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Autor: franco coppoli
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Betreff: [Forumumbri] assembleaLEGITTIMA DIFESA movimento popolare di liberazione













Sabato 11 dicembre, Ore 15,30

Hotel Tevere, Ponte S. Giovanni (PG)
Assemblea Costituente Aperta




ricevo ed inoltro

ciao fc
LEGITTIMA DIFESAmovimento popolare di liberazioneBozza di documento fondativo




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Dott. Marcello Teti: 349.8642732







Ci riuniamo ogni lunedì sera alle ore 21,30

a San Sisto (PG) in Via Benedetto Marcello n. 40






















LE Radici Custode di plurisecolari radici cristiane ed egualitarie, l’Umbria diede, a partire dal 1848-49, il proprio contributo alla lotta per rovesciare il potere feudale pontificio. Il passaggio di Garibaldi in Umbria dopo la caduta della Repubblica Romana lasciò un segno solo sulla ristretta élite massonica progressista, mentre il popolo lavoratore non sostenne il “Risorgimento”. Questa passività aveva due cause: la prima fu il carattere annessionistico dell’unità d’Italia (il nuovo Stato unitario, monarchico e antipopolare, portò agli umbri solo ulteriori miserie, privazioni e repressione); la seconda causa consistette nel rifiuto del movimento mazziniano-repubblicano di mobilitare i contadini per ottenere la riforma agraria. Il deciso anticlericalismo mazziniano era la foglia di fico per nascondere il sostanziale asservimento alla classe dominante.Un autentico risveglio dei dominati avverrà più tardi, grazie alla poderosa scossa della Comune di Parigi. L’Umbria, malgrado la
struttura sociale fosse più simile a quella delle depresse e colonizzate regioni meridionali che a quella in via di industrializzazione del Nord, fu tra le prime ad accogliere il messaggio di eguaglianza, fratellanza e libertà degli anarchici collettivisti prima e del nascente movimento socialista poi. All’inizio del ‘900, dopo un lungo periodo di lotte, rivolte e di accanite persecuzioni (la francescana pazienza del popolo umbro, sorella dell’anelito radicato alla fratellanza e alla giustizia sociali, lasciava spesso il passo all’animo ribelle del soldato di ventura), i socialisti erano diventati una forza di massa e organizzavano gli strati più poveri e oppressi della popolazione. Nel Biennio rosso (1919-20), anche grazie ad un ciclo straripante di lotte contadine e operaie (in alcune fabbriche si formarono distaccamenti di Guardie rosse armate), il Partito Socialista era diventato il primo partito della regione. Nel 1921 addirittura un terzo di essi passò al Partito comunista.
Ciò spiega perché la nostra regione fu la terza presa d’assalto dai fascisti dopo l’Emilia e la Toscana. La prima Resistenza al fascismo, sostenuto pienamente dai partiti borghesi, dagli apparati dello Stato e da gran parte della massoneria (che nel frattempo aveva accantonato i suoi ideali democratici), fu accanita, malgrado i cedimenti e la “linea pacificatrice” e imbelle dei locali dirigenti socialisti (spesso anch’essi massonici). Il movimento proletario e contadino, nonostante la sconfitta subita nel “biennio nero” del 1921-22, riusciva a tenere testa al “Blocco Nazionale antibolscevico” (che vedeva tutto il fronte reazionario coalizzato: fascisti, monarchici, clericali, liberali, radicali e riformisti), e venne liquidato solo più tardi, dopo le Leggi eccezionali.

Fu su questo solco che si innestò la seconda Resistenza partigiana. Nel brevissimo periodo dell’occupazione nazista il movimento guerrigliero crebbe velocemente e diede addirittura vita, in Valnerina, alla prima Repubblica partigiana d’Italia.





