la propria libertà». Gli schiavisti
possono essere di diverso tipo: si va dallo Stato agli imprenditori, dai
trafficanti di esseri umani ai privati cittadini. Vario anche il mercato:
si può finire in fabbrica, oppure in una casa come domestici, o ancora per
strada, a rimpinguare il mercato del sesso.
E da questa piaga non c'è continente che possa dirsi esente: la mappatura
ha censito 360mila schiavi nei paesi industrializzati e 210mila in quelli
con un'economia di transizione. Possono sembrare briciole, se pensiamo che
in Asia ce ne sono 9 milioni e 500mila. Ma briciole non sono: per gli schiavisti,
gran parte dei profitti viene proprio dai paesi ricchi e provengono dallo
sfruttamento della prostituzione. Oltre 12 miliardi di euro, sui 25 totali,
derivano dal traffico di esseri umani, un fenomeno che tocca la vita di almeno
due milioni e 400mila persone. Dopo l'Asia, il continente col più alto numero
di lavoratori forzati è l'America Latina, con un milione e 300mila persone
ridotte in schiavitù, mentre nell'Africa subsahariana ne esistono 660mila
e tra Medio Oriente e Africa del nord se ne contano altri 260mila. Il prezzo
più alto, come sempre, lo pagano i più deboli: il 50 per cento degli schiavi
ha meno di 18 anni.
Ma come si diventa schiavi nel Terzo millennio? I modi sono molteplici: mediante
la minaccia di violenza personale o ai parenti, per esempio, oppure di denunce
alla polizia; o ancora, attraverso il sequestro dei documenti d'identità.
E questa, purtroppo, è storia nota. «A Myanmar gli schiavi sono reclutati
soprattutto nelle aree più periferiche del paese», denuncia il rapporto,
«e l'operazione è realizzata con la forza delle armi. Per noi», continua
il dossier, «in questo paese non è stato possibile compiere alcun passo avanti.
E questo dimostra che, fin quando esiste l'impunità per gli schiavisti e
la repressione per chi invece denuncia gli abusi, è pratica mente impossibile
fare progressi».
In Cina - dove l'Ilo dice comunque di aver ottenuto dei risultati - il lavoro
forzato è indotto frequentemente attraverso la reclusione in carcere. Merito
della «rieducazione attraverso il lavoro», un sistema elaborato per punire
i reati meno gravi. Una fabbrica di forzati a pieno titolo, considerato che
ha coinvolto -solo nel 2004 - ben 260mila persone. Dopo anni di battaglie
civili, la riforma del sistema è stata ora messa in agenda dal governo.
Pensare che il fenomeno del lavoro forzato in carcere sia una peculiarità
di Pechino, però, sarebbe un grave errore: «E' un fenomeno radicato anche
nei paesi industrializza-
ti», continua il dossier, «dove la gente è costretta a lavorare in prigioni
private oppure messa a disposizione degli imprenditori». Nei paesi con economia
emergente, invece, la schiavitù è sempre più legata alla povertà e alle discriminazioni:
«Le vittime arrivano dalle caste più basse nei paesi asiatici», continua
il rapporto, «dalle popolazioni indigene dell'America latina, dagli abitanti
delle foreste in Africa. Alle vecchie classi di schiavi, come i servi della
gleba dell'economia agraria, in questi paesi se ne aggiungono altre, tutte
con nuove metodologie di coercizione e sempre più spesso legate all'indebitamento,
che finiscono per lavorare nei più svariati settori dell'industria o nelle
case di privati cittadini come domestici. La povertà e la lontananza dalla
propria terra sono le condizioni più fertili per la riduzione in schiavitù,
anche quando, lasciando la propria comunità, queste persone si spostano in
aree del loro stesso paese».
Il sistema dell'indebitamento
Quello dell'indebitamento, a quanto pare, è uno dei sistemi più diffusi:
al datore di lavoro, perché possa trasformarsi in padrone e ridurre in schiavitù
il proprio operaio, basta anticipare uno stipendio, necessario al lavoratore
per far fronte alle spese più urgenti. Si tratta di uno dei me todi più comuni
