[RSF] La domenica della nonviolenza. 3

Borrar esta mensaxe

Responder a esta mensaxe
Autor: Centro di ricerca per la pace
Data:  
Asunto: [RSF] La domenica della nonviolenza. 3
==============================
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@???
Numero 3 del 9 gennaio 2005

In questo numero:
1. Susan Sontag ricorda Rachel Corrie
2. Maria G. Di Rienzo: Genere e conflitti
3. Libreria delle donne di Milano: Alcune site amiche

1. MAESTRE. SUSAN SONTAG RICORDA RACHEL CORRIE
[Ringraziamo Nanni Salio, del Centro studi "Sereno Regis" (per contatti:
regis@???), per averci ricordato e inviato questo intervento che Susan
Sontag tenne a Huston, Texas, il 30 marzo 2003, apparso in traduzione
italiana sul quotidiano "La Repubblica" il 25 aprile 2003.
Susan Sontag e' stata una prestigiosa intellettuale americana, nata a New
York nel 1933, deceduta sul finire del 2004; acutissima interprete e critica
dei costumi e dei linguaggi, fortemente impegnata per i diritti civili e la
dignita' umana; tra i molti suoi libri segnaliamo alcuni suoi stupendi
saggi, come quelli raccolti in Contro l'interpretazione e Stili di volonta'
radicale, presso Mondadori; e Malattia come metafora, presso Einaudi; tra i
suoi lavori piu' recenti segnaliamo particolarmente il notevole Davanti al
dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.
Oscar Arnulfo Romero, nato nel 1917, arcivescovo di San Salvador, voce del
popolo salvadoregno vittima dell'oligarchia, della dittatura, degli
squadroni della morte. Muore assassinato mentre celebra la messa il 24 marzo
1980. Opere di Oscar Romero: Diario, La Meridiana, Molfetta 1991; Dio ha la
sua ora, Borla, Roma 1994 Opere su Oscar Romero: AA. VV., Il vescovo Romero,
martire della sua fede, per il suo popolo, Emi-Asal, Bologna 1980; AA. VV.,
Romero... y lo mataron, Ave, Roma 1980; James R. Brockman, Oscar Romero:
fedele alla parola, Cittadella, Assisi 1984; Placido Erdozain, Monsignor
Romero, martire della Chiesa, Emi, Bologna 1981; Abramo Levi, Un vescovo
fatto popolo, Morcelliana, Brescia 1981; Jose' Maria Lopez Vigil, Oscar
Romero. Un mosaico di luci, Emi, Bologna 1997; Ettore Masina, Oscar Romero,
Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1993 (poi riedito,
rivisto e ampliato, col titolo L'arcivescovo deve morire, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1995); Jon Sobrino, Monsenor Romero, Uca, San Salvador 1989.
Rachel Corrie, giovane pacifista nonviolenta americana di 23 anni, nata a
Olympia (Washington), impegnata nell'associazione umanitaria International
Solidarity Movement, il 16 marzo 2003 veniva uccisa da un bulldozer
dell'esercito israeliano a Rafah, nella striscia di Gaza, mentre cercava di
impedire l'abbattimento di una casa interponendo il proprio corpo.
Ishai Menuchin e' uno dei militari israeliani che hanno rifiutato di
partecipare alla repressione del popolo palestinese nei territori occupati]

Permettetemi di evocare non uno, ma due eroi, solo due tra milioni di eroi.
Due vittime, tra decine di milioni di vittime.
Il primo: Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato con
indosso i paramenti sacri, mentre celebrava la messa nella cattedrale il 24
marzo 1980 - 23 anni fa - perche' era diventato "un acceso sostenitore di
una giusta pace e si era apertamente opposto alle forze della violenza e
dell'oppressione" (cito dalla descrizione del Premio Oscar Romero che viene
oggi assegnato a Ishai Menuchin).
La seconda: Rachel Corrie, una studentessa ventitreenne di Olympia, nello
stato di Washington, assassinata con indosso il giubbotto arancione
fosforescente che gli "scudi umani" portano allo scopo di rendersi visibili
e mettersi, possibilmente, al riparo, mentre cercava di fermare una delle
tante demolizioni di abitazioni civili effettuate quasi ogni giorno dalle
forze israeliane a Rafah, una cittadina nel sud della striscia di Gaza (dove
Gaza confina con l' Egitto), il 16 marzo 2003 - due settimane fa.
In piedi, di fronte alla casa di un medico palestinese destinata a essere
demolita, Rachel Corrie, parte di un gruppo di otto giovani inglesi e
americani che facevano da scudi umani a Rafah, ha agitato le braccia e
urlato attraverso un megafono al conducente del bulldozer corazzato D-9 che
si avvicinava, poi si e' lasciata cadere in ginocchio sbarrando la strada
del gigantesco bulldozer... che non ha rallentato.
*
Due figure emblematiche del sacrificio, uccise dalle forze della violenza e
dell'oppressione a cui per principio rispondevano con una opposizione,
dettata dai loro principi, che era nonviolenta ma rischiosa.
Cominciamo dal rischio. Il rischio di essere puniti. Il rischio di essere
isolati. Il rischio di essere feriti o uccisi. Il rischio di essere
scherniti.
In un senso o nell'altro, siamo tutti coscritti. Per tutti noi e' difficile
rompere le fila; esporsi alla disapprovazione, al biasimo, alla violenza di
una maggioranza offesa che ha una idea di lealta' diversa dalla nostra.
Ci rifugiamo dietro parole-vessillo, come giustizia, pace, riconciliazione,
che ci arruolano in comunita' nuove, benche' piu' piccole e relativamente
impotenti, fatte di gente che la pensa come noi. Parole-vessillo che ci
mobilitano a manifestare, a protestare, a compiere pubblici atti di
disubbidienza civile - non a sfilare in parata o a scendere in battaglia.
Non andare al passo con la propria tribu'; fare un passo al di fuori della
propria tribu' per entrare in un mondo mentalmente piu' grande ma
numericamente piu' piccolo: a meno che la marginalita' o la dissidenza non
siano posizioni abituali o gratificanti, si tratta di un processo complesso,
difficile. E' difficile sfidare lo spirito della tribu': lo spirito che
valuta la vita di chi appartiene alla tribu' piu' di quella di chiunque
altro. Sara' sempre impopolare - sara' sempre considerato antipatriottico -
dire che la vita dei membri dell' altra tribu' e' preziosa quanto la nostra.
E' piu' facile mostrarsi leali verso le persone che conosciamo, che vediamo,
a cui siamo aggregati, con cui formiamo - come a volte accade - una
comunita' fondata sulla paura.
Non sottovalutiamo la forza di cio' a cui ci opponiamo. Non sottovalutiamo
le ritorsioni che possono abbattersi su chi dissente dalle brutalita' e
dalle pressioni avallate dalle paure della maggioranza. Siamo carne.
Possiamo essere trafitti da una baionetta, dilaniati da un kamikaze.