Il miracolo maledetto



Con la fine della seconda guerra il blocco delle sinistre (PCI e PSI) diventò la prima forza politica della regione. Questo blocco (eccetto un breve intervallo nella seconda metà degli anni ’60, quando il PSI in alcune città si alleò con la Democrazia Cristiana), resterà stabilmente al potere fino ad oggi. Queste sinistre conquistarono una salda egemonia sociale e politica grazie al fatto che rappresentavano non solo gli interessi economici dei contadini e degli operai di contro alle classi dominanti agrarie e industriali, ma pure la loro secolare spinta ideale emancipatrice.

L’inversione dei rapporti di forza tra PCI e PSI, il ruolo dirigente conquistato dai comunisti dopo la seconda guerra, non era l’espressione di un mutamento del blocco sociale. Si trattava infatti dello stesso blocco che, in un quadro internazionale radicalmente mutato, cambiava la sua direzione politica. Il radicalismo rivoluzionario che corrispose a questo cambio fu solo di superficie: il PCI rimpiazzò il PSI alla testa del blocco delle sinistre ma solo in quanto esso adottò l’ orientamento e la pratica riformistici dei socialisti.

Il “miracolo economico”, il tumultuoso balzo economico post-bellico italiano, ebbe in Umbria conseguenze profonde e irreversibili. La mancata riforma agraria, il rifiuto degli agrari a superare la mezzadria, causarono il più grande esodo dalla campagne dopo quello della fine ‘800 inizi ‘900: i mezzadri semplicemente abbandonarono a malincuore terra e casa. Negli anni ’50 e ’60 si ebbe uno spopolamento senza precedenti che degradò colture antiche, danneggiò consolidati equilibri ecologici, distrusse l’architettura e il paesaggio rurali a vantaggio di un disordinato processo di urbanizzazione.

La “regione rossa”, in barba ai discorsi sulla programmazione, non seppe assolutamente orientare e controllare questi mutamenti sociali, teorizzò anzi che quello era il prezzo da pagare alla modernità e al benessere che in effetti crebbe.

I governi di sinistra usarono dunque la spinta emancipatrice e il loro forte consenso sociale per assecondare una bieca modernizzazione capitalistica. Amministrarono la cosa pubblica cercando di abolire le più vistose povertà, trasferendo quote crescenti di ricchezza a vantaggio dei lavoratori dipendenti, cosa che in effetti portò ad un allargamento dei consensi e ad una ininterrotta stabilità politica. Gli ideali anticapitalisti erano ancora forti, ma vennero gettati sullo sfondo: alla gallina socialista si preferì l’uovo del benessere immediato, dell’uscita dalla miseria, dello sviluppo e dell’accesso alla “società dei consumi”.

In questo periodo la sola voce fuori dal coro fu l’eresia capitiniana. Raccogliendo antiche radici etiche socialistiche e francescane, Capitini fece della nostra regione il centro propulsivo del movimento per la pace, sottolineando il suo valore universalistico antimperialista e libertario.



La Metamorfosi degli anni ‘80



Il decennio apertosi col 1968, con la fiammata operaia del 1969, toccò anche la nostra regione. I settori di punta della classe operaia umbra, a partire dalla Perugina, seguendo l’esempio torinese, abbracciarono per primi il Movimento dei Consigli, mentre a Foligno nacque addirittura, alle Officine G.R. uno dei primi Comitati Unitari di Base. Degna di nota la violenta rivolta popolare antifascista del 1970 che scosse proprio questa città. Come notevole fu l’iniziativa dei movimenti studenteschi e della “sinistra extraparlamentare, soprattutto a Perugia, Foligno e Spoleto.

Ma quel decennio si chiuse lasciando sostanzialmente intatta la rappresentanza politica del proteiforme blocco sociale egemonizzato dalla sinistra tradizionale. La spinta antagonistica restò minoritaria e venne così facilmente riassorbita dal blocco delle sinistre moderate.

