[NuovoLaboratorio] Porto Alegre: critica al docuemnto dei 14

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Autore: brunoa01@aleph.it
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Oggetto: [NuovoLaboratorio] Porto Alegre: critica al docuemnto dei 14
Consensus?
Pierluigi Sullo
Sono tutti nomi importanti, quelli che si leggono in fondo al "Manifesto di Porto Alegre", presentato sabato 29 in un albergo di Porto Alegre con grande partecipazione di giornalisti di tutto il mondo. Alcuni di quei nomi compaiono su Carta molto spesso: Riccardo Petrella, Roberto Savio e Immanuel Wallerstein, ad esempio. Eppure, lo diremo con gentilezza, quel documento non ci e' piaciuto, per quel che ha voluto rappresentare e per quello che c'é scritto dentro.
Al nostro amico Petrella, che solo poche settimane fa é stato uno dei relatori al "Cantiere" che abbiamo organizzato insieme ad altri, abbiamo già proposto di discuterne a fondo, su Carta. Intanto, chi legge può vedere il testo integrale qui, nel nostro sito, e farsi un'idea.
Prima di tutto, il problema sta nel come il "Manifesto" è nato. L'iniziativa è evidentemente partita da Ignacio Ramonet e Bernand Cassen, che certo poi hanno rivisto il testo con gli altri [a presentarlo, nella conferenza stampa, erano lo stesso Petrella, Adolfo Perez Esquivel e Aminata Traoré, che certo non raccontano e leggono alla stampa di tutto il mondo un testo che non condividono]. In ogni modo, quel testo ha il segno dell'iper-illuminismo tipico del gruppo di Le Monde diplomatique. Pare quasi che basti nominare le soluzioni, perché quelle buone idee si avviino a diventare concrete. Perché in tutto il testo, nonostante l'appello iniziale ai movimenti sociali, non si affronta, se non molto vagamente, il problema fondamentale della nostra epoca: la democrazia.
Si parla di Onu, senza specificare cosa dovrebbe diventare una organizzazione dominata dal Consiglio di sicurezza e composta, in sostanza, da stati-nazione, proprio le vittime [e complici] del neoliberismo, come infatti anche il "Manifesto" dice. Si afferma che le organizzazioni internazionali come Fmi e Banca mondiale e Omc dovrebbe rientrare "nel sistema dell'Onu", e questo riporta al punto di partenza. Si parla di "politiche pubbliche" senza svolgere una espressione che, a guardare appunto gli stati-nazione, é quasi senza significato. Si accenna, dicevamo, alla "democrazia locale", per poi, nel punto specifico, invocare la craezione di "osservatori" sui media e protezioni [da parte di chi?] dell'autonomia dei giornalisti.
Insomma, tutto l'impianto é non solo astratto, ma ancora ancorato, e molto, alla legalità nazionale di un'altra epoca, che certo va difesa a tutti i costi, ma non rappresenta il futuro. L'impronta è quella francese, appunto: l'idea che basterebbe proiettare a scala universale l'"esprit republicain" dell'eterno giacobinismo francese, ed ecco che le "lumieres" si accenderebbero sull'umanità. Attitudine che puo' diventare buccia di banana, dove ad esempio si chiede la tassazione delle trasazioni finanziarie, delle attività a forte emissione di gas serra, e "sorpresa" del commercio di armi. Ma le armi, ossia gli strumenti indispensabili alla guerra, non sono solo una attività nociva tra le altre, sono - come chiunque ha visto il 15 febbraio 2003 - una attività umana su cui deve cadere un tabù culturale assoluto. Si', assoluto. Tassare la produzione delle armi, significherebbe riconoscere la loro legittimità, per quanto nociva.
Bernand Cassen si é piuttosto irritato, qaundo noi di Carta abbiamo posto questa domanda, nella conferenza stampa. Evidentemente, in Francia - come ben sappiamo - l'assillo della guerra é piuttosto attutito, grazie al diaframma protettivo creato dalle scelte dello stato francese [che non partecipa alla guerra in Iraq per ragioni geopolitiche, per altro, non per scelta pacifista].
Potremmo poi discutere della cancellazione del debito [invece che il debito ecologico], sui diritti degli esseri umani [senza mai prendere in conto la protezione degli esseri non umani, come accade ad esempio in molte culture indigene, per le quali l'"ambiente" non è un contesto strumentale alle attività umane certo da "preservare"], sui balbettii sullo sviluppo, ecc. E lo faremo.
Ma, intanto, vi è da registrare il fatto che il "Manifesto" non solo si è pesantemente sovrapposto al documento consueto dell'Assemblea dei movimenti sociali, che dal 2001 è stata la sola proposizione [presuntamente] sintetica alla fine dei Forum mondiali. Ma che il "Manifesto" ha creato una evidente frattura in un Consiglio internazionale già molto fragile, incerto sul modo della sua composizione [vi si entra per cooptazione, insostanza] e diviso sulle prospettive.
Chico Withaker, uno dei fondatori brasiliani del Forum [e tutto fin qui si era retto sull'asse tra francesi e brasiliani], ha commentato che il "Manifesto" è solo "un documento tra centinaia di altri". Peccato davvero, perché gli organizzatori brasiliani quest'anno hanno dato prova di grande coraggio e inventiva, rovesciando come un calzino lo schema dei Forum precedenti, cancellando le "plenarie" professorali a favore dei seminari autogestiti, diffondendo il Forum sul "Territorio social mundial", aprendo le porte a una straordinaria partecipazione giovanile e insomma mostrando di aver compreso la lezione di Mumbai, l'anno scorso in India.
Certo, indicare come sede dei tre Forum che dovrebbero riempire l'anno che prepara il Fsm in Africa Caracas, in Venezuela, Marrakesh, in Marocco, e Madras, in India, non é un gran che: le pressioni politiche sono evidenti. E Bernand Cassen e Ignacio Ramonet, autentici fans di Hugo Chavez, ancora una volta hanno evidentemente pesato.
Ma che senso ha, forzare la situazione, dopo un Forum tanto efficace, e dove centinaia di campagne e programmi sono stati varati [esiste finalmente anche un "Manifesto indigena", e poi l'acqua e il debito e infiniti eccetera], proponendosi come i soli in grado di riassumere "senso e proposte" del "portoalegrismo", come l'ha definito Ramonet? Quel che si ottiene, in questo modo, è un titolo sui giornali [per altro molto scettici, a partire da "Terra viva", il quotidiano del Forum prodotto da Ips, l'agenzia di cui Savio é presidente emerito].
E' divisione, non "consensus". Perché il movimento altermondialista, bisognerebbe ormai saperlo bene, é una rete di reti di reti di reti, che si associano liberamente. Non hanno bisogno di padri, ma di amici intelligenti come Riccardo Petrella, Ignacio Ramonet, Bernand Cassen, Immanule Wallerstein e tutti gli altri.


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