La cellula delle bombe
Ecco chi ha colpito a Genova, Milano, Roma e Bologna. Molte sigle
anarchiche, un unico commando
Solo sette dinamitardi dietro tutti gli attentati
Bologna
È la grande beffa degli anarco-insurrezionalisti. Per anni hanno firmato, in
un incremento esponenziale di sigle e formazioni, gli attentati esplosivi e
dinamitardi che hanno colpito Bologna, Milano, Roma e hanno bersagliato
ripetutamente la Genova del G8. Hanno portato lo scompiglio nelle
istituzioni europee con i pacchi bomba nelle sedi dell'Unione, di Eurojust
(la superprocura continentale), di Europol. Hanno lambito le istituzioni più
alte, con le deflagrazioni davanti al ministero dell'Interno, vicino
all'abitazione bolognese di Romano Prodi e addirittura in casa sua, con una
busta che s'infiammò appena aperta. Hanno cercato (e il tentativo è fallito
solo per un intoppo) di far saltare la prima serata del Festival di Sanremo,
in diretta televisiva, nella notte delle bombe a Genova e Milano, lo scorso
primo marzo.
Ma la grande struttura del movimento, apparentemente articolata in tanti
rivoli spontanei, è in realtà un bluff. Un progetto mediatico che nasconde,
dietro il proliferare delle sigle, una realtà di modeste dimensioni
numeriche. Non più di sei o sette persone, tra coloro che materialmente
hanno realizzato gli attentati. Un piccolo nucleo, mobilissimo sul
territorio. Intorno a loro una piccola organizzazione, che non conta più di
trenta, quaranta persone. Attive nel compilare le rivendicazioni, nel farle
rimbalzare sulla rete telematica, nel realizzare piccole azioni dimostrative
a supporto di quelle più eclatanti.
Ne sono convinti gli investigatori della Digos e del Ros dei carabinieri,
che da quattro anni lavorano su una catena di azioni dimostrative sempre più
violente, sempre più potenzialmente pericolose. Ne sono convinti gli
analisti romani dell'antiterrorismo del Viminale (l'ex Ucigos), che
sottolineano come «il gusto sardonico della beffa sia insito in
quell'ideologia». Ricordando come il primo nucleo, la prima formazione che
rivendica esplicitamente un attentato cattivo (tre giorni prima del G8,
vicino alla questura di Bologna in via dei Terribilia, fu disinnescato un
grosso ordigno nascosto nel portapacchi di una bicicletta, tanto potente da
poter essere letale) è proprio la Cooperativa artigiana fuoco e affini
(occasionalmente spettacolare): già dal nome, esplicita il gusto dello
sberleffo, del lazzo verso il potere.
Su imitazione dei gruppi europei, sempre entità molto piccole. «Le evidenze
informative - si legge in una informativa Sisde - hanno posto in luce i
contatti con circoli sloveni, svizzeri, britannici, greci e, soprattutto, i
rapporti privilegiati con l'insurrezionalismo spagnolo». Anche il gruppo
spagnolo delle Cinque C ha utilizzato un sistema analogo contro il Fies, il
regime di carcere duro nei penitenziari iberici, con una campagna di plichi
esplosivi; e non è un caso se gli attivisti di quella formazione sono
sospettati di essere i principali ispiratori (in qualche caso, come
l'attentato alla questura di Genova del dicembre 2002, anche complici) degli
insurrezionalisti nostrani. Ai progetti di destabilizzazione del sistema è
legato anche il falso messaggio in lingua araba su internet all'epoca del
rapimento di Simona Pari e Simona Torretta, segnalato dall'intelligence al
ministero degli Esteri e rivelato dal Secolo XIX il 23 ottobre 2004.
Oggi la conferma, nella "54ª relazione sulla politica informativa e della
sicurezza" realizzata dal Cesis (l'organismo che coordina l'attività dei
servizi) e inviata alla presidenza del Consiglio dei ministri. A pagina 27
si legge: «Significativo un progetto disinformativo, segnalato dal Sismi,
maturato in ambienti del radicalismo anarchico ligure e volto a screditare
il Governo italiano con la diffusione sulla rete di falsi messaggi in lingua
araba».