Passata la bufera dei Settanta, nel quadro di una tendenza nazionale, il lento processo di adattamento del blocco riformista umbro al sistema capitalistico conosce una fatale accelerazione. Essendo ormai da tre decenni abituati a governare in modo consociativo, i partiti della sinistra conoscono una defintiva metamorfosi. Essi erano già da tempo parte integrante del sistema capitalistico, tuttavia il loro personale politico, attraverso un articolato sistema nervoso, continuava a dipendere dal movimento operaio e contadino e a rappresentarne gli interessi. Con gli anni ’80 le sinistre passano definitivamente il Rubicone e diventano strumenti politici delle consorterie capitalistiche. Inizialmente di quelle massoniche (a partire da Perugia, il vero focoloaio della massoneria regionale) successivamente, con la scomparsa della Democrazia Cristiana, del grosso della borghesia locale.

Questa metamorfosi, il passaggio definitivo nel campo del capitalismo, avviene dentro un nuovo profondo mutamento della economia della nostra regione. Dopo il collasso dell’agricoltura degli anni ’60 assistiamo ora a quello dell’industria. Gli impianti industriali, dopo cure dimagranti radicali e col beneplacito del governo regionale, vengono dismessi o ceduti alle multinazionali (a cominciare dalla Perugina e dalla siderugia e chimica Ternane). Il settore industriale residuo subisce poi un processo di polverizzazione, da cui sorgono micro officine che lavorano solo su commessa di quelle più grandi, quasi tutte con la testa fuori dal territorio regionale.

Come negli anni ’60 la “regione rossa” consentì al Dio della modernizzazione di divorare l’agricoltura, negli anni ’80 essa permette al medesimo Dio di sbranare l’industria

Il terziario diventa così il primo settore economico per numero di addetti. Ma si tratta di un terziario sostanzialmente improduttivo, quello della pubblica amministrazione. E’ esso che ricicla e riassorbe la gran parte degli operai espulsi dalle fabbriche e la buona parte dei giovani usciti dalle scuole. Cresce anche il terziario produttivo, anzitutto nella grande distribuzione, non solo a spese del piccolo commercio al dettaglio ma dei suoi addetti, che sperimentano sulla loro pelle il disprezzo liberista per i diritti umani e sindacali. Le Cooperative “di sinistra”, favorite dal sistema clientelare, sono all’avanguardia nell’adottare sistemi disumani di sfruttamento, senza dimenticare che proprio esse si fanno portarici del modello sociale americano che fa dei grandi centri commerciali le moderne agorà urbane.



Il canto del cigno



Va sottolineato come la metamarfosi della sinistra (non solo quella tradizionale dato che sul carro della cosiddetta “modernizzazione” salgono come neofiti, e in posizione dirigente, la gran parte dei “rivoluzionari” di spicco degli anni ’70), avviene in simbiosi con quella della sua base sociale. Il generale miglioramento della qualità della vita, che va di pari passo al processo di de-operaizzazione o cetomedizzazione, spinge gran parte dei lavoratori ad adattarsi alla corrente dominante, ovvero all’integrazione sociale. I diritti conquistati con le lotte e grazie alle politiche sociali riformiste della sinistra di governo, diventano presto privilegi. Questo assaggio ha un effetto devastante nella mentalità della gran parte dei lavoratori: la loro memoria scema, gli antichi ideali di fratellanza e eguaglianza sociale evaporano, l’antagonismo passa il testimone al consociativismo e al desiderio di ascesa e integrazione sociale.

Alcune importanti battaglie segnano tuttavia il ventennio 1980-2000 (a Terni contro le ristrutturazioni del comparto siderugico, nel Perugino in quello tessile, alimentare e metalmeccannico; le lotte per la difesa della scala mobile nel 1984, contro le finanziarie di lacrime e sangue dei primi anni ’90 —nel cui contesto si ebbero clamorose contestazioni ai vertici sindacali) ma esse erano il canto del cigno del vecchio movimento operaio. Le lotte proletarie vennero ammansite da sindacati che hanno addirittura anticipato i partiti di sinistra nella loro adesione alla religione del mercato e della centralità dell’azienda. Dopo la svolta dell’EUR della CGIL questa fa dell’Umbria, soprattutto del ternano, un laboratorio per applicare la sua politica generale di concertazione coi padroni, politica che nelle singole aziende diventa puro e semplice corporativismo.



