Autore: Andrea Agostini Data: Oggetto: [NuovoLaboratorio] la lunga sfida della pace
da lastampa.it
Lunedi' 22 Novembre
La lunga sfida della pace
di Enzo Bianchi
In questi giorni in cui siamo colpiti dal silenzio assordante che ha
investito i media nazionali riguardo alla guerra in atto in Iraq, alla sua
perdurante illegalità internazionale, alle sempre più numerose vittime
civili, alle oscure prospettive di degenerazione in catastrofe umanitaria,
giorni in cui si è fatta più flebile anche la voce che con forza risuonava
solo lo scorso anno in tanti ambienti definiti «pacifisti», non è mero
esercizio retorico l'esaminare il cammino compiuto dall'insegnamento dei
pontefici degli ultimi cinquant'anni sulla problematica della guerra e della
pace.
Non possiamo dimenticare la svolta epocale rappresentata in merito
dall'enciclica Pacem in terris, pubblicata nell'aprile 1963. In essa papa
Giovanni XXIII, appena due mesi prima di morire, prende radicalmente le
distanze dal sistema di deterrenza e sostiene la necessità di un disarmo
simultaneo e reciproco e della messa al bando delle armi nucleari, per
pervenire a un disarmo integrale anche degli spiriti «in modo che al
criterio della pace reggentesi sull'equilibrio degli armamenti si
sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella
reciproca fiducia».
Con l'enciclica il Papa giunge a ritenere ormai impraticabile ogni
legittimazione, nell'era nucleare, della guerra anche qualora vi fossero le
tradizionali motivazioni per considerarla giusta. È quella «coscienza
atomica» che Bobbio si attendeva sarebbe sorta come patrimonio dell'umanità:
la consapevolezza che la disponibilità di un'arma radicalmente nuova come
l'atomica avrebbe sgretolato il supporto giuridico, filosofico e teologico
capace di giustificare una qualsiasi guerra. La traduzione letterale del
passaggio chiave dell'enciclica recita così: «in questa nostra età, che si
gloria della forza atomica, è alieno dalla ragione pensare che la guerra sia
atta a riparare i diritti violati».Il «papa buono» opera un rifiuto
categorico della guerra e di fatto toglie ogni possibilità di legittimare
una guerra definendola giusta. Lo colse con lapidaria concisione il teologo
Yves Congar, che così commentò: «La stagione della guerra giusta è terminata
nella teologia cattolica».
Con Giovanni Paolo II il quadro teologico conosce da un lato una ripresa e
una conferma di alcune acquisizioni e, d'altro lato, una nuova, vigorosa
accelerazione. Tutti gli interventi del magistero papale del Novecento, da
Benedetto XV a Pio XII, sono costantemente citati negli interventi di questo
Papa che ha vissuto sulla propria pelle la tragica esperienza del secondo
conflitto mondiale. È in questa continuità che Giovanni Paolo II cita a più
riprese il versetto di Isaia 32,17 «Opus iustitiae, pax» che era già il
motto episcopale di Pio XII: «opera della giustizia sarà la pace», versetto
con il quale il Papa afferma con forza che la pace equivale allo stabilire
nel mondo un ordine fondato sulla giustizia e il pieno rispetto dei diritti
umani. E proprio perché la pace può nascere solo dalla giustizia, Giovanni
Paolo II arriverà a dire che «ci sono dei casi in cui la lotta armata è un
male inevitabile a cui, in circostanze tragiche, non possono sottrarsi
neanche i cristiani» (Vienna, 22 giugno 1983). Oppure nel messaggio per la
giornata della pace 1984: «è il senso della realtà al servizio fondamentale
della giustizia che impone il mantenimento del principio della legittima
difesa».
È in questa prospettiva che la Santa Sede ha mantenuto la dottrina della
guerra giusta nel Catechismo della Chiesa Cattolica voluto da Giovanni Paolo
II nel 1992 e che negli anni Ottanta ha declinato questa teoria della guerra
giusta come dovere e «diritto di ingerenza» per disarmare quelli che non
rispettano la giustizia e i diritti di un popolo. Anche il Messaggio per la
Giornata della pace del 1° gennaio 2000 è legato al concetto di guerra
giusta: «quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi
di un ingiusto oppressore, è legittimo e perfino doveroso impegnarsi in
iniziative concrete volte a disarmare l'aggressore. Queste, però, devono
essere: a) circoscritte nel tempo; b) precise negli obiettivi; c) condotte
nel pieno rispetto del diritto internazionale; d) garantite da autorità
sovranazionali riconosciute; e) mai lasciate alla mera logica delle armi».
Siamo in piena continuità con il magistero dei Papi del Novecento. Eppure,
negli stessi anni si comincia a intravedere nella riflessione di Giovanni
Paolo II un percorso diverso, maggiormente in sintonia con le intuizioni
della Pacem in terris. Nel 1991, in occasione della prima guerra nel Golfo,
il Papa prende posizione contro la legittimazione religiosa della guerra
dicendo che «è assurda una guerra condotta in nome di Dio», mentre nