[Lecce-sf] Se il padrone ti nega anche l'acqua da bere

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Author: Antonella Mangia
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New-Topics: [CSSF] Coordinamento Nichi Vendola - Presidente
Subject: [Lecce-sf] Se il padrone ti nega anche l'acqua da bere
Nardò, una storia di (stra)ordinaria violenza contro i
lavoratori
Se il padrone ti nega anche l'acqua da bere
E il sindacato? E' arrivata prima la magistratura che
i sindacati nei cantieri dei fratelli Scorza. I
lavoratori sottomessi hanno paura, la sinistra tace o
sta con i padroni
ALESSANDRO MANTOVANI
La cosa peggiore era il sabato. Dopo una settimana nei
cantieri, dieci o dodici ore al giorno a bucare
l'asfalto e a sistemare tubi sottoterra, gli operai
dovevano rinunciare al sabato di riposo. E faticare
almeno la mattina, altre cinque o sei ore. In tutto o
in parte gratis. Quasi sempre nella masseria del
padrone Sergio Scorza di Nardò (Lecce), titolare con
il fratello Pietro delle imprese che hanno portato il
metano in due terzi del Salento. «Nella masseria
abbiamo fatto di tutto - racconta un operaio che tutti
i giorni manovra un'escavatrice - Ci hanno fatto anche
spalare letame e caricare pietre. Era un posto
abbandonato e si dice che diventerà un agriturismo a
cinque stelle». «Lavori forzati», dice un altro
operaio. «Lì intorno non c'è niente, anche un panino
te lo devi portare da casa. Mi è capitato di finire
alla masseria senza preavviso e sono stato tutto il
tempo senza sigarette, senza bere e mangiare. Le
sigarette vabbè, ma l'acqua!...». Era lavoro
fuorilegge, quello del sabato, ma obbligatorio. «Per
me, come per altri, i problemi sono cominciati proprio
quando mi sono rifiutato di lavorare il sabato, quando
a Pietro Scorza gli ho detto «o questi sabati me li
paghi oppure non ci vengo più»», ricorda un operaio di
quasi 40 anni, da più di dieci dipendente del gruppo.
Problemi? «Sì, ti mettono da parte, ti rendono la vita
impossibile... Se non ti possono licenziare ti fanno
capire che non sei gradito».

Il tragitto da Nardò al cantiere

Nelle tre imprese del gruppo Sforza, secondo le
indagini dei carabinieri di Gallipoli e degli
ispettori del lavoro di Lecce, gli straordinari
venivano conteggiati e retribuiti soltanto in minima
parte. Quelli del sabato quasi mai. L'agenzia Inps di
Lecce ha riconosciuto a tutti i lavoratori due ore di
straordinario per ciascuna giornata lavorata. Sono
ormai accertati turni massacranti: dal lunedì al
venerdì dalle 5,30 alle 17,30, con mezz'ora di pausa.
E il sabato da cinque a sette ore, in genere alla
masseria. Solo adesso, nel deposito di via Castellino
dove gli operai si presentano ogni mattina, un
cartello fissa l'orario: «Dalle 7 alle 15 30». «La
regola è sempre stata di essere lì alle 5,30. Da lì
raggiungiamo i cantieri, che possono essere vicini o
più lontani, anche fuori provincia. E il rientro, per
tutti, è alle 17,30». L'orario effettivo, in parte,
dipende dal tragitto da Nardò al cantiere: più si è
vicini e più si lavora. Ma non sempre: «Bene che ti
andava rientravi alle 17,30-18 ma anche più tardi. Nel
`92, quando ho iniziato e stavo nella zona di Taranto,
si facevano le 8, anche le 9 di sera». E ancora, i
lavoratori si vedevano decurtate le buste paga nelle
giornate di pioggia (a spese dell'Inps); in caso di
«danni» all'azienda, essi venivano detratti dai salari
operai. Spesso la sicurezza era un optional: un
saldatore una volta riportò gravi ustioni alle braccia
per un incidente avvenuto mentre era solo, sottoterra.
Sono venute fuori anche lettere di dimissioni fatte
firmare in bianco, per «motivi di famiglia»: più che
per licenziare, gli Scorza le hanno usate per
trasferire i dipendenti da un'impresa all'altra
all'interno del gruppo, massimizzando gli incentivi
all'occupazione, oppure per trasformare i contratti a
tempo indeterminato in rapporti a termine, sei mesi o
un anno. «Chi si ribella perde il posto», questa la
regola. «Io li capisco - dice un operaio che ha
denunciato i padroni, all'indirizzo dei compagni che
continuano a chinare il capo e anzi solidarizzano con
gli Scorza - Loro dicono: "Chiamo papà chi mi dà il
pane", hanno paura di perdere il posto». Soprattutto
adesso.

