[NuovoLaboratorio] La crescita contrabbandata per sviluppo

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Autor: antonio bruno
Data:  
Assumpte: [NuovoLaboratorio] La crescita contrabbandata per sviluppo
dal manifesto 23 dicembre 2004

Abbagli a sinistra: la crescita contrabbandata per sviluppo
CARLA RAVAIOLI
«I limiti dello sviluppo», il famosissimo, celebrato quanto vituperato
rapporto commissionato dal Club Roma al Mit, che pose i primi seri
interrogativi sulle attività umane in rapporto all'equilibrio ambientale,
in realtà avrebbe dovuto intitolarsi «I limiti della crescita». «Limits to
Growth» è infatti il titolo originale. Probabilmente l'editore italiano,
sostituendo «sviluppo»a «crescita», ritenne non solo di rafforzare la
funzione promozionale del titolo, ma anche di essere meglio inteso dal
pubblico cui si rivolgeva. In effetti nel `72, quando apparve il libro, la
parola «crescita» in Italia non era ancora di largo uso nel gergo
economico, ed era lontanissima dall'imperativo ossessivamente ripetuto di
oggi. «Sviluppo» era invece la parola simbolo dell'euforico ottimismo
postbellico. La scelta editoriale rispondeva dunque a una vicenda semantica
che, in conformità all'impianto capitalistico e alla sua storia recente, ha
modificato via via il significato di sviluppo fino alla sua identificazione
con quello di crescita. La cosa d'altronde non stupisce. «In Usa negli
ultimi 150 anni il tempo di lavoro nell'arco della vita si è dimezzato e il
reddito individuale è cresciuto di 15 volte», nota Paolo Sylos Labini nel
suo ultimo libro (Torniamo ai classici, Laterza 04). Cifre indicative di
ciò che l'industrializzazione ha rappresentato per quello stesso
proletariato duramente costretto a pagarne fatiche e iniquità: consentendo
via via migliori condizioni di vita, alimentari, abitative, sanitarie, più
istruzione, pensione sicura, accesso a consumi non di prima necessità,
vacanze, sport, attività culturali, ecc. Sono le ragioni per cui le
sinistre, storicamente impegnate in grandi battaglie per ridurre quanto
possibile lo sfruttamento della classe operaia, di fatto non hanno mai
messo in discussione il «sistema». Prova evidentissima di questa
sostanziale assimilazione del «popolo di sinistra» al portato culturale e
alla stessa forma antropologica della società capitalistica, la si ebbe dal
modo in cui la grande maggioranza del Pci accolse il famoso discorso
sull'«Austerità» pronunciato nel `77 da Enrico Berlinguer che affermava la
necessità di «uscire, sia pure gradualmente, dai meccanismi e dalla logica
che ha presieduto allo sviluppo italiano, dai suoi pesudovalori, e persino
dalle abitudini che ha creato», abbandonando «l'illusione che sia possibile
perpetuare un tipo di sviluppo fondato sull'artificiosa espansione dei
consumi individuali» e sulla «dissipazione delle risorse». E proprio nel
rifiuto dell'«insania consumistica» e nella ricerca di valori diversi
indicava i presupposti di un «nuovo sviluppo economico e sociale», di «un
modo diverso di vivere». Intuizioni addirittura profetiche e di lucida
consapevolezza politica, che avrebbero potuto segnare la prima tappa di un
lavoro strategico decisivo verso l'eternamente quanto vanamente invocato
«modello alternativo». Ma trovarono solo freddezza o aperto dissenso. Cosa
che non si spiega solo pensando alla miseria da cui i più appena
emergevano, e dicendo «non si può buttare quello che non si ha, o non si è
avuto fino a ieri». Che va letta anche nella sua funzione di formidabile
anestetico sociale, e confrontata con anni di caduta del conflitto e
perdita di solidarietà; e accusata di fronte alle tremende conseguenze di
sempre più forsennati abusi ambientali.

Il 15 gennaio credo che questo dovrebbe essere uno dei nodi su cui
interrogarci. Domandandoci perché nessuna attenzione si sia prestata alle
voci che ostinatamente tentavano di distinguere tra «crescita» (di merci e
reddito) e «sviluppo» (di beni sociali e diritti civili, di
scolarizzazione, difesa della salute, libera informazione, rispetto per la
natura, parità tra i sessi, partecipazione democratica). Due dimensioni
dell'agire economico e sociale di cui la prima è base indispensabile della
seconda, che però si capovolge in danno sociale, ambientale e alla lunga
anche economico, quando con essa pretende di identificarsi, mentre in
realtà la cancella sotto la specie di un produttivismo senz'altro fine che
un + davanti al Pil. E' la posizione con tenacia sostenuta dall'Onu, che
nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano ha lanciato vere e proprie invettive
anti-crescita e feroci critiche dell'aberrante computo del prodotto. Come
questa del `96: «Crescita di che cosa, e per chi? Crescita di inquinamento
che richieda altri dispositivi antinquinamento? Crescita di criminalità che
impieghi schiere di poliziotti? Crescita di armamenti militari? Crescita di
reddito solo per i più ricchi? Non è proprio questo che la gente vuole, e
però tutto questo è parte della crescita del Pil». E domandandoci perché
non si sia riflettuto su cosa ha significato per il Sud del mondo lo
«sviluppo» previsto dai programmi di Banca mondiale e Fondo monetario
Internazionale, che imponendo la logica quantitativa occidentale ha
stravolto vecchie ma vitalissime economie, antiche culture, gioielli
paesistici; nella gran parte dei casi non risolvendo affatto i problemi di
povertà e disugaglianza, anzi accentuandoli, mentre ha sfacciatamente
favorito le grandi compagnie transnazionali. E ancora: perché, sempre in
osservanza del dettato sviluppo=crescita, le sinistre si siano
tranquillamente adeguate a quella sorta di grande rimozione della crisi
ecologica non a caso prodottasi tra i politici di ogni livello e travasata
nel sentire comune: fino a derubricare un problema su cui si gioca il
futuro del mondo a semplice disfunzione del sistema, da potersi emendare
con qualche correzione legislativa e molta fede nei miracolismo
tecnologico. Per poi contrabbandare il tutto sotto le specie di un ossimoro
blandamente consolatorio, come lo «sviluppo sostenibile». Tutto questo si
somma in un interrogativo non più eludibile: come non vedere che
l'incapacità di concepire il benessere sociale se non in termini di
crescita produttiva equivale in sostanza all'incapacità di pensare il
futuro al di fuori del paradigma capitalistico?



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