Ostaggi della violenza
Gli Stati Uniti e il terrorismo
di MARCO SIOLI
1. Cronaca di un massacro di arabi
In una società mediatica così attenta alle celebrazioni e alle ricorrenze
un bicentenario è passato completamente inosservato. Si tratta del primo
bombardamento - o meglio cannoneggiamento, visto i mezzi limitati
dell'epoca - della città (e dunque della popolazione) di Tripoli da parte
di uno squadrone di navi americane. Nel 1804, quando si verificò
l'episodio, gli Stati Uniti avevano appena acquistato il vasto territorio
della Louisiana dalla Francia napoleonica ed erano in procinto di espandere
la loro egemonia imperiale - questa volta con il significato proprio del
temine - cioè con un allargamento del proprio limes (1). Di dominio
incontrastato sulle sorti del mondo ancora non si parlava, ma già era
possibile leggere in questo episodio dimenticato della guerra di Tripoli e
più in generale del confronto con gli Stati barbareschi, definiti dagli
americani Barbary Powers/potenze barbare, alcuni punti che rimarranno
costanti negli accadimenti storici successivi.
Ripartiamo dunque dall'espansionismo di Thomas Jefferson vero artefice di
quello che quarant'anni dopo sarà definito come "Destino manifesto".
Jefferson, che cercava di trovare terre e mercati per il ceto che
politicamente lo aveva portato alla presidenza - i piccoli agricoltori
proprietari appunto -, ipotizzava un'espansione territoriale verso Ovest,
dove i coloni incontravano una fiera opposizione da parte delle nazioni
indiane, e un'espansione commerciale verso l'Europa e il Mediterraneo dove
era giocoforza scontrarsi con i pirati barbareschi che controllavano i
commerci e che spesso sequestravano le navi americane e i loro carichi,
facendo prigionieri i marinai. Vecchia come il mondo e ancora attuale in
alcune aree del globo, la pirateria marittima aveva avuto il suo apice nel
Seicento, spesso alimentata dagli stessi stati europei. Nel Settecento, gli
stati islamici lungo le coste dell'Africa settentrionale erano ancora
impegnati in quello che gli storici moderni chiamano "pirateria
barbaresca". I corsari continuavano ad assalire le navi europee per
richiedere un riscatto per l'affrancamento del carico e per la liberazione
degli equipaggi i cui membri, non solo erano fatti prigionieri, ma
addirittura erano resi schiavi e costretti a lavorare con diversi compiti
al servizio del Bey di turno. Un comportamento comune alle varie città
africane affacciate sul Mediterraneo - Tangeri, Algeri, Tunisi e Tripoli -
che risultava particolarmente odioso alla sensibilità degli europei
dell'epoca (2).
Thomas Jefferson aveva sempre temuto i pirati barbareschi sin da quando era
ambasciatore a Parigi. Quando, nel 1785, chiese ad una delle figlie di
raggiungerlo in Europa si raccomandò di farla viaggiare su navi francesi o
inglesi, unici vascelli al riparo dalla minaccia dei corsari (3). Nel 1790,
quando era Segretario di stato sotto la presidenza di George Washington
chiese a gran voce che la pirateria barbaresca fosse "soppressa con la
forza". La quasi assoluta mancanza di una marina da guerra portò gli
americani a cercare di negoziare una pace con i singoli Bey. La stessa
politica venne seguita dal successore di Washington, John Adams, che nel
maggio del 1800 inviò una fregata con 24 cannoni ad Algeri. A bordo uno
strano carico: 12 pappagalli, 4 antilopi, 4 tigri, 4 leoni, 150 pecore, 25
mucche, 4 cavalli e 100 schiavi afroamericani: uomini, donne e bambini.
Questo particolare commercio al contrario di schiavi e di animali esotici
non era altro che il prezzo da pagare per mantenere la pace con il Bey di
Algeri per una nazione che scarseggiava di moneta (4).
Quando Jefferson diventò Presidente nel 1801 le cose cambiarono. Diverse
navi militari erano in costruzione su ordine del suo predecessore - John
Adams - e, nonostante nel suo programma elettorale si leggesse "La pace è
la nostra passione", era la guerra a dettare legge. Il 15 maggio 1801 il
gabinetto del Presidente decise di mandare una squadra di 4 navi - la
President e la Philadelphia entrambe con 44 cannoni, la Essex con 32
cannoni e il vascello Enterprise armato di 12 cannoni - con il compito di
respingere gli attacchi, ma non di distruggere le navi di Tripoli. Se il
Congresso avesse dichiarato la guerra o se la guerra fosse stata dichiarata
da uno stato nemico, l'esecutivo autorizzava l'uso della forza. Solo il
Ministro del tesoro, Albert Gallatin, fece presente che "dichiarare una
guerra" e "fare una guerra" erano sinonimi. Jefferson dunque non dichiarò
guerra ai Barbary States, si limitò a fare una guerra contro di loro senza
alcuna autorizzazione preventiva del Congresso, così come aveva fatto per
l'acquisto della Louisiana (5).
Gli scontri nel Mediterraneo tra navi americane e barbaresche continuarono,
ma nel novembre del 1803 tre piccoli vascelli tripolitani assalirono la
nave Philadelphia che stazionava all'imbocco del porto e ne presero
possesso. Tutto l'equipaggio - sia la ciurma sia gli ufficiali - venne
ridotto in schiavitù, e tutti i trecento marinai americani furono costretti
a lavorare in un vecchio magazzino dove vennero frustati e umiliati. La
perdita della nave Philadelphia fu un grave scacco per gli americani e
quando nel marzo del 1804 la notizia della distruzione della nave raggiunse
gli Stati Uniti, Jefferson rimase letteralmente senza parole. Sia il
Congresso, sia l'opinione pubblica posero in primo piano la questione delle
attività militari navali nel Mediterraneo. Il Presidente mandò subito una
nuova flotta in Europa e la città di Tripoli venne bombardata in diverse
riprese: il 3 e il 7 agosto alla luce del giorno, e la notte del 24 agosto.
Lo stesso bombardamento notturno venne effettuato il 28 agosto e il 3
settembre (6).
Il bombardamento del porto, delle mura e della medina della città di
Tripoli può essere considerato sotto diversi aspetti a secondo del punto di
vista da cui lo si guarda: una ritorsione, un appendice ai massacri di
civili che venivano coinvolti nelle guerre dell'epoca, un atto di
terrorismo. Di sicuro, l'uso della forza contro una città abitata
prevalentemente da civili - il bombardamento ripetuto di Tripoli - e i
successivi accadimenti - l'occupazione da parte dei marines della città di
Derna e la prima bandiera a stelle e strisce issata in territorio arabo -
fanno ripensare alla teoria dei corsi e ricorsi storici.
2. Cronaca di un massacro di indiani
Nel mio ultimo articolo per "Golem l'Indispensabile" avevo avuto
l'occasione di portare alla luce un testo di un esploratore americano -
Zebulon Pike - che incontrando un gruppo di indiani sax e fox sulle rive
del fiume Mississippi si accorse di quanto gli indiani apparissero ansiosi
di evitare i soldati blu considerati "feroci, vendicativi e warriorlike
people" (7). Erano centinaia i motivi che potevano giustificare da parte
degli indiani questa affermazione: dal racconto dei soldati americani
durante la Guerra d'indipendenza che avevano scelto di regalare al loro
ufficiale un paio di stivali fatti con la pelle degli indiani uccisi, alle
continue rimozioni di intere popolazioni costrette a emigrare lontane dai
luoghi abitati in origine, come i tuscarora che risiedevano nella Virginia,
forzati nel 1710 a trasferirsi a nord per condividere il territorio dei
Grandi Laghi con le altre nazioni della confederazione irochese. Due dei
tanti episodi che avrebbero portato tutte le nazioni indiane nel giro di un
secolo ad ovest del fiume Mississippi.
Quando si parlava di indiani all'epoca si riscontrava subito un notevole
risentimento da parte dei coloni. Agli occhi venivano subito i racconti
degli eccidi compiuti dalle bande indiane. Racconti amplificati dai media
dell'epoca in grado già di imporre un sentimento comune: l'odio verso il
nemico, in questa occasione gli indiani. Numerosi erano i resoconti delle
violenze contro i coloni, che non riguardavano solo fattorie bruciate e
gente alla quale era stato tolto lo scalpo, ma anche i racconti di
prigionia, captivity narratives, di coloro che, soprattutto donne, erano
stati sequestrati dagli indiani.
Di omicidi singoli e massacri di indiani è costellata la storia americana
dall'epoca della conquista alla fine dell'Ottocento. Utile in questo caso
citare il massacro di indiani perpetrato da coloni bianchi noti come Paxton
Boys. Nel dicembre del 1763, una banda di coloni scoto-irlandesi
provenienti dall'area di Paxton, nella Pennsylvania centrale, massacrò un
gruppo di conestoga, una volta parte della potente Confederazione irochese
ma ormai culturalmente assimilati e cristianizzati. Vecchi, donne e bambini
furono letteralmente fatti a pezzi e scotennati. Benjamin Franklin,
solitario, innalzò la sua voce contro l'atto terroristico pubblicando
alcune riflessioni sull'eccidio:
"C'è chi vorrebbe in parte scusare l'enorme malvagità di questi atti
dicendo che gli abitanti della frontiera sono esasperati dalle uccisioni
dei loro parenti per mano di indiani nemici ... Se un indiano mi danneggia,
vuoi forse dire che posso vendicare quel danno su tutti gli indiani?"