Possiamo essere schiacciati da un bulldozer, freddati in una cattedrale. La
paura unisce. E la paura divide. Il coraggio ispira le comunita': il
coraggio di un esempio - perche' il coraggio e' contagioso come la paura.
Ma il coraggio, un certo tipo di coraggio, puo' anche isolare chi ne da'
prova. E' questo l'eterno destino dei principi morali: benche' tutti
professino di averli, e' facile che vengano sacrificati quando diventano
scomodi. In genere un principio morale ci pone in contrasto con una condotta
normalmente accettata. E tale contrasto comporta delle conseguenze, a volte
spiacevoli, nel caso in cui una comunita' si vendica su chi ne ha sfidato le
contraddizioni - su chi auspica che la societa' si attenga davvero ai
principi che sostiene di difendere.
L'idea che una societa' debba realmente incarnare i principi che professa e'
un'idea utopica, nel senso che i principi morali contraddicono il modo in
cui le cose vanno - e sempre andranno. Il modo in cui vanno le cose - e
sempre andranno - non e' del tutto negativo, ne' del tutto positivo, bensi'
inadeguato, contraddittorio, mediocre. I principi ci invitano ad affrontare
il groviglio di contraddizioni dei nostri meccanismi morali. I principi ci
invitano a correggerci; a non tollerare il rilassamento morale, il
compromesso, la vigliaccheria, la tendenza a distogliere lo sguardo da cio'
che ci turba, quando un intimo rovello ci dice che cio' che stiamo facendo
non e' giusto, e che non pensandoci staremmo molto meglio. "Sto facendo del
mio meglio", esclama chi non sa cosa vuol dire avere dei principi. Il meglio
date le circostanze, naturalmente.
Mettiamo che il principio sia: e' sbagliato opprimere e umiliare un popolo
intero. Deprivarlo sistematicamente di alloggi e cibo; distruggerne le
abitazioni, i mezzi di sopravvivenza, negargli il diritto allo studio e alle
cure mediche, e la possibilita' di riunirsi.
*
Al centro della nostra vita morale e della nostra immaginazione morale ci
sono i grandi modelli di resistenza: le grandi storie di chi ha detto no.
No, non ubbidiro'.
Quali modelli, quali storie? Un mormone puo' opporsi al divieto della
poligamia. Un militante antiabortista puo' opporsi alla legge che ha
legalizzato l'aborto. Anche loro faranno appello ai dettami della religione
(o della fede) e della moralita' contro gli editti della societe' civile.
L' appello all'esistenza di una legge superiore che ci autorizza a sfidare
le leggi dello stato puo' essere utilizzato per giustificare trasgressioni
criminali oltre che le piu' nobili lotte in nome della giustizia.
Il coraggio non ha valore morale di per se', perche' il coraggio non e', in
se', una virtu'. Feroci malfattori, assassini e terroristi possono essere
coraggiosi. Per qualificare il coraggio come una virtu' abbiamo bisogno di
un aggettivo: parliamo di "coraggio morale" - perche' esiste anche un
coraggio amorale.
Neppure l'opposizione ha valore in se' e per se'. E' il contenuto
dell'opposizione a determinarne il pregio, la necessita' morale. Ad esempio:
l'opposizione a una guerra criminale. Ad esempio: l'opposizione
all'occupazione e all'annessione della terra appartenente a un altro popolo.
E la giustizia della causa non dipende, e non e' accresciuta, dalla virtu'
di chi la sostiene. Dipende dalla veridicita' della descrizione di uno stato
di cose che e', davvero, ingiusto e innecessario.
*
Ecco una descrizione a mio parere veritiera di uno stato di cose che solo
dopo molti anni di incertezza, ignoranza e angoscia riesco ad ammettere.
Un paese ferito e impaurito, Israele, sta attraversando la piu' grave crisi
della sua turbolenta storia, provocata da una politica volta a incrementare
e a rafforzare gli insediamenti nei territori conquistati in seguito alla
vittoria nella guerra mossa dagli arabi contro gli israeliani.
La decisione dei successivi governi israeliani di mantenere il controllo
sulla Cisgiordania e su Gaza, negando in tal modo ai vicini palestinesi la
possibilita' di avere un proprio stato, e' una catastrofe - morale, umana e
politica - per entrambi i popoli.
I palestinesi hanno bisogno di uno stato sovrano. Israele ha bisogno di uno
stato sovrano palestinese.
Noi che all'estero desideriamo che Israele continui a vivere non possiamo,
non dovremmo, desiderare che sopravviva a qualunque costo, o in qualunque
modo. Abbiamo un particolare debito di gratitudine nei confronti dei
coraggiosi testimoni ebrei, giornalisti, architetti, poeti, romanzieri,
professori - tra gli altri - che hanno descritto, documentato, protestato e
militato contro le sofferenze dei palestinesi che subiscono le condizioni
sempre piu' crudeli dell'occupazione militare israeliana e dell'annessione
da parte dei coloni.
La nostra piu' grande ammirazione va ai coraggiosi soldati israeliani, qui
rappresentati da Ishai Menuchin, che rifiutano di servire al di la' dei
confini del 1967.
Questi soldati sanno che tutti gli insediamenti saranno alla fine evacuati.
Questi soldati, che sono ebrei, prendono sul serio il principio avanzato nel
1945-'46 durante il processo di Norimberga, secondo il quale un soldato non
e' obbligato a obbedire a ordini ingiusti, a ordini che contravvengono alle
leggi di guerra - anzi, ha l'obbligo di disobbedire.
I soldati israeliani che rifiutano di servire nei Territori Occupati non si
oppongono a un ordine specifico. Rifiutano di entrare in un luogo in cui
degli ordini illegittimi saranno sicuramente dati - vale a dire, in cui e'
piu' che probabile che riceveranno l'ordine di compiere azioni che
continueranno a opprimere e a umiliare dei civili palestinesi. Le case
demolite, i frutteti sradicati, i banchi di un mercato schiacciati da un
bulldozer, un centro culturale saccheggiato; e ormai, quasi ogni giorno, i
civili di ogni eta' colpiti e uccisi: e' incontestabile la crescente
crudelta' dell'occupazione israeliana del 22 per cento del territorio
dell'ex Palestina britannica su cui sara' istituito uno stato palestinese.
Questi soldati sono convinti, come lo sono io, che dovrebbe esserci un
ritiro incondizionato dai Territori Occupati. Hanno dichiarato
collettivamente che non continueranno a combattere al di la' dei confini del
1967 "al fine di dominare, espellere, affamare e umiliare un intero popolo".
Cio' che questi soldati hanno fatto - sono ora circa mille e cento, piu' di
duecentocinquanta dei quali sono finiti in prigione - non contribuisce a
indicarci il modo in cui gli israeliani e i palestinesi possano raggiungere
un accordo di pace. Le azioni di questa eroica minoranza non possono
contribuire alla piu' che necessaria riforma e alla democratizzazione
dell'Autorita' palestinese. La loro presa di posizione non allentera' la
morsa del fanatismo religioso e del razzismo nella societa' israeliana e non
ridurra' la diffusione della virulenta propaganda antisemita nell'offeso
mondo arabo. Non fermera' i kamikaze.
Offre un modello di resistenza. Di disobbedienza. Per il quale bisognera'
sempre pagare un fio. Nessuno di noi ha ancora dovuto sopportare qualcosa di
simile a cio' che questi coraggiosi soldati stanno sopportando.
*
Parlare di pace in questo momento negli Stati Uniti significa semplicemente
essere dileggiati (come nella recente cerimonia di consegna degli Oscar),
maltrattati, boicottati (la messa al bando delle Dixie Chicks da parte della
piu' potente rete di stazioni radiofoniche); in breve, essere bollati come
antipatriottici. "Uniti resistiamo", "Chi vince piglia tutto"... gli Stati
Uniti sono un paese che ha trasformato il patriottismo in un equivalente del
consenso. Tocqueville, che resta il piu' grande osservatore degli Stati
Uniti, noto' un livello di conformismo senza precedenti in questo paese
allora giovane, e i centosessantotto anni intercorsi non hanno fatto che
confermare tale osservazione.
Considerata la nuova e radicale svolta della politica estera americana, oggi
appare quasi inevitabile che il consenso nazionale sulla grandezza
dell'America e lo straordinario livello di trionfalismo e amor proprio
nazionale raggiunto dal paese fossero destinati a trovare espressione in
guerre come quella in corso, approvate dalla maggioranza della popolazione,
persuasa che l'America ha il diritto - o addirittura il dovere - di dominare
il mondo.
Il consueto modo di lodare coloro che agiscono in nome di un principio sta
nel dire che rappresentano l' avanguardia di una rivolta destinata a
trionfare contro l'ingiustizia. Ma se cosi' non fosse? Se il male fosse
davvero inarrestabile? Perlomeno, in tempi brevi. E i tempi brevi possono
essere, saranno, lunghissimi.
La mia ammirazione per i soldati che si rifiutano di servire nei territori
occupati e' altrettanto forte della mia convinzione che occorrera' molto
tempo prima che il loro punto di vista abbia la meglio.
*
Ma c'e' un interrogativo che in questo momento - per ovvie ragioni - non mi
da' tregua: che significa agire in nome di un principio quando cio' non
alterera' l'evidente distribuzione delle forze, la palese ingiustizia e la
ferocia della politica di un governo che sostiene di agire non in nome della
pace ma della... sicurezza?
La forza delle armi ha una logica tutta sua. Se commettiamo un'aggressione e
gli altri resistono, e' facile convincere il fronte interno che la lotta
deve continuare. Una volta che le truppe sono laggiu', devono essere
sostenute. Diventa irrilevante domandarsi per quale motivo le truppe sono
laggiu'. I soldati sono la' perche' "noi" siamo stati attaccati, o
minacciati. Poco importa che possiamo aver attaccato per primi. Adesso
"loro" rispondono al nostro attacco, causando delle vittime. Comportandosi
in modi che contravvengono alla "corretta" condotta di guerra. Comportandosi
come "selvaggi", vale a dire, come la gente nella nostra parte del mondo ama
definire la gente in quella parte del mondo. E le loro azioni "selvagge" o
"illegali" forniscono una nuova giustificazione per nuove aggressioni. E
nuovo slancio alla repressione, alla censura o alla persecuzione dei
cittadini che si oppongono all'aggressione commessa dal loro governo.
Non sottovalutiamo la forza di cio' a cui ci opponiamo. Il mondo e', per
quasi tutti noi, un luogo su cui non esercitiamo praticamente alcun
controllo. Il senso comune e il senso di auto-protezione ci suggeriscono di
adattarci a cio' che non possiamo modificare.
*
Non e' poi cosi' difficile capire come alcuni di noi possano lasciarsi
convincere della giustezza, della necessita' di una guerra. Soprattutto di
una guerra che viene descritta come una serie di piccole e limitate azioni
militari che contribuiranno alla pace o a una maggiore sicurezza; o di
un'aggressione che si annuncia come una campagna per il disarmo - quello del
nemico; e che, purtroppo, richiede l'uso di una forza schiacciante.
Un'invasione che si definisce, ufficialmente, una liberazione. Le violenze
commesse in guerra vengono sempre giustificate come ritorsioni. Siamo
minacciati. Ci stiamo difendendo. Gli altri vogliono ucciderci. Dobbiamo
fermarli. Anzi, dobbiamo fermarli prima che abbiano la possibilita' di
attuare i loro piani. E dal momento che chi e' pronto ad attaccarci si
rifugia dietro ai non combattenti, nessun aspetto della vita civile puo'
essere immune dalle nostre devastazioni. Poco importa la disparita' di
forza, di ricchezza, di potenza di fuoco - o semplicemente di popolazione.
Quanti americani sanno che l'Iraq ha 25 milioni di abitanti, la meta' dei
quali sono bambini? (Gli abitanti degli Stati Uniti sono, come ricorderete,
290 milioni). Non sostenere chi si espone al fuoco nemico sembra un
tradimento. Puo' accadere, in certi casi, che la minaccia sia reale.
*
In tali circostanze, chi si fa portavoce di un principio morale fa pensare a
chi corre dietro a un treno in corsa gridando "Ferma! Ferma!". Si puo'
fermare quel treno? No, non si puo'. O perlomeno, non ora. E i passeggeri
che sono su quel treno saranno indotti a saltar giu' e a unirsi a chi e'
rimasto a terra? Forse qualcuno lo fara', ma non la maggioranza.
(Quantomeno, finche' non disporranno di un nuovo corredo di paure).
Si dice che quando si agisce in nome di un principio non bisogna pensare se
farlo e' vantaggioso, se le azioni che abbiamo intrapreso otterranno un
risultato.
Agire in nome di un principio, ci viene detto, e' un bene in se' e per se'.
Ma resta comunque un atto politico, nel senso che non lo si compie per se
stessi. Non lo si fa per essere nel giusto, o per pacificare la propria
coscienza; e men che meno perche' si e' convinti che la propria azione
raggiungera' il suo scopo.
Si resiste per solidarieta'. Alle comunita' di gente di principio e di
disobbedienti: qui, altrove. Nel presente. Nel futuro.
L'incarcerazione di Thoreau nel 1846, in seguito al rifiuto di pagare le
tasse per protesta contro la guerra mossa dagli Stati Uniti al Messico, non
fermo' certo quella guerra. Ma la risonanza di quel brevissimo periodo di
imprigionamento (come e' ben noto, una sola notte in carcere) ha continuato
a fornire un modello di resistenza all'ingiustizia per tutta la seconda
meta' del XX secolo e fino ai nostri giorni.