I pericoli professionali del potere



I dirigenti e i quadri della sinistra, spesso di umili origini o ex-rivoluzionari, sono oramai diventati tutti amministratori. Attraverso mille tentacoli corruttivi questi dirigenti si sono legati mani e piedi alle consorterie capitaliste, sono entrati direttamente a far parte, se non della massoneria (la vera cupola occulta in cui si prendono le decisioni politiche più importanti), della classe dominante. Lontani sono i tempi in cui per diventare capi popolari occorreva mostrare nella lotta certe qualità, tra cui solidi principi ideali, l’onestà, il coraggio, l’umiltà, lo spirito di sacrificio. Questo processo degenerativo afferra anche il fior fiore dei sindacalisti. Grazie alla liquidazione dei consigli di fabbrica, all’adozione di sistemi di delega blindati e all’abuso dei “distacchi sindacali”, essi non solo cessano di essere lavoratori produttivi, ma si comportano come veri e propri caporali del padrone.

Nei partiti e nei sindacati sgomita e si fa largo un tipo umano nuovo: l’arrivista senza scrupoli e senza principi che usa l’incarico politico e sindacale per arricchirsi, e quello amministrativo per arraffare quanto più è possibile. Negli anni ’80 e ’90 si consolida una vera e propria camorra politica: il sistema di governo che si è venuto consolidando è infatti una versione elegante di quelli democristiani nel meridione.

La baracca della sinistra non si tiene più in piedi grazie al legame sincero col popolo, alla spinta dal basso alla partecipazione, ma in virtù dell’uso burocratico delle risorse pubbliche: di qui il paternalismo, la corruzione, il clientelismo, la malversazione.

Essendo la torta del danaro pubblico quella più grossa, essa viene spartita in base al criterio nepotistico della appartenenza alla cosca dominante —politica, banche, industria, sindacati, cultura e chiesa. Prebende, posti, commesse, appalti e prestiti vengono elargiti solo a coloro i quali fanno parte della consorteria. I pochi che non godono di “entrature politiche” sono tagliati fuori dalla spartizione. Qui non parliamo solo di una ristretta minoranza: questa piovra clientelare è tentacolare e imbriglia anche buone parte della povera gente che in cuor suo è schifata ma che deve tacere se non vuole patire l’esclusione e precipitare ai margini della cosiddetta “società civile”.

E’ solo perché la Giustizia è controllata dalla massoneria e quindi incastrata nel sistema di potere, se in Umbria non abbiamo avuto l’equivalente di “mani pulite”. Ma tutti sanno che l’Umbria è una piccola “Tangentopoli”.



DAL riformismo AL Trasformismo



Il fatto che il sistema politico incarnato dalle sinistre è basato sulla malversazione e la corruzione pianificata e capillare determina una vera e propria degenerazione oligarchica del potere medesimo.

La nuova destra berlusconiana non ha mai sfondato perché è stata battuta in anticipo sul suo stesso terreno. Dietro alle urla di circostanza essa è comodamente dentro questo regime oligarchico-bipolare, contribuisce a sorreggerlo agitandosi solo per una più vantaggiosa spartizione parassitaria della torta di cui sopra.

La sinistra mantiene poi il potere anche grazie ad un’effettiva egemonia culturale. Se la trasformazione in ceto politico capitalista è avvenuta in simbiosi con la cetomedizzazione di gran parte della sua base sociale tradizionale, essa mantiene la sua presa ideologica grazie al fatto che proprio la sinistra si è fatta portatrice dei valori ideali del liberismo, dell’americanismo, della normalizzazione, dell’egoismo e dell’arrivismo sociali. L’ha dovuto fare in maniera astuta, pragmaticamente, ovvero nascondendo queste porcherie con la formale difesa di valori intramontabili come solidarietà, libertà e giustizia —dato che i valori egualitari e la memoria delle lotte d’emancipazione, pur eclissati, hanno ancora un certo peso.