Ed ancora:
"O voi sciagurati artefici di questa orrenda malefatta! Riflettete un
instante sul male che avete compiuto, sulla vergogna che avete attirato sul
vostro paese, sulla vostra religione e sulla vostra Bibbia, sulle vostre
famiglie e sui vostri figli".
Uno scritto in controtendenza con le convinzioni della società americana
dell'epoca. I Paxton Boys minacciarono una marcia sulla pacifica Filadelfia
governata dai quaccheri e Franklin fu costretto alla "fuga" alla volta di
Londra e poi Parigi, da dove nel 1784 tornò sull'argomento con un pamphlet,
intitolato Remarks Concerning the Savages in North America, nel quale chiosò:
"Chiamiamo selvaggi questi popoli perché i loro costumi sono diversi dai
nostri, che crediamo rappresentino la perfezione della civiltà. Essi hanno
la stessa opinione dei loro. Se esaminassimo con imparzialità i costumi
delle diverse nazioni, forse troveremmo che, per rozzo che sia, non c'è
popolo che non abbia principi di buona educazione, e che non ce n'è alcuno
così educato che non conservi qualche residuo di barbarie. (8)
3. Cronaca di un massacro di afroamericani
Spesso quando si tratta di descrivere le tensioni razziali nel Sud degli
Stati Uniti tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento faccio
ricorso a un sito web su cui è possibile vedere le foto di una mostra che
ha scosso prima New York, che la ha ospitata, e poi l'America intera.
Without Sanctuary. Lynching Photography in America è il titolo della mostra
curata dal fotografo James Allen e dallo storico Leon Litwack che hanno
raccolto un gran numero di foto di linciaggi negli stati del Sud dal 1890
al 1940. Sul sito web sono state caricate un'ottantina di queste immagini
tanto esplicative della violenza perpetrata quanto sorprendenti, non tanto
per le povere vittime, quanto per i partecipanti al linciaggio che hanno
deciso di farsi fotografare con piglio suprematista accanto al cadavere, e
per il ruolo del fotografo, più di un semplice spettatore e addirittura,
considerando l'impegno con cui orchestrava il successo dell'immagine,
l'organizzatore della ripetizione infinita del massacro. Molte di queste
foto sono diventate infatti "cartoline postali che i celebranti di quella
liturgia macabra spedivano a parenti e amici come prova della loro
partecipazione all'evento" (9).
Ma le foto non erano altro che la punta dell'iceberg delle continue
violenze terroristiche perpetrate contro gli afroamericani, con una
differenza rispetto al passato. Mentre prima le folle violente agivano
mascherate di notte, ora le lynching mobs, sempre più diffuse nel Sud, non
erano più in incognita e agivano alla luce del sole, anzi addirittura a
volte istigate da giudici e sceriffi, poliziotti e funzionari statali. Di
solito i linciati erano accusati di aver assalito o cercato di assalire una
donna bianca, e ciò era sufficiente per giustificare l'atto barbarico agli
occhi dell'opinione pubblica americana. I proprietari dei giornali
raccontavano e giustificavano il linciaggio, rappresentando le vittime come
delle belve mostruose "affamate dal desiderio di attentare alla purezza
delle donne bianche". In realtà, come spiegato in seguito dagli studiosi,
l'accusa di stupro della donna bianca non era altro che il simbolo di tutto
ciò che i bianchi percepivano come fuori posto nella nuova società emersa
dalla Guerra civile. Una violenza collettiva che vendicava una "presunta"
aggressione a scopo sessuale contro una donna bianca, ma che in realtà
nascondeva un rigido comportamento dell'onore e una morale fondamentalista
che configurava una azione barbara dell'intera comunità come un evento
normale. Non si trattava perciò di un comportamento estremo legato
all'arretratezza culturale della folla autrice del linciaggio, piuttosto di
un rituale che serviva a cementare l'intero ordine sociale del Sud.