Il movimento creatosi alla fine degli anni '80 per ottenere la chiusura del
Nevada Test Site, un luogo chiave per la corsa agli armamenti nucleari, ha
fallito il suo scopo; le attivita' del centro atomico non sono state
ostacolate dalle proteste. Ma il movimento di attivisti antinucleari del
Nevada ha direttamente ispirato la formazione di un movimento di protesta
nella lontana Alma Ata che e' riuscito a far chiudere il principale test
site sovietico, situato nel Kazakistan.
La probabilita' che i nostri atti di resistenza non fermino l'ingiustizia
non ci esime dall'agire in nome di quelli che sinceramente riteniamo i piu'
alti interessi della nostra comunita'.
*
Cosi': non e' nell'interesse di Israele essere un oppressore. Cosi': non e'
nell'interesse degli Stati Uniti essere una superpotenza, capace di imporre
(a sua discrezione) la propria volonta' a qualunque paese del mondo. Cio'
che e' nell'interesse di una comunita' moderna e' la giustizia. Non puo'
essere giusto opprimere e segregare sistematicamente un popolo confinante.
E' certamente falso pensare che gli assassinii, le espulsioni, le
annessioni, la costruzione di muri - tutte le cose che hanno contribuito a
ridurre un intero popolo in condizioni di dipendenza, penuria e
disperazione - porteranno pace e sicurezza agli oppressori. Non puo' essere
giusto che un presidente degli Stati Uniti, convinto che il suo mandato sia
quello di presidente del pianeta, annunci che coloro che non stanno con
l'America stanno "con i terroristi".
I coraggiosi ebrei israeliani che, attraverso un'attiva e appassionata
opposizione alle politiche dell'attuale governo del loro paese, si sono
espressi in nome dei diritti dei palestinesi, stanno difendendo i veri
interessi di Israele. Quanti tra noi si oppongono ai programmi di egemonia
globale dell'attuale governo degli Stati Uniti sono patrioti che parlano in
nome dei piu' alti interessi degli Stati Uniti.
Ma, al di la' di tali lotte, che meritano la nostra appassionata adesione,
e' importante ricordare che nei programmi di resistenza politica i rapporti
di causa ed effetto sono complessi, e spesso indiretti. Ogni lotta, ogni
resistenza e' - e deve essere - concreta.
E ogni lotta ha una risonanza globale. Se non qui, la'. Se non ora, presto:
altrove, oltre che qui.
Per l'arcivescovo Oscar Arnulfo Romero. Per Rachel Corrie. E per Ishai
Menuchin e i suoi compagni.

2. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: GENERE E CONFLITTI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@???) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice
dell'importante libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di),
Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003]

Una sola occhiata al panorama dei testi riguardanti lo studio e la
risoluzione dei conflitti e' sufficiente ad accorgersi che la disciplina, a
livello teorico, e' rimasta abbastanza silente rispetto al "genere".
Il genere potrebbe essere definito come la costruzione sociale delle
relazioni sociali fra donne ed uomini: da questo punto di vista esso va
considerato rispetto all'identita' di genere dell'individuo (le norme
sociali e l'identita' socialmente costruita), al simbolismo di genere (il
dualismo stereotipato), ed alla struttura sociale (l'organizzazione e
l'istituzionalizzazione di azioni nella sfera pubblica e privata). La
presenza di un'analisi di genere in un qualsiasi testo significa
sostanzialmente due cose: la decostruzione dei pregiudizi basati appunto sul
genere, e la ricostruzione di una teoria e di una pratica che vedano le
donne altrimenti "invisibili", ed incorporino le loro attivita', esperienze
e consapevolezze.
Il campo della risoluzione dei conflitti, un'area di studi multidisciplinare
in cui si incrociano diritto internazionale, psicologia, filosofia,
antropologia sociale, economia, ecc., ha una moltitudine di differenti
approcci teorici e di cornici concettuali: di seguito mi riferiro' ad esso
in modo generale, rispetto ad alcuni approcci pro-attivi (accordo,
risoluzione, trasformazione)
*
Il problema: l'androcentrismo e la cecita' al genere
Tanto per cominciare, qualcuno potrebbe chiedermi: "Perché ti stupisci? La
cecita' al genere nello studio dei conflitti che, come hai appena detto, ha
una natura multidisciplinare, riflette semplicemente la cecita' al genere di
tutte le discipline che hai menzionato".
E tuttavia, negli ultimi vent'anni, la maggior parte di esse ha grandemente
beneficiato dell'apporto di studiose femministe. Numerosi studi
internazionali, riferiti a progetti in paesi in via di sviluppo, negli anni
'80 e '90 hanno battuto ripetutamente il tasto sulla necessita' di includere
il genere quale categoria di analisi, soprattutto perche' vi e' la
dimostrazione che farlo migliora l'efficienza e l'efficacia dei progetti
stessi.
Capiamoci: la preoccupazione non verte sul risarcire le donne da
un'esclusione storica, ma si e' compreso che la stessa e' la causa portante
di tutti gli ostacoli che incontra, in tali paesi, un processo di sviluppo
economico autosufficiente e bilanciato, giacche' il pregiudizio di genere si
manifesta nei settori formali come in quelli informali, nelle case e nei
campi, nelle scuole e nei municipi. La decisione di includere il genere,
quindi, e' politicamente necessaria al conseguimento del risultato.
Nelle teorie per la risoluzione dei conflitti molta attenzione viene posta
sull'analisi delle variabili sociali, quali le sorgenti e la natura dei
conflitti, o le caratteristiche della "terza parte", e si puo' dire che
generalmente il focus spazia fra macro e micro livelli: attitudine che
dovrebbe essere di per se' permeabile al genere. Ma le scarse tracce di
quest'ultimo si trovano solo nella menzione del sesso del
mediatore/mediatrice, e della sua relazione con la conduzione dei processi
risolutivi. Le tre dimensioni del genere che ho menzionato all'inizio
(identita', simbolismo, struttura) non sembrano essere una categoria
analitica per i teorici del conflitto.
*
Differenti approcci, un'assenza comune
I. Prendiamo ad esempio il settore di studi sul conflitto centrato sul
concetto di "pace negativa" (pace senza giustizia sociale), che usualmente
descrive i conflitti internazionali come il risultato di "interessi
incompatibili" o "competizione per il controllo di risorse preziose".
L'analisi e' orientata verso l'esito del conflitto: vi e' un momento in cui
matura mutualmente fra i confliggenti la convinzione di essere in una
situazione di stallo che danneggia entrambi, e percio' essi si accordano sul
cessare le violenze (cessare il fuoco). L'intervento della terza parte
(organismi internazionali, ecc.) varia dall'arbitrato alla negoziazione, e
offre una "mediazione di potere" che si potrebbe anche chiamare "carota e
bastone": la promessa di ricompense e la minaccia di punizioni.
Lo schema rappresenta e riflette l'egemonia maschile: e' l'esperienza del
potere narrata dal punto di vista maschile, assunto pero' come generico.
Ancora, non dovrei essere stupita, giacche' la larga maggioranza degli
studiosi del conflitto sono appunto uomini, che trattano anche le istanze
umanitarie dal loro punto di vista (risarcimento agli ex combattenti maschi,
risorse fornite agli uomini quali "capi famiglia", ecc.). Le donne, i loro
interessi sociali, le loro idee ed esperienze vengono considerate
irrilevanti, in quanto il punto di vista maschile assunto per generico
dovrebbe "comprenderle": l'effetto pratico e' che tutto quanto le riguarda
viene nascosto o resta invisibile.
II. Un secondo tipo di approccio e' quello orientato sul processo del
conflitto. Esso sostiene che i conflitti nelle relazioni internazionali
sorgono primariamente a causa della non soddisfazione di bisogni umani.
Secondo queste linee guida, le origini del conflitto possono essere trovate
nei bisogni (sicurezza, identita', partecipazione, riconoscimento,
giustizia, ecc.) delle parti confliggenti.
Lo scopo di questo approccio e' l'eliminazione delle manifestazioni
distruttive del conflitto, basate sulle reciproche paure, e la "traduzione"
di cio' che le parti definiscono come interessi o posizioni nel
riconoscimento dei bisogni umani succitati. Si tratta, in sostanza, di
inserire il conflitto in una cornice di comunicazione diretta che lo
trasformi in un problema condiviso a cui trovare una soluzione mediata (la
soddisfazione di ambo le parti). Il tipo di approccio, ad un primo sguardo,
dovrebbe essere assai piu' permeabile al genere di quello precedente e
tuttavia esso si limita a neutralizzarlo, riconoscendo i bisogni delle donne
come appartenenti ad una sfera "privata", e percio' non politica. Il
conflitto violento ed i modi per maneggiarlo vengono visti infatti come
"neutrali" rispetto al genere, ovvero non si osserva quali effetti essi
hanno sulla posizione e sui ruoli di donne ed uomini nella societa'.
Certo, le donne possono essere menzionate come categoria assieme ad altre
classificazioni (gruppi etnici, gruppi religiosi) e ammesse al processo, ma
nozioni quali la distribuzione del lavoro per genere nelle situazioni di
conflitto, o la configurazione simbolica del genere (le identita'
"mascoline" o "femminili" nelle situazioni di conflitto), vengono escluse, e
a causa di tale esclusione vengono inconsapevolmente rinforzate.
III. Vi e' un terzo approccio alla trasformazione del conflitto che voglio
considerare, ovvero quello che vede la costruzione di pace come un processo
dinamico multidimensionale a lungo termine. Qui lo scopo e' non solo
includere nel processo una molteplicita' di soggetti (dalle organizzazioni
di volontariato alle istituzioni, tanto per fare un esempio), ma anche
creare un'infrastruttura che dia il potere di maneggiare la questione
tramite l'esercizio di democrazia diretta.
Questo punto di vista ritiene inefficace limitarsi a trasferire le tecniche
per la risoluzione dei conflitti attraverso le culture, accoppiandovi scarsa
o nessuna comprensione delle conoscenze e risorse culturali presenti sulla
scena del conflitto. L'assunto di base e' che il potenziale per la
costruzione di pace esiste gia' nei paesi, regioni, comunita' interessati
dal conflitto, ed ha radici in ogni cultura: cio' significa che esistono
modi "tradizionali" di maneggiare il conflitto in ogni societa' data.
L'approccio critica gli altri campi di studio sulla risoluzione dei
conflitti come venati da pregiudizi occidentali. Anche questo tipo di
visione, con la sua centratura sul potere dal basso e la trasformazione,
appare favorevole al genere. Ma anche in questo tipo di visione le donne
restano ai margini, come "interesse empirico", giacche' spesso sono gruppi
di donne, o gruppi composti in maggior parte da donne, a muoversi per la
pace nelle situazioni di conflitto. In altre parole, qui il genere e' "la
questione femminile" e viene subordinato alla questione culturale
(dimenticando o preferendo dimenticare che la maggior parte dei modi
"tradizionali" di comporre i conflitti si basa sulla diseguaglianza di
genere, e sulle nozioni stereotipate di mascolinita' e femminilita').
*
L'assenza delle donne e' naturale, dicono
Qual e' il vero ostacolo, e perche' studiosi altrimenti assai capaci e
preziosi non riescono ad avere chiaro il valore che la dimensione di genere
aggiungerebbe al loro lavoro?
Semplicemente perche' rifiutano ogni analisi sull'egemonia maschile e il
patriarcato, punto e a capo, e alcuni si intestardiscono in una sorta di
"machismo accademico" che dovrebbe dimostrare l'inesistenza delle questioni
correlate al genere, o la loro assoluta irrilevanza rispetto alle questioni
di alto profilo: negoziazioni, diritti umani negati, approcci sensibili alle
culture.
Questo atteggiamento tradisce, a mio avviso, una profonda paura di dare uno
sguardo non alle macrostrutture, ma alle microstrutture che formano
l'identita' maschile socialmente costruita (la propria). Inoltre, anche se
spiace dirlo, vi e' una paura assai piu' manifesta, ovvero quella di perdere
il controllo sulle risorse accademiche, sulle agende politiche, sul proprio
status di esperti.
Sembra che introdurre il genere nella disciplina che riguarda i conflitti
muti la scena stessa in uno scenario di conflitto (con il modulo
vincenti/perdenti), in cui le donne sgomiterebbero per sottrarre agli uomini
spazi gia' esigui. Cosi', il paternalismo di questi studiosi, e anche di non
studiosi, ci dice che se le donne non ci sono e' perche' e' naturale che non
ci siano: hanno altro da fare, sono comprese nel maschile generico, ci sono
cose piu' importanti... E quando le donne ci sono, si dice che esse
riflettono gli interessi di uno specifico gruppo minoritario che non ha
ragione di essere trattato in modo differente dagli altri gruppi specifici
(la maggioranza dell'umanita', e dei poveri del mondo, ringrazia).
Vedere il genere come "questione femminile" e' un grossolano errore: a me
appare ovvio che il genere, definito come la costruzione sociale delle
relazioni sociali fra uomini e donne, dovrebbe interessare molto entrambi.
*
Le dicotomie concettuali
Nelle scienze sociali, e quindi anche nel campo degli studi sul conflitto,
molte analisi sono basate su opposizioni binarie date per scontate:
oggettivita'/soggettivita', fatti/valori, eccetera. Un simile assetto
resiste per propria (escludente) natura alla critica e quindi al genere.
Femministe di vedute e scuole differenti hanno a vari livelli mostrato e
dimostrato come la cultura e l'epistemologia (soprattutto occidentali)
derivino queste opposizioni da una dicotomia gerarchica maschio/femmina:
ovvero da un sistema di valori che equipara l'obiettivita' alla
mascolinita', ed eleva al rango superiore cio' che lo stesso sistema
definisce scientifico e maschile.
La gerarchia di genere non e' accidentale ne' frutto di coincidenze, ma
fondamento costitutivo della cultura in cui viviamo. Una cultura che per
imporre la fede nella gerarchia ha associato, per contro, la "natura" alla
"femmina": essere naturali suggerisce l'essere non-politici e quindi merita
poca, o nulla, attenzione analitica. Questo concetto ha contribuito
grandemente a mantenere in essere le esistenti strutture di dominio, creando
per gli esseri umani la sfera privata ("naturale", delle donne, lavoro
domestico e bambini, dipendenza) e quella pubblica ("politica", degli
uomini, leggi ed economia, dominio).
A volte, durante incontri e seminari, a proposito di un atto atroce commesso
da una donna, qualcuno/a mi chiede: "Ma come puo' una donna, che e' madre, o
madre potenziale, aver fatto questo ad un bambino, a un altro essere umano,
ecc.?". Schematicamente: un processo di deumanizzazione, quali ne siano le
cause qui poco importa, ha ridotto la sua identita' e quella della sua
vittima a due segmenti ristretti, in opposizione binaria.
Il discorso meriterebbe certo approfondimenti, ma perche' nessuno/a mi
chiede mai: "Come puo' un uomo, che e' padre, o padre potenziale, e
certamente figlio, eccetera?". Semplice anche questo: le dicotomie
concettuali della nostra cultura hanno stabilito che la violenza pertiene al
maschile, e percio' il giorno in cui qualcuno/a mi fara' spontaneamente
questa domanda e' ancora lontano.
Riuscite a vedere dove porta questo discorso? Se cio' che e' maschile e'
superiore e normativo, la violenza maschile e' giusta e necessaria, o quanto
meno "normale". Ed e' questo convincimento di fondo che rende molta ricerca
sul conflitto riluttante ad occuparsi della violenza di genere e del suo
incremento nelle situazioni di conflitto, o dei cambiamenti di strutture
familiari e sociali nel medesimo contesto.
*
Un sesso pacifista?
Data la scarsezza di donne e femministe nel campo di studi sul conflitto, il
silenzio sul genere colpisce quindi meno, ma e' un'assenza che ha qualcosa
di strano, se si pensa alla lunga associazione storica del femminismo con la
pace.
Le poche ricercatrici presenti e coinvolte nella questione "genere e
conflitti", inoltre, provengono quasi tutte da un retroscena (accademico o
pratico) di studi sulla cooperazione allo sviluppo. Questo non e'
sorprendente, per due ragioni:
1) il gran numero di ricerche internazionali che citavo all'inizio, le quali
hanno evidenziato la radice di genere dello sviluppo ed indicato chiaramente
i "pregiudizi di fondo" a favore degli uomini;
2) il fatto che molti dei progetti di cooperazione in corso si danno in
situazioni di conflitto violento e devono per forza maneggiare, in un modo o
nell'altro, gli effetti sociali ed economici dell'escalation della crisi o
del lavoro di costruzione di pace dopo l'accordo.
Stante il bisogno effettivo di concentrarsi sull'emergenza delle situazioni
descritte, le teorie sul conflitto non appaiono essere la primaria
preoccupazione analitica di queste studiose: tant'e' che termini come
"analisi del conflitto", "costruzione di pace" e "risoluzione del conflitto"
(aree tutte correlate ma differenti) vengono spesso usati in modo
intercambiabile, se non come sinonimi.
Puo' essere, mi si dira', che alle femministe la cosa interessi poco, visto
che la pratica di decostruzione/ricostruzione del femminismo, in tutte le
materie che si intrecciano in questo campo multidisciplinare (diritto,
psicologia, ecc.), e' un implicito studio del conflitto.
Puo' essere che alcune ne stiano distanti perche' teorie e pratiche della
risoluzione/trasformazione del conflitto viaggiano spesso in tandem con la
nozione essenzialista delle "donne naturalmente pacifiste", e che alcune
altre stiano egualmente distanti perche' vedono nelle caratteristiche
indicate come necessarie alla risoluzione di un conflitto (pazienza,
empatia, cooperazione, compassione) un riconoscimento sufficiente, giacche'
tali caratteristiche sono spesso il fulcro dell'azione delle donne.
C'e' anche da riconoscere, pero', che la letteratura (testi e manuali) sul
conflitto ha dato negli ultimi trent'anni una rappresentazione dello
scenario come forma di egemonia maschile: da un punto di vista femminista,
molti aspetti delle metodologie per la risoluzione del conflitto rinforzano
le strutture e le gerarchie di potere di una societa' patriarcale, in cui le
donne vengono cooptate o marginalizzate.
*
O un sesso "liberato" dal conflitto?
E come la mettiamo con la percezione del conflitto violento quale "momento
positivo di radicale cambiamento sociale"? Durante situazioni di conflitto,
molte donne si fanno carico di responsabilita' tradizionalmente definite
"maschili" e nonostante la brutalita' vissuta su base giornaliera e le
enormi violazioni dei diritti umani che la faccenda comporta, trovano
liberatorio aver potuto rompere con il ruolo ad esse assegnato dall'ordine
sociale. Alcune diventano "capi" delle loro famiglie, acquisiscono nuove
abilita' economiche e politiche, combattono in armi, eccetera.
Perche' esiste questa ambigua, difficile tensione fra la cornice
"vittimizzazione/vulnerabilita'" e la cornice "liberazione/emancipazione"?
Perche' entrambe sono costruite dall'unico punto di vista (universale,
generico, onnicomprensivo...) accettabile e consentito: quello maschile.
Perche' essere attivi e vincenti (maschi) e' senz'altro piu' soddisfacente
dell'essere passive e perdenti (femmine).
Perche' le dicotomie concettuali del dominio non affliggono solo il
linguaggio e la capacita' percettiva dei dominatori, ma anche dei dominati.
Perche' vi e' un effettivo sbilanciamento di potere fra uomini e donne, ed
e' anche di questo che l'analisi di genere parla, ed e' proprio di questo
che non si vuole discutere.
Perche' non riguarda (solo) terre lontane e costumi differenti, riguarda
proprio noi.
*
Tre ragioni per mettere le mani in pasta
L'introduzione del genere negli studi sul conflitto dipendera' ovviamente
molto dall'apertura dei teorici e dei formatori, e ancor di piu' dalla
volonta' delle (poche) femministe presenti nel campo di mostrare la cecita'
al genere di teorie e pratiche e di sostenere la convinzione che un'analisi
di genere e' davvero un importante punto di inizio per comprendere le
complesse dinamiche interne di un conflitto, per maneggiare efficacemente lo
stesso, e per promuovere la giustizia sociale nella costruzione di pace.
Se non compiamo passi in questa direzione, continueremo a ripetere
all'infinito la discussione sulla "questione femminile", senza riuscire ad
andare piu' in la' del paternalismo o delle dichiarazioni d'intenti, e
percio' l'analisi di genere continuera' ad essere percepita come "un'istanza
delle donne" o addirittura come del "lavoro in piu'" (pesante e superfluo).
Io vedo almeno tre buone ragioni per cominciare a muoverci:
1) la maggior parte dell'analisi sui conflitti lavora ancora con una nozione
semplicistica e statica di "identita'": poiche' l'analisi di genere
considera esplicitamente e con grande cura gli individui, incoraggia a
riconoscere come gli individui femmine e maschi cambino identita', ruoli,
bisogni ed interessi durante un conflitto e nelle situazioni precedenti e
successive al conflitto;
2) poiche' per definizione un'analisi di genere funge da intermediazione tra
l'individuo e la struttura, essa interroga i legami essenziali fra il
microlivello (la persona) e il macrolivello (l'organizzazione dell'azione
sociale delle azioni) tenendo presente quello che potremmo definire "il
livello di mezzo", ovvero il simbolismo di genere e le sue nozioni di
mascolinita' e femminilita'; nello stesso tempo, analizza il "privato"
(l'individuo, la sua famiglia) e il "pubblico" (la comunita', lo stato,
l'arena internazionale), mettendoci in grado di valutare l'impatto dei
conflitti violenti sulle persone, di riconoscere i fattori che aumentano o
diminuiscono la possibilita' che gli individui usino la violenza. Un'analisi
di questo tipo vede in che modi e quanto una motivazione individuale puo'
essere contenuta o alimentata dal simbolismo di genere e dalle
configurazioni che esso prende nella struttura sociale;
3) considerare il genere permette di riconoscere le dicotomie concettuali ed
il loro effetto di colonizzazione della psiche umana, e induce a riflettere
su come trasformarle: se continuiamo a non vederle, a non comprenderne gli
effetti, continueremo a rafforzarle.
Pensate solo a tutte le conferenze di pace organizzate e facilitate dall'Onu
in cui le donne sono state escluse, e si sono rinforzati e legittimati i
signori della guerra, di solito estranei alle comunita' locali. Cosa sarebbe
cambiato se le donne fossero state incluse nelle negoziazioni formali ed
informali sin dall'inizio? Vi sarebbe stata una differenza, e quale? Non
possiamo saperlo, finche' non proviamo. E se non proviamo, che tipo di pace
pensiamo di costruire?

3. RIFERIMENTI. LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO: ALCUNE SITE AMICHE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questi collegamenti]

Le "site amiche" sono una scelta di luoghi telematici che vogliono dare
notizia di centri, associazioni, gruppi, riviste e iniziative che riteniamo
importanti per la nostra politica.
- La Citta' Felice
Sito dell'Associazione "La Citta' Felice" di Catania, nata per iniziativa
delle donne del gruppo Le Lune, con il desiderio forte e autorevole di
mettere "ordine" in citta'.
http://spazioweb.inwind.it/cittafelice
- Autoriforma
Sito del movimento di autoriforma gentile della scuola. Sono donne e uomini
di ogni parte d'Italia che pensano la scuola con coordinate inedite, la
guardano con occhio sgombro da stereotipi, vi cercano con lucida
determinazione qualita' e senso capaci di liberare il piacere in chi la
abita, fuori da dover essere e modelli precostituiti, per rispondere ai
profondi cambiamenti della societa' senza adeguarsi alle logiche
aziendalistiche e organizzative dominanti. Sono quelle/i che hanno avviato
un processo autonomo di cambiamento, basato sulle relazioni tra chi vive
nella scuola e sulla valorizzazione del sapere scaturito dall'insegnare.
http://autoriformagentile.too.it
- Sito di storia curato da Donatella Massara
E' il sito della Comunita' di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca
storica. E' un sito decisamente completo che presenta bibliografie, ed
elenchi enormi di siti interessanti. Si possono inoltre trovare incontri,
convegni, film di registe sulla storia, esperienze dalla scuola e per la
scuola, ricerche, testi, articoli.
www.url.it/donnestoria
- Fondazione Badaracco. Studi e documentazione delle donne
Il sito presenta la vita (passata e presente) della Fondazione: le sezioni
ne illustrano le pubblicazioni, i seminari, le ricerche, la biblioteca e il
posseduto archivistico. L'interesse della Fondazione e' quello di promuovere
la storia e la cultura delle donne nei diversi ambiti del sapere, con
particolare riguardo per la storia del movimento politico delle donne degli
anni Settanta.
www.fondazionebadaracco.it
- Associazione Lucrezia Marinelli
L'Associazione Lucrezia Marinelli e' nata a Sesto S. Giovanni (periferia
nord di Milano) nel 1989 come realizzazione del desiderio di dieci donne di
voler comprendere meglio l'agire del simbolico, in particolare quello
femminile. La passione per il cinema da parte di Nilde Vinci, fondatrice
dell'associazione, le ha portate all'idea di analizzare le immagini filmiche
prodotte dalle registe. Volevano scoprirvi come e quanto il nuovo di questi
ultimi anni vi avesse inciso.
www.lucreziamarinelli.org
- Comunita' filosofica femminile Diotima
Non siamo un gruppo, ma singole donne con i segni singolari e comuni di una
storia di relazioni, a cominciare da quella con nostra madre, per continuare
con quella che ci lega fra noi e si chiama "diotima": nome comune di
relazione fra donne impegnate nella ricerca filosofica.
www.diotimafilosofe.it
- Associazione Oltreluna - Galleria delle donne di Milano, via Padova 177
Milano
Associazione di artiste nata dalla comune passione per l'arte delle donne.
Organizza e ospita mostre, possiede un ricco archivio di documentazione.
www.url.it/oltreluna
- DeA
DeA sta per "Donne e altri", un sito pensato da un gruppo di giornaliste e
giornalisti che vuole guardare la cronaca, la politica e la cultura con
occhi non neutri, ma femminili e maschili.
www.donnealtri.it
- Centro Duoda - Universidad de Barcelona
www.ub.es/duoda/catprin.html
- Pat Carra
Pat Carra nasce a Parma nel 1954, insieme alla sua gemella. Nel 1978
trasmigra a Milano, verso la Libreria delle donne. Pubblica i suoi primi
fumetti sul catalogo della Libreria Le madri di tutte noi, cioe' le
scrittrici che hanno aperto la strada. Fumettando il mondo visto dalle donne
e le donne non viste dal mondo, pubblica su "Noi donne ", "Cuore ",
"Smemoranda ", "Via Dogana" e soprattutto sul settimanale "Donna moderna".
www.patcarra.it
- Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano
Dal "Chi siamo": Ci occupiamo di maltrattamenti in famiglia e violenza alle
donne. Crediamo che si possa uscire dalla violenza con la pratica della
relazione fra donne.
web.tiscali.it/cadmi/guida
www.cadmi.org
- Casa delle donne di Viareggio
Luogo di valorizzazione dei saperi femminili, di iniziativa culturale e
politica, aperta a tutte le donne nel quale e' possibile comunicare e
scambiare esperienze personali e culturali, volorizzari i diversi percorsi
individuali e collettivi.