Resta il fatto che impercettibilmente la sinistra è passata dal riformismo al trasformismo, facendosi cioè essa portatrice di una politica e di una cultura di destra. Occorre sottolineare che se questa metamorfosi è avvenuta senza rotture di rilievo tra la base popolare e i suoi rappresentanti è anche perché Rifondazione Comunista ha agito come sfiatatoio, salvagente e puntello della consorteria trasformista. Rifondazione ha infatti rappresentato il sentimento popolare di rigetto del trasformismo e della nuova destra ex-sinistra, ma per farne mercimonio, mettendo la forza così acquisita a disposizione del sistema oligarchico, funzionando come diga per impedire che quel rigetto andasse “fuori controllo”. Si spiega dunque come mai il gruppo dirigente di Rifondazione, pur di consolidare la sua fetta di potere, appaia come l’ala dura del sistema quando si tratta di contrastare il dissenso sociale organizzato e antagonistico: vedi l’ostilità accanita verso il movimento antimperialista,
verso i promotori del recente referendum regionale e nei confronti del movimento studentesco anticapitalista perugino —incancellabile la decisione dei vertici di Rifondazione, a fronte di una generale solidarietà, di non esprimere alcuna protesta contro i clamorosi e ingiusti arresti degli antimperialisti umbri del primo aprile 2004.



INFINE IL Parassitismo



Sul piano politico amministrativo complessivo la sinistra di potere ha quindi conosciuto due grandi e ben distinti cicli.

Dopo la guerra fino a metà anni ’70 ha navigato col vento in poppa del “boom” sviluppista, del “progresso” e dell’industrializzazione. Successivamente abbracciando le tesi pos-industrialiste e globalizzatrici. Mai ha avanzato un proprio progetto di trasformazione sociale o un diverso modello di sviluppo, sempre accettando le direttive che venivano dal grande capitalismo, nazionale e internazionale.

Se il primo ciclo è stato segnato da un mediocre e soporifero riformismo sociale, il secondo, segnato dal trasformismo, ha proposto solo una variante del liberismo imperante. La sinistra ha non solo avallato ma voluto l’aziendalizzazione degli enti pubblici, le privatizzazioni, le esternalizzazioni, i tagli alla spesa sociale in base al criterio dell’efficientismo capitalistico, della sacralità della competizione e delle leggi di mercato, mentre non ha fatto niente per arrestare il degrado del nostro bene più prezioso: l’ambiente storico-naturale.

Quando avanzava l’industrializzazione la sinistra ha accettato di mettere in ginocchio l’agricoltura e promosso un processo di urbanizzazione scriteriata —causando non solo lo spopolamento delle campagne ma pure dei nostri rinomati centri storici, favorendo la nascita di periferie dormitorio ghettizzanti e dando in pasto le città alla speculazione che ha nutrito nuovi strati di affaristi senza scrupoli.

Successivamente l’affare sono diventate le aziendalizzazioni, le esternalizzazioni e le privatizzazioni, le quali hanno ingrassato o il sistema delle cooperative di sinistra o famiglie borghesi rampanti che grazie alla sinistra sono entrare a loro volta nel circuito consortile-camorrista dominante.

La sola costante di questa politica è stata la crescita elefantiaca dell’amministrazione pubblica (Regione in primo luogo), diventata allo contempo il principale serbatorio di occupati (e di voti clientelari per la sinistra) e un vero pozzo di San Patrizio in cui vengono sperperate le risorse pubbliche —mentre tutti i settori pubblici davvero utili socialmente subiscono tagli anche drastici.

I trasformisti usano lo spauracchio del berlusconismo, ma esso è solo alibi per nascondere che essi ne sono solo una copia. E’ sotto gli occhi di chi vuole vedere la realtà che questa cricca di politicanti sono dei parassiti sociali, spesso incompetenti, addirittura più arroganti, boriosi e decisionisti dei loro compari della vecchia destra.