nei paesi asiatici, dove gli alti tassi di interesse, gli stipendi bassissimi
e l'inflazione galoppante, spingono sempre più spesso i lavoratori a chiedere
anticipi ai propri datori di lavoro: da quel momento, inizia una lunga catena
di minacce e violenze, fisiche e psicologiche, come quella di impedire alla
vittima qualsiasi possibilità di futuro impiego.
Ma schiavi si diventa anche per nascita, o meglio, per eredità: «Nei casi
peggiori, i ragazzini possono essere tratti in schiavitù anche indipendentemente
dalle proprie famiglie, oppure possono ereditare i debiti dei propri genitori».
Tornando alla Cina, il fenomeno va di pari passo con le migrazioni interne,
dalle aree rurali a quelle urbane. Solitamente colpisce donne e ragazzine,
smistate con violenza nel mercato del sesso. Ma molti cinesi, secondo il
rapporto, terminano la loro migrazione dopo una lunga e complessa tratta
che li porta in Europa, dove vivono in una condizione di semi schiavitù lavorando
senza alcun diritto tra ristoranti e negozi.
E dopo aver realizzato che - come succede a Myanmar - non è an-
cora scomparsa la schiavitù di stato, leggendo il rapporto si scopre che
esiste ancora la schiavitù dei prigionieri di guerra: «II caso del Sudan
spiega come il lavoro forzato sia le gato, in un contesto di guerra civile,
a un fattore come l'etnia: le tensioni tra la gente del nord e quella meridionale
ha portato alla cattura di prigionieri fra i combattenti del sud, che sono
stati ridotti in schiavitù, tranne nei casi in cui sia stato pagato un riscatto».
Inganni e violenze
Continuando a monitorare l'Africa, l'Ilo ha verificato come a volte basti
un semplice inganno, misto alla violenza, per schiavizzare la gente. Ecco
cosa succede alle donne nigeriane che tentano di emigrare in Italia; «I trafficanti
dicono loro che, per raggiungere l'Italia, il viaggio è costato tra i 50
e i 60mila euro. Poi, con la violenza e le minacce, le costringono a seguire
i propri ordini finché non hanno sanato il debito. Per sottometterle ai proprio
volere fanno ricorso a riti magici e le convincono che uccideranno i loro
familiari se non pagheranno l'intera cifra o se li denunceranno alla polizia».
E terminando, con i paesi più ricchi, l'Ho denuncia che a volte sono gli
stessi imprenditori europei o americani a schiavizzare i propri dipendenti:
«Sequestrando loro i documenti d'identità e minacciando poi di denunciarli
alle autorità co-me clandestini».
Se debellare la schiavitù sembra davvero un'impresa disperata, riuscire almeno
a contrastarla sembra possibile. Il lavoro forzato può essere abolito, spiega
il dossier, «ma a condizione che i governi e le istituzioni nazionali perseguano
un'azione politica costante, rafforzando le leggi e dimostrando un impegno
reale per sradicare questo tipo di trattamento inflitto agli esseri umani».
In alcuni casi, conclude l'Ilo, dei risultati sono stati raggiunti. In Brasile,
per esempio, dove è stato incentivato l'uso delle agenzie per l'occupazione
e si sta creando una legislazione più efficace, con pene maggiori, per contrastare
i nuovi schiavisti. Oppure in India, dove invece 18mila «kamaiyas», gli schiavi
delle campagne, sono stati già riabilitati e hanno ottenuto terra e materiale
per poter costruire una casa.
«II lavoro forzato è l'antitesi del lavoro dignitoso», ha concluso So-mavia,
«e per quanto elevate, queste cifre non sono tali da rendere impossibile
l'abolizione del lavoro forzato».
Oggi c'è un forte bisogno di escogitare delle strategie efficaci per combattere
il lavoro forzato: «è richiesto uno sforzo volto sia al rafforzamento delle
leggi, sia allo sradicamento delle cause strutturali -sistemi agricoli antiquati
o mercati del lavoro mal funzionanti».

di ANTONIO MASSARI

da "IL MANIFESTO" del 12/05/05



Ugo Beiso



Ugo Beiso