www.casadelledonne.it
- Uomini in cammino
Sito in cui il collettivo di uomini di Pinerolo tenta di comunicare e
condividere percorsi di ricerca, di autocoscenza e di approfondimento su
temi quali il patriarcato dominante, l'identita' maschile, il rapporto
uomo-donna in tutte le sfere della vita quotidiana.
web.tiscali.it/uominincammino
- Rivista raggio
La rivista delle suore missionarie comboniane.
www.rivistaraggio.org/
- GiudIT, Giuriste d'Italia-onlus
E' un'associazione che ha lo scopo di promuovere, secondo un'ottica di
genere, studi, ricerche, formazione, attivita' di promozione sociale su
tematiche giuridiche concernenti la differenza sessuale, il rapporto tra
differenza sessuale, uguaglianza formale e sostanziale, differenze
culturali; soggettivita' giuridica e diritti; empowerment delle donne;
diritto e politica; liberta' e autodeterminazione in materia di sessualita',
riproduzione, salute, usi del corpo, orientamento sessuale e identita' di
genere; relazioni personali e familiari; violenza contro donne e minori;
lavoro produttivo e riproduttivo; conciliazione e redistribuzione delle
responsabilita' familiari e professionali.
http://members.xoom.virgilio.it/giudit
- Il presente ha un cuore antico - Letizia Lanza
Riletture della classicita' greco-romana nell'immaginaria delle donne, oggi.
Da Omero ai tragici, dalle scritture latine alle testimonianze medievali e
moderne - alla ricerca di protagoniste femminili e personaggi eroici (o
anche mostri, spettri, ibridi inquietanti e grotteschi, esseri
bisessuali...).
http://digilander.libero.it/letizial
- Ereditare il femminismo: Lezioni di Filosofia di Luisa Muraro
Sito creato da Luisa Rizzo, con la collaborazione di Sara Gandini, sulla
base delle pubblicazioni su alcuni quotidiani.
http://members.xoom.virgilio.it/_XOOM/nuovofile/indiceinterno.htm
- La Cooperativa delle donne di Firenze
Al suo interno Libreria delle donne e il Centro di documentazione Fili. Fra
l'altro e' presente una lista dei centri di documentazione nella rete
Lilith; le librerie delle donne in Italia e nel mondo; un elenco delle
riviste delle donne aggiornato, piccole bibliografie su alcuni temi
specifici (tra cui sul diritto sessuato)...
http://soalinux.comune.firenze.it/cooperativadonne/
- Libreria delle donne di Roma
Ha la forma di una casa composta da sette stanze simboliche. Si definisce un
archivio vivente.
http://members.xoom.it/matrimoney/index.html
- Tramanti
E' una tesi sperimentale sulle relazioni fra le nuove tecnologie della
comunicazione e le filosofie femministe contemporanee. La rete come fucina
del simbolico, come spazio aperto alla sperimentazione di identita' fluide,
nomadi, frammentate. Ci interessa verificare quanto le donne in carne e ossa
avvertano il bisogno di definizioni del se' piu' aperte e contraddittorie e
come il cyberspazio possa, secondo loro, prestarsi a questo scopo.
www.tramanti.it
- Sito in spagnolo con diversi articoli interessanti sul femminismo, il
pensiero della differenza, il cyberfemminismo, la globalizzazione...
www.creatividadfeminista.org
- Carla Lonzi
http://utenti.lycos.it/CharlesDulli/index.htm
- Simone Weil
http://www.nonluoghi.it/weil.html
- Virginia Woolf (in inglese)
http://www.utoronto.ca/IVWS
- DWF
Rivista di politica femminista. Trimestrale. La rivista e' nata nel 1976. Ha
una sezione di women's studies e abstracts in inglese.
www.storiadelledonne.it/dwf/index.html
- Il Paese delle donne
Giornale nato per rendere visibili tutte quelle donne che, singolarmente o
aggregate in qualche modo, stanno modificando i comportamenti del vivere
civile.
www.womenews.net/
- Gruppo Balena
La guerra nei Balcani vista da alcune donne. Interventi di Maria Luisa
Boccia, Gabriella Bonacchi, Adriana Buffardi, Maria Rosa Cutrufelli, Ida
Dominijanni, Manuela Fraire, Paola Masi, Rosetta Stella e altre.
http://balena.freeweb.supereva.it/index.htm
- Forum Lou Salome'. Donne psicanaliste in rete
Interessante sito di donne psicanaliste "perche' non e' indifferente la
posizione di parola che un soggetto assume in quanto sessuato
(femminile/maschile)". Scelgono la rete perche' "l'impiego di Internet
costituisce una novita' di metodo nel campo delle relazioni femminili in
psicanalisi e consente di istituire una rete di informazioni e di contatti
teorici e critici che assumono cosi' visibilita' e condivisibilita' globale.
http://utenti.lycos.it/forumlousalome/index.htm
- Societa' delle letterate
Associazione di donne impegnate nella ricerca e nella pratica della
scrittura e della letteratura. La loro specificita' e' quella di avere come
ambito di riflessione lo "spazio letterario" comparato al femminile.
Ricerca, dunque, di donne, e pratica critica nei confronti del "canone" in
letteratura, nel cinema, nel linguaggio delle immagini e dei mezzi di
comunicazione, nella scrittura teatrale.
www.societadelleletterate.it/Pub
- Madres de Plaza de Mayo
Le madri dei desaparecidos in Argentina.
www.madres.org
- Associazione per una libera universita' delle donne (Milano)
L'Associazione per una libera universita' delle donne e' una onlus, nata nel
1987 da un gruppo di donne di varia estrazione sociale e culturale.
www.universitadelledonne.it
- DWpress
Il quotidiano delle donne propone un servizio, unico nel suo genere, che
focalizzi l'attenzione sulla realta' dei saperi e delle passioni femminili,
sulle azioni positive intese a valorizzare i percorsi delle donne attraverso
articoli, interviste, inchieste e approfondimenti.
www.mclink.it/n/dwpress
- L'Araba Felice
Il sito de L'Araba Felice mette in rete Dominae, Dizionario biobibliografico
interattivo delle donne (di ieri e di oggi), e da' notizia delle attivita'
dell'associazione (fondata nel 1984) riguardanti poesia, narrativa,
dibattiti sull'attualita', lavoro con le scuole, eccetera).
www.arabafelice.it
- Sito delle streghe
Il Sito delle streghe contiene parecchio materiale su scrittrici, pittrici,
artiste...
www.geocities.com/~tesorino/Il_sito_delle_streghe/index1.html
- Libreria delle donne di Roma
www.libreriadelledonne.com
- Labyrinthplatz Zuerich
Il labirinto, antico simbolo presente in molte culture del mondo, e' stato
riscoperto da alcune donne di Zurigo che hanno costruito un
giardino-labirinto recuperando una piazza abbandonata. A partire da questa
"opera d'arte collettiva e multiculturale", "luogo di incontro e di riposo",
e' nato un movimento internazionale
www.labyrinth-project.ch

==============================
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@???
Numero 3 del 9 gennaio 2005