La prova lampante del carattere oligarchico di questo regime trasformista è la sua adesione al bonapartismo. Lasciatesi alle spalle le storiche e genuine tradizioni democratiche e repubblicane i governanti, con Rifondazione a fare da palo, hanno scippato cinicamente la delega elettorale dei loro rappresentati, hanno adottato norme istituzionali e amministrative dirigistiche e smaccatamente autoritarie e neomonarchiche. Clamoroso è il caso del recente Statuto regionale, che adotta un presidenzialismo forte che fa invidia ai post-fascisti (non a caso votato anche da loro con la opposizione di facciata dei dirigenti poltronisti di Rifondazione che si guarda bene dall’uscire dal governo).

In questa cornice si spiegano i recenti tentativi, attuati in totale connubio con le forze di polizia dello Stato, di proibire il centro storico “vetrinetta per bene” di Perugia alle manifestazioni antagoniste (in occasione di una manifestazione si solidarietà con il popolo iracheno sono giunti addirittura a convocare d’urgenza il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica).

Di tutto questo la pubblica opinione difficilmente si avvede, dato che il controllo sui mezzi di comunicazione di massa da parte della conosrteria politica-industriale-bancaria è strettissimo e solo con azioni clamorose il dissenso ha diritto di parola.



Terzo ciclo, CICLO DI CRISI



Questo sistema di potere parassitario ha però imboccato la via del declino: per questo diciamo che diventa finalmente possibile colpirlo e parliamo di “terzo ciclo”. Una è la causa primaria di questa crisi senza precedenti: per i suoi costi esso è diventato d’impaccio ad un capitalismo volto alla selvaggia competizione mondiale, e dunque costretto non solo a spremere come limoni i lavoratori ma a tagliare drasticamente i costi della pubblica ammistrazione e dei servizi pubblici allo scopo di drenare risorse a vantaggio del capitale. Ciò priva i trasformisti di un pezzo forte della loro politica “realista”, quello della necessaria alleanza con la “borghesia illuminata”, che è illuminata solo quando deve difendere i propri interessi a scapito della comunità regionale.

D’altra parte la nuova destra (ex-sinistra) conosce un lento sfaldamento della sua base sociale e non riesce più a tenere al guinzaglio i cittadini. I primi sintomi furono l’imprevista affermazione di liste dei cacciatori agli inizi degli ani ’90, poi la clamorosa vittoria delle destre capeggiate da Ciaurro a Terni nel 1993, più recentemente la proliferazione di liste civiche in comuni grandi e piccoli e l’ingente travaso di voti verso l’alleanza berlusconiana.

Alla base di questo scollamento con la propria base c’è appunto la crisi irreversibile di un “modello di sviluppo” basato sulla spesa pubblica clientelare. La coperta della spesa pubblica è sempre più corta, vanno lentamente crescendo gli strati sociali che, eslcusi dal circuito della prosperità economica, non possono più fare affidamento nel paracadute delle prebende e delle elergizioni assistenziali. E’ un processo lento, iniziato negli anni ’90, ma difficilmente reversibile, poiché si iscrive nel declino economico italiano ed europeo.

Se un quinto della popolazione della nostra regione vive già sotto la soglia di povertà, anche quegli strati di lavoro dipendente che avevano ottenuto sostanziali vantaggi negli ultimi decenni, iniziano a fare fatica a stare dietro al crescente costo della vita, ai mutui bancari, all’indebitamento. Il salvagente della famiglia plurireddito è sgonfio. I giovani salariati vittime di una precarizzazione senza precedenti (quelli che lavorano nelle fabbriche e nelle Cooperative “di sinistra” conoscono ormai uno sfruttamento stile anni ’50), pur ammaliati e intontiti dalla martellante e pervasiva campagna ideologica di regime, cominciano a dare segni di malumore e irrequietezza —così vanno intepretati i piccoli ma seri sussulti giovanili recenti non a caso animati da alcuni collettivi che non vogliono averere nulla a che fare col potere oligarchico.