Il cumulo di reati

Il 17 novembre il gip di Lecce Vincenzo Scardia ha
ordinato gli arresti domiciliari per Sergio e Pietro
Scorza. Estorsione aggravata ai danni di 86
dipendenti, questa l'accusa accolta dal giudice, «per
avere - si legge nel capo d'imputazione - procurato a
se stessi l'ingiusto profitto conseguente a una minore
retribuzione corrisposta ai lavoratori delle imprese
Sevar, Grandi e Italgecri srl, con minaccia di perdita
del posto di lavoro e altre condotte vessatorie». I pm
Carolina Elia e Cataldo Motta, quest'ultimo
procuratore aggiunto alla distrettuale antimafia di
Lecce, vanno oltre e ipotizzano anche il reato di
riduzione in schiavitù (pena massima vent'anni) e la
truffa aggravata all'Inps (sulle indennità per le
giornate di pioggia), capi d'accusa che il gip ha
ritenuto insussistenti. «I vertici aziendali - scrive
il giudice Scardia - hanno creato un clima diffuso di
intimidazione, tale da costringere i lavoratori
dipendenti ad accettare intollerabili condizioni
lavorative, illecite imposizioni, indebite
decurtazioni della retribuzione. E ciò è avvenuto
sotto il ricatto, esplicito o meno, della perdita del
posto di lavoro».

Subito dopo gli arresti, a Nardò, una trentina di
dipendenti ha manifestato la solidarietà agli Scorza,
con un presidio davanti ai cancelli di via Castellino.
Tra loro anche lavoratori che hanno confermato, in
parte, le accuse: sui turni e sugli straordinari non
pagati, l'Inps ha avuto conferme da tutti e 63 i
lavoratori ascoltati, pari al 70% dei dipendenti.

Gli Scorza non sono gli ultimi arrivati. Le loro
aziende sono veri e propri collettori di appalti
pubblici: soprattutto gas e Enel, nel leccese ma anche
altrove, fino a Bologna. Sergio, il maggiore, è il
volto noto del gruppo: 50 anni, siede nella giunta
dell'Assoindustria, dominata dai costruttori. Il
fratello Pietro, 38 anni, nella gerarchia aziendale
conta meno ma per alcuni operai era il più duro. A
livello politico, il loro arresto ha fatto rumore:
anche esponenti della sinistra, come il senatore Ds
Alberto Maritati, hanno voluto esprimere «perplessità»
sull'uso della custodia cautelare, poi è calato il
silenzio.

I due arrestati respingono le accuse. «Questi fatti,
se dimostrati, possono dar luogo a contenziosi civili
o previdenziali, non certo di rilevanza penale»,
sostiene l'avvocato Giuseppe Bonsegna, noto
professionista di sinistra che nel 2001 firmò
l'appello per Massimo D'Alema, candidato nel Salento.
«Anche su questi sabati vedremo chi ha lavorato,
quanto ha lavorato e quanto è stato pagato», aggiunge.
Fin qui, però, gli hanno dato torto. Gli arresti
domiciliari sono stati confermati, il 1° dicembre, dal
tribunale del riesame. Sono stati scarcerati dal gip
alla vigilia di Natale per cessate esigenze cautelari
ma intanto il procuratore Motta ha insistito in
appello per veder riconosciuto il reato di riduzione
in schiavitù, ricorso respinto perché il collegio non
ravvisa l'«assoggettamento continuativo» richiesto
dall'articolo 600 del codice penale. La norma,
severissima, dall'agosto 2003 non è più limitata ai
fatti commessi in danno di immigrati ma si estende a
«chiunque esercita su una persona poteri
corrispondenti a quelli del diritto di proprietà», o
«la riduce o la mantiene in uno stato di soggezione
continuativa, costringendola a prestazioni lavorative
o sessuali ovvero all'accattonaggio», o a «prestazioni
che ne comportino lo sfruttamento». Se non c'è
«violenza, minaccia, inganno» può bastare l'«abuso di
autorità» o l'«approfittamento di una situazione di
inferiorità fisica o psichica o di una situazione di
necessità».