Un Sud che agisce ancora in modo terroristico, come ci conferma Marco
d'Eramo in una recente serie di reportage raccolti in un volume intitolato
Via dal Vento. Viaggio nel profondo sud degli Stati Uniti. La sua visita al
Southern Poverty Law Center di Montgomery, Alabama, lo ha portato di fronte
a un edificio di sei piani difeso da una barriera di cemento
anti-terrorismo. Guardie armate alla porta e metaldedector: la vecchia sede
era stata incendiata nel 1983 dal Ku Klux Klan, e ben 27 persone sono
detenute nei penitenziari federali per aver tentato di uccidere gli
avvocati del centro o d'incendiare la sua sede (10). Una sola differenza
rispetto al passato: in questo caso la morale e la legge non tutelano più
questi comportamenti.
4. La rinascita attraverso la violenza
Dopo l'11 settembre 2001 e la distruzione delle Twin Towers di New York era
difficile parlare con un americano, anche liberal, senza che questi non
lasciasse trasparire la rabbia che ottenebrava la sua mente: un miscuglio
di sdegno profondo ma allo stesso tempo una voglia di vendetta. Sopra tutto
emergeva la volontà di rimanere nel proprio brodo e di non uscire dal
dolore collettivo se non dopo un momento rigenerativo: la vendetta appunto.
Una volontà collettiva segnata anche da una stampa embedded che metteva da
parte la consueta ricerca della verità per appoggiare prima una legge
liberticida come il Patriot Act e poi, dopo il bombardamento
dell'Afghanistan alla caccia di Bin Laden, l'occupazione dell'Iraq - con la
scusa delle armi di distruzione di massa che avrebbero potuto nuocere agli
Stati Uniti e che non sono poi mai state ritrovate - ed il continuo e
persistente bombardamento delle sue città e dei sobborghi densamente abitati.
Cosa c'è dunque dietro tutta questa violenza che genera a sua volta
massacri, scelte irresponsabili e fanatismo? La paura dell'altro in primo
luogo, poi l'idea di eccezionalismo messianico e di missione redentrice che
ha sempre accompagnato le fasi espansionistiche americane, e infine la
paura di vedere minacciata la propria supremazia culturale e lo stile di
vita autenticamente americano che pulsa nelle vene dell'America profonda
(11). Ma tutto ciò non può essere solo ricondotto ad una analisi
storiografica o ad una manipolazione ideologica dei mass media, e non basta
dire che i "guerrieri" americani che abitano nei sobborghi hanno subìto un
lavaggio del cervello che li porta a recitare, constatata la difficoltà di
reperire uomini della riserva per la guerra in Iraq, il celebrato motto
italico "armiamoci e partite". Bisogna considerare meglio il trasporto che
conduce queste persone a dimenticare i torti del passato, le questioni
volutamente lasciate irrisolte per intraprendere la strada dell'amnesia
collettiva, per cancellare queste memorie e purificare il passato in nome
della "civiltà".
L'idea che gli uomini siano creature naturalmente razionali e morali senza
bisogno di forti limitazione esterne è saltata con l'esperienza. Rimane
l'amnesia collettiva per questi massacri, la purificazione nella
grandiosità del passato e dei miti fondatori, il rimanere convinti di
essere nel giusto, e che l'estrema violenza subita sia un'aberrazione o il
frutto di menti perverse e non il risultato di una politica della vendetta
perpetrata in modo estremo. Questa, in estrema sintesi, l'idea della
rigenerazione americana attraverso la violenza, ma anche la rigenerazione
del terrorismo stesso che di questi atti violenti si alimenta.
Note
1. Si veda L'impero senza impero, "Limes", 2 (2004).
2. Jacques Heers, I barbareschi. I corsari del Mediterraneo, Salerno
Editrice, Roma, 2003.
3. Cfr. Thomas Jefferson, Viaggio nel Sud della Francia e nel Nord Italia,
Ibis, Como-Pavia, 1997.
4. Marco Sioli, "La guerra di Tripoli del 1805: gli Stati Uniti, i paesi
arabi e le origini del conflitto" in Iperstoria.
5.5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. "Bandiere di guerra e di pace. Riconoscimento ed esclusione nel noi
americano", in "Golem l'Indispensabile", 3 (2004).
8. Benjamin Franklin, Cronaca di un massacro di indiani, Selene, Milano,
1998, p. 31.
9. Alessandra Lorini, Cartoline dall'inferno. Storia e memoria pubblica dei
linciaggi egli Stati Uniti, "Passato e Presente", 55 (2002), p. 121.
10. Marco d'Eramo, Via dal vento. Viaggio nel profondo sud degli Stati
Uniti, Il Manifesto libri, Roma, 2004, p. 84.
11. A proposito della cultura dell'espansione si legga Anders Stephanson,
Destino manifesto. L'espansionismo americano e l'Impero del bene,
Feltrinelli, Milano, 2004.