L’animo umbro di dignitosa sopportazione e l’assenza di un’avanguardia popolare ben organizzata, sono due dei fattori che spiegano perché ancora non si manifesti la collera popolare. Essa si consolida sottotraccia, la pazienza non deve essere intesa come fatalistica rassegnazione. L’esperienza dimostra che non è nell’animo del nostro popolo rassegnarsi oltre un certo limite, anche se non siamo ancora giunti al livello oltre il quale c’è la rottura.

Le insubordinazioni e le proteste che qua e la emergono, indicano non solo l’inesorabile sfaldamento del blocco sociale del regime nostrano, dicono che un periodo storico (quello che iniziò nel secolo scorso e che cosentì alla sinistra di rappresentare l’anelito al’emacipazione degli oppressi) si va chiudendo e uno nuovo se ne apre. Questo nuovo periodo libera nuove forze sociali dal cappio delle forze sistemiche le quali, ormai corrotte, degenerate e infrollite, difficilmente sapranno rappresentare le istanze di giustizia e riscatto sociale e morale che lentamente avanzano. Cresce tra i cittadini, parallelamente alla sfiducia nel ceto politico, la voglia di autorganizzazione.

Consapevoli di questa crisi i trasformisti si sono asserragliati nella loro fortezza di Palazzo Cesaroni. Con il nuovo Statuto regionale il regime considera questo Palazzo come il suo proprio feudo, e così facendo aumenta la sua separazione dal popolo che sta fuori le mura e non ha alcun modo per decidere e governare come democrazia vorrebbe.





Il futuro



Compito nostro è quello di organizzare “l’assalto” popolare e democratico al castello in cui si è asseragliata la cosca dei parassiti. Per farlo non basta fare eco al malcontento. Occorre rappresentare politicamente le istanze morali e ideali alla emancipazione e alla autentica giustizia sociale, istanze che non sono tramontate ma solo eclissate e che risorgeranno potenti portate in spalla anzitutto dai settori sociali esclusi e marginalizzati dal sistema medesimo. Bisogna agire adesso perché l’inizio di questo terzo ciclo di crisi, segnato dallo sfaldamento del tradizionale blocco di potere, si sposa con la chiusura definitiva di un intero periodo storico: il fatto che la sinistra di governo, strappando le proprie radici, è diventata una “nuova destra” e non incarna più la spinta emancipativa di chi sta in basso.

Si aprono dunque grandi spazi. Se non saremo noi ad occuparli altri lo faranno al posto nostro, magari i rottami riciclati del trasformismo o, addirittura, un populismo reazionario.

Non è utile piangersi addosso per la nostra debolezza. E’ vero, siamo poche decine, siamo solo un’avanguardia senza masse alle nostre spalle. Ma siamo i soli determinati e minimamente attrezzati ad andare incontro a questo nuovo periodo sociale e politico. Vale ricordare, ad esempio, che durante il biennio rosso, mentre i socialisti erano una potente forza popolare, gli iscritti al partito erano poco più di un migliaio. Non sta scritto da nessuna parte che si ripeta la storia del “partito di massa” del PCI del secondo dopoguerra. E’ vero che i socialisti avevano una rete più o meno capilare di organismi sociali (camere del lavoro, mutue, case del popolo, sindacati, leghe), ma questa rete venne costruita in decenni e solo dopo una battaglia tenace e plurigenerazionale di piccoli manipoli di coraggiosi.

Non siamo nel 1919-20, né nel nel 1945. Siamo agli albori di una rinascita che darà i suoi frutti nel lungo periodo. Tra questi frutti ci sarà senza dubbio l’inevitabile autorganizzazione popolare. Ma anche qui occorre precorrere i tempi, non stare a guardare, gettare i primi semi.


Movimento e Organizzazione


Il nostro Movimento non si limita a raccogliere e preservare con orgoglio le tradizioni storiche egualitarie e socialiste del nostro popolo. Esso si pone il compito di risvegliare questi sentimenti eclissati, per riportare alla ribalta il protagonismo popolare.