Paolo Giovagnoli è il pm bolognese che coordina l'attività del pool
antiterrorismo della procura felsinea, composto anche da Luca Tampieri e da
Morena Plazzi. È il 15 marzo, giorno del giudizio abbreviato della
brigatista Cinzia Banelli e l'edificio tutto specchi che ospita procura e
uffici dei gip è un fortilizio difeso da centinaia di poliziotti. Ma
Giovagnoli, cortese, trova il tempo per una chiacchierata. Non ci sono
strappi nella segretezza delle inchieste, ma un'ammissione che conferma le
sensazioni delle ultime settimane: «Dopo anni di indagine, i nodi stanno
finalmente venendo al pettine».
La pista giusta sembra imboccata: il nucleo dei principali sospettati
ristretto all'ambito di qualche decina di persone. Ma i fuochisti, come
vengono definiti in gergo, sono davvero pochi. Sei, sette persone,
distribuite tra Milano, Bologna e l'area calda di Rovereto, in Trentino. Un
piccolissimo nucleo, quello di Rovereto, già tenuto d'occhio dagli
inquirenti dopo l'attentato alla caserma di Sturla del 2004. A loro il Sisde
attribuisce anche i danneggiamenti e i tentativi di sabotaggio ai danni
delle linee ferroviarie avvenuti nella seconda metà del 2004: Rovereto, 26
luglio; Calliano (Trento), 27 luglio; Bologna, 15 agosto; Fenilon (Verona) 3
dicembre.
Come comunicano tra di loro? Il tema che affiora, e che ha consentito una
svolta investigativa, si chiama messaggistica anonima. Uno scambio di
informazioni attraverso volantini di rivendicazione, comunicati, scritti poi
pubblicati sui siti internet e sulle cosiddette riviste d'area. Messaggi
che, al di là dei contenuti espliciti, sembrano contenere una sorta di
crittografia che permette ai pochi componenti del gruppo d'azione di tenersi
in contatto e segnalare i successivi obiettivi.
Messaggistica anonima e soprattutto quasi immediata. A volte con una
singolarità tempistica quasi imbarazzante. Nell'ultimo numero di Terra
Selvaggia, rivista del gruppo ecologista Il Silvestre di Pisa, appare il
comunicato di rivendicazione degli attentati genovesi e milanesi del primo
marzo, con una missiva che gli estensori della pubblicazione dicono giunta
in redazione, ovviamente in maniera anonima, il 2 marzo. Conseguenza: il
volantino è partito per posta prioritaria prima ancora che gli ordigni
esplodessero.
«Oggi - conclude Giovagnoli - non siamo più convinti che esistano realtà
diverse, una che compie gli attentati e una che, per mero spirito di
informazione alternativa, pubblica le comunicazioni anonime. Siamo sicuri
che si tratta di un unico progetto organico». E questa considerazione pare
confermare le recenti affermazioni del ministro dell'Interno Giuseppe
Pisanu: non è vero che la galassia insurrezionalista sia contrassegnata
dallo spontaneismo; è vero invece che esiste una direzione univoca delle
azioni eversive.
Ma la più tradizionale tecnica di indagine, l'intercettazione telefonica,
non ha fino a oggi dato alcun risultato. Commenta il procuratore aggiunto di
Genova Giancarlo Pellegrino: «Gli insurrezionalisti non parlano mai al
telefono: non solo delle azioni a loro più vicine, ma nemmeno di argomenti
caldi con cui non hanno alcun contatto».
Conclusione: la sorveglianza dei cellulari aveva soprattutto l'intento di
controllare, monitorare gli spostamenti sul territorio dei principali
sospettati. I quali, tutt'altro che sprovveduti, hanno rapidamente preso le
contromisure. Certamente, non portano gli apparecchi con sé e se capita li
spengono, togliendo anche la batteria e rendendoli non più identificabili.
In taluni casi, è stato accertato, hanno lasciato i telefoni in luoghi
diversi da quelli in cui si trovavano effettivamente. Sempre loro. Un
piccolo drappello armato. Nomi ormai già conosciuti agli investigatori, sui
quali, però, non è ancora completo quel quadro di prove che potrebbe
portarli davanti ai giudici.
Marco Menduni
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