Dietro uno scandalo simile ci si aspetterebbe di
trovare una denuncia del sindacato. Invece no. I
sindacati sono arrivati per ultimi, dopo i carabinieri
e dopo un anno e passa di accertamenti cominciati per
caso, «quando è successa una cosa grave - racconta un
operaio - che non era mai successa». Il 18 luglio 2003
un operaio si è sentito male sul lavoro, ha chiesto un
medico e il medico non arrivava. Si è stancato di
aspettare e ha chiamato i carabinieri di Aradeo che
hanno fatto venire l'ambulanza. Nulla di grave: il
referto dice «crisi lipotimica», uno svenimento dovuto
allo stress. Però al pronto soccorso è venuto fuori
che l'operaio, qualche giorno prima, aveva preso un
sacco di botte: contusioni allo scroto e all'inguine,
prognosi di 15 giorni. I militari hanno fatto qualche
domanda e il lavoratore, dagli Scorza dal `98, ha
presentato una doppia denuncia: contro il compagno che
l'aveva aggredito insieme a un caposquadra e contro le
condizioni di lavoro che avevano reso possibile
l'aggressione. Il 29 luglio l'aggredito e l'aggressore
sono stati licenziati, ma altri compagni hanno deciso
di parlare. I carabinieri hanno raccolto quattro nuove
denunce, citate nell'ordinanza del gip. Poi un'altra
ancora. Sono firmate da padri di famiglia, alcuni con
dieci anni e passa di anzianità aziendale, difesi
dall'avvocato leccese Marcello Petrelli. Quasi tutti
hanno confermato le accuse, se non altro sugli orari.

La dinamica dell'aggressione la chiarirà la
magistratura, se potrà. L'interessato non parla:
«Scusatemi, ho paura». Ha cambiato lavoro e provincia,
lasciando la famiglia a Nardò. Un altro operaio, che è
rimasto in azienda e oggi vive l'ostilità dei compagni
fedeli al padrone, racconta: «L'hanno picchiato perché
cercava una bottiglia d'acqua. Era luglio, c'era un
caldo terribile e dovevamo buttare l'asfalto a
duecento gradi. Ha detto: "Devo bere, cerco l'acqua" e
ci ha messo del tempo. Quello però se l'è presa, si
sono bestemmiati i morti e a un certo punto il
caposquadra lo teneva e l'altro lo menava...». Un
compagno aggiunge: «La verità è che lui si lamentava -
aggiunge un compagno - perché in un giorno dovevamo
fare il lavoro di tre. E comunque lo filavano da un
pezzo, come succede a tutti noi che non ci siamo
sottomessi». Ma c'è anche chi parla di un litigio
casuale.

Un modello per tutti

A sentire alcuni lavoratori «le aziende degli Scorza,
nella zona, sono considerate un modello, in altri
cantieri gli operai si sentono dire: "Se lì fanno
dodici ore le potete fare anche voi"». La Cgil
smentisce: «Nei grandi cantieri no, non siamo a questo
punto», dice Biagio Malorgio, segretario della camera
del lavoro di Lecce. Ma è anche vero che il sindacato
non si era accorto delle condizioni di lavoro imposte
ai dipendenti degli Scorza, nemmeno quando il
lavoratore pestato e licenziato si è presentato
all'ufficio legale della Cgil per il ricorso contro la
giusta causa. «Non sempre riusciamo a essere presenti
nei cantieri - riconosce Raffaele Romano, segretario
provinciale della Fillea, gli edili Cgil - perché
abbiamo pochi iscritti, nelle aziende degli Scorza una
decina e prima ancora meno. E' chiaro: i lavoratori
erano intimoriti, avevano paura e questo lo capivamo.
Ma io, se il lavoratore non mi parla, posso fare
poco». La situazione non era nota neanche alla Cisl,
che di iscritti ne ha di più. Ai sindacati non resta
che dire «ben venga il lavoro della magistratura» e
proteggere i lavoratori dal ricatto occupazionale, che
con i padroni agli arresti si fa più forte.

Il lavoro nero e irregolare non è una novità
nell'edilizia salentina: «E' un fenomeno in
espansione, le aziende giocano sugli straordinari e
sulla doppia busta paga», spiega Romano. Per il 2003,
la Fillea ha calcolato l'evasione contributiva al
34,2%, 15 milioni di euro all'anno. Su legalità e
sicurezza si firmano accordi e protocolli che spesso
restano fuori dai cantieri. Dopo l'arresto degli
Scorza, finito in prima pagina sulla stampa
provinciale, confederazioni ed enti locali si sono
rimpallati le responsabilità: «Cosa faceva il
sindacato?», ha polemizzato il sindaco di Lecce,
Adriana Poli Bortone di An. «Sono gli enti appaltanti
a dover vigilare sul rispetto dei contratti», replica
Malorgio per la Cgil. Il prefetto ha convocato le
parti sociali proprio per parlare di sicurezza e
legalità nei cantieri. E i sindacati hanno finalmente
messo piede nelle aziende degli Scorza, prima con
un'assemblea in vista dello sciopero generale del 30
novembre e poi per un incontro sulla situazione
interna. «Dovevano venire prima», taglia corto uno dei
denuncianti. Gli operai hanno ancora più paura.



il manifesto - 28 Dicembre 2004


        
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