Non nascondiamo dunque i nostri ideali socialisti. Nel nostro orizzonte c’è un socialismo democratico e libertario che implica voltare pagina rispetto al capitalismo liberista. Tutte le ricerce su una “terza via” non hanno condotto a nulla se non a legittimare la degenerazione trasformista della sinistra. Per quanto oggi possa apparire inattuale un socialismo ragionevole è l’unica alternativa sistemica possibile ad un capitalismo irrazionale.

Il nostro Movimento sarà certo una scuola e un luogo per discutere di grandi prospettive storiche, tuttavia il futuro lontano dipende da quello prossimo.

Chiaro l’obbiettivo strategico che ci lega assieme, chiaro quello vicino di dare voce e rappresentanza alle istanze popolari di giustizia ed emancipazione, assieme stabiliremo le tattiche e i mezzi che dovremo darci per andare avanti. Il regime bipolare tenterà in ogni maniera di far fallire la nostra iniziativa. I suoi mezzi sono potenti. Non commetteremo l’errore di sfidarlo subito in campo aperto, coi metodi della lotta frontale — terreno su cui il sistema avrebbe oggi facile gioco. Ci atterremo alle leggi costituzionali italiane (a maggior ragione in un contesto in cui lo stesso Parlamento e le amministrazioni locali legiferano spesso violandone il dettato) che, per quanto ampiamente svuotate, ci assicurano, se non altro sul piano giuridico-formale, il pieno diritto di batterci per le nostre idee. La democrazia, che assicura libertà non solo di pensiero, ma di parola, di stampa, di manifestazione, è un terreno di sfida quanto mai truccato e svantaggioso (poiché la libertà e di
diritti sostanziali ci sono solo per chi ha potentissimi mezzi economici), ma noi non possiamo che accettarlo, dedicando la nostra attenzione alla ricerca dei mezzi adeguati per ottenere il consenso più ampio, consenso senza il quale la nostra lotta si spegnerebbe presto.

Pur se in forme diverse ci troviamo come i socialisti alla fine dell’ottocento e agli inizi del novecento, contro i quali si accaniva la repressione sistemica e la persecuzione monarco-liberale. Il movimento operaio era nel suo animo, pacifico, ma per strappare i diritti dovette ingaggiare una dura lotta, fatta anche di disobbedienza civile, di battaglie di strada e di vere e proprie rivolte. Fu grazie a queste battaglie che venne poi il consenso popolare ed elettorale.

In una società dominata dai mezzi di comunicazione di massa, caratterizzata dal monopolio di questi mezzi da parte dei potenti, la nostra battaglia appare persa in partenza. Non è così. Anche in società blindate come quella attuale idee forti possono farsi strada se esprimono i sentimenti e la volontà di ampi strati della popolazione. Noi non stiamo inventando un bisogno, stiamo dando voce ad un’esigenza, dignità politica ad un sentimento, diritto di parola a coloro a cui viene negata.

La nostra impresa implica dunque, anzitutto, la nostra capacità di comunicare in maniera adeguata, cioè di esprimere in maniera quanto mai semplice, secca e convincente le idee di cui siamo portatori. Il nostro Movimento, Legittima Difesa, è due cose in una: una leva per la mobilitazione più ampia, ma anche scuola e luogo di riflessione culturale e politica, e per questo servono degli intellettuali coraggiosi che sappiano rifiutare le effimere lusinghe del sistema. Noi vogliamo anzitutto unire le migliori intelligenze di questa regione, poiché senza di esse mai potremo smuovere grandi masse a dare loro una speranza.

Il nuovo cammino che ci accingiamo ad intraprendere implica perciò una serie di tappe. La prima di queste è fondare Legittima Difesa. Solo se poi guadagneremo una sufficiente massa critica potremo passare alla seconda tappa, quella di ottenere il più ampio consenso portando l’attacco popolare alla fortezza in cui si è rinchiuso il potere.





francoppoli
                
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