[Cm-roma] Bicycle, the history

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Autor: Oltre
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Temat: [Cm-roma] Bicycle, the history
Tutto cominciò nel 1696, con un progetto che rimase sulla carta.
Ma la prima vera bicicletta fu progettata nel 1867.
Da allora quel "cavallo meccanico" semplice e geniale ha segnato l'infanzia
di intere generazioni.
E ora un libro ne ripercorre l'incredibile viaggio.
Le due ruote che fecero la storia.
Si calcola che nel mondo ne circolino più di un miliardo.
Lo storico: "Le bici continueranno a esistere finché uomini e donne avranno
le gambe".

Articolo di Enrico Franceschini.

Nessuno di noi può ricordare l'attimo in cui è nato, e nella memoria di un
adulto rimane ben poco dell'intera infanzia: delle prime parole, dei primi
passi, dei primissimi giochi. Eppure quasi tutti conserviamo qualche precisa
reminiscenza della prima pedalata, la sensazione del giorno in cui,
inforcata una bicicletta, abbiamo finalmente spiccato il volo: la mano del
genitore che sorregge il sellino da dietro aiutandoci a mantenere un
precario equilibrio su due ruote, e poi d'un tratto si stacca, e
all'improvviso ci accorgiamo di correre senza più alcun sostegno, soli,
sulle nostre gambe. Tramandata di padre in figlio, quella magica esperienza
costituisce spesso il primo ricordo autentico, quasi il momento in cui
abbiamo acquisito la consapevolezza di vivere.

Di generazione in generazione, molto è cambiato nel mezzo di trasporto
protagonista di questa indicibile emozione: la forma, il materiale,
l'equipaggiamento che lo completa e lo arricchisce. In fondo è cambiato
perfino il nome: i quarantenni o cinquantenni odierni non dimenticheranno
mai la "bici" della loro giovinezza, mentre i ragazzi d'oggi parlano
soltanto di mountain bike. Ciononostante, molto resta anche immutato, nella
bicicletta. Milioni di persone in cinque continenti continuano a usarla come
efficace ed economico sistema di locomozione. Legioni di ciclisti dilettanti
continuano a montarci sopra nel weekend, per fare esercizio o andare a
spasso. Ogni anno, il Tour de France e altre classiche competizioni
continuano ad attirare spettatori e a suscitare grandi passioni. In un mondo
che si evolve e si trasforma a velocità prodigiosa, il boom della bicicletta
sembra un'inesauribile costante. Non ci sarebbe dunque da meravigliarsi se i
nostri antenati la considerarono una delle maggiori conquiste del progresso,
alla stregua della nave a vapore, del treno, del telegrafo e del telefono.

Potrebbe stupire, piuttosto, che di un tale meraviglioso marchingegno
nessuno avesse ancora raccontato la storia come si deve. A colmare la lacuna
provvede ora un libro illustrato di cinquecento pagine, altrettanto
meraviglioso, uscito negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: "Bicycle, the
history", a cui l'autore, David Herlihy, storico di Harvard, ha dedicato ben
quindici anni di studi e di ricerche. L'invenzione di un veicolo in grado di
sostituire il cavallo, bisogna dire, prese molto più tempo. Nel 1696, un
francese visionario, Jacques Ozanam, progettò un mezzo "auto-movente"
azionato dall'uomo: ma la sua idea non andò troppo lontano dalla carta su
cui era tratteggiata. Da allora dovette trascorrere oltre un secolo affinché
un eccentrico tedesco, il barone Karl von Drais, producesse nel 1816 il
prototipo del primo velocipede (dal latino "velox pedis", dal piede veloce):
una sorta di "cavallo meccanico", con due ruote ma senza pedali e,
particolare da tenere presente, pure senza freni. In pratica funzionava
secondo il concetto del monopattino: uno ci saliva sopra e dava una spinta
con i piedi. Comportava rischi non indifferenti: se per caso prendevi
velocità su una discesa, potevi romperti il naso; altrimenti consumavi la
suola delle scarpe e non facevi molta strada. Bastò tuttavia a suscitare
entusiasmi in mezza Europa. «Il più grande trionfo della tecnica», scrisse
liricamente un giornalista inglese nel 1819. «Sarà la creazione di una
macchina o di un carro per viaggiare, senza cavalli o altri animali che lo
tirino». I tempi, evidentemente, erano maturi, ma ci volle un altro mezzo
secolo perché a qualcuno venisse in mente di metterci i pedali.

La svolta venne nel 1867, quando un fabbro francese di nome Michaux aggiunse
non solo i pedali, ma anche i freni. Il suo primo modello, costruito in
acciaio massiccio, pesava però più di trenta chili e aveva le ruote di
legno: pilotarlo in equilibrio non era un'impresa facile. In più costava un
patrimonio: all'inizio poteva permetterselo soltanto l'aristocrazia. Ciò
malgrado, era nata la bicyclette, la definizione francese destinata a
diventare universale (da "bicycle", che a sua volta deriva dal latino "bi" e
dal greco "kyklos": a due ruote). La curiosità fu immediata: il primo,
primitivo esemplare lanciò una frenesia di sperimentazioni sulle due sponde
dell'Atlantico, catturando rapidamente l'attenzione del mondo. «Mai prima
d'ora nella storia manifatturiera americana è sorta una simile domanda di
massa», declamò il New York Times nel 1869. Esagerata retorica, ma
l'eccitazione era comprensibile. Per la prima volta nella storia
dell'umanità, la gente poteva effettivamente immaginare un'esistenza in cui
il cavallo - amata ma esigente e talvolta bizzosa creatura - non
rappresentava più il principale mezzo di trasporto quotidiano. All'orizzonte
si approssimava una nuova era di viaggi su strada, che avrebbe consentito a
chiunque di ricoprire grandi distanze in un tempo relativamente breve,
partendo in qualsiasi momento. Quelle due ruote a pedali, insomma,
promettevano una rivoluzione.

Certo, l'euforia degli inizi si rivelò prematura. Sebbene le vendite
aumentassero a ritmo prodigioso, e sorgessero quasi subito i primi circuiti
per corse agonistiche, si dovette attendere un'altra generazione prima che
la bicicletta assumesse una forma più pratica e invitante. Con il 1870
arrivarono le bici dall'enorme ruotona anteriore, che col senno di poi ci
appaiono buffi apparecchi da equilibristi del circo ma che per un breve
periodo sembrarono ispirate dal miglior buon senso. In ogni caso è a quel
punto che furono introdotte due importanti innovazioni: la catena di
trasmissione e il tubolare pneumatico. Il passaggio al tipo di bicicletta
che conosciamo oggi avvenne verso la fine del decennio successivo, quando
dagli stabilimenti della ditta Rover di Coventry, in Inghilterra, uscì un
modello con sellino basso, ruote delle medesime dimensioni, catena, freni,
pedali, e un costo più accessibile. Il successo fu immediato. Nel 1890,
mezzo milione di biciclette circolavano già sulle strade del Regno Unito.
Poi, nel 1891, arrivò l'ennesimo, fondamentale passo avanti, compiuto di
nuovo al di là della Manica: a Clermont-Ferrand, in Francia, Edouard
Michelin di fatto reinventò la ruota, realizzandone una distaccabile
dall'intelaiatura, a cui era affissa con viti e bulloni. Fino a quel
momento, le ruote venivano incollate al telaio: oltre a essere più pratico,
il nuovo sistema permetteva al ciclista, in caso di foratura, di cambiare la
ruota e riprendere il viaggio. A patto, naturalmente, di averne con sé una
di scorta.

Il resto è noto. La storia della bicicletta è anche la storia della sua
accettazione sociale come mezzo di locomozione, e dell'impatto che ebbe
sullo sviluppo di una rete stradale, sul costume, perfino sull'eguaglianza
trai sessi. «Che le donne abbiano le gambe, e che anch'esse possano usarle,
segna l'avvento di una nuova epoca», annotò un cronista (uomo) alla fine del
diciannovesimo secolo. La bici conteneva inoltre il seme di altre future,
strabilianti invenzioni: non a caso Henry Ford e i fratelli Wright
iniziarono le loro carriere come meccanici di biciclette. E soprattutto,
osserva l'Economist, essa simboleggiava un nuovo gusto di muoversi e un
desiderio d'indipendenza. Il ventesimo secolo ha portato nuovi materiali,
prezzi più bassi, produzione di massa. Oggi, all'alba del ventunesimo, si
calcola che sulle strade del pianeta ne circolino più di un miliardo. La
previsione è che non smetterà di evolversi, cambiare, modernizzarsi: ma è
altamente probabile che resti l'unico mezzo capace di portarci così lontano
per così poco. Una cosa è certa, scrive David Herlihy a conclusione del suo
enciclopedico volume: «Finché uomini e donne continueranno ad avere le
gambe, continueranno a esistere le biciclette».

Tratto da "la Repubblica" di Domenica 13 Marzo 2005, pag. 30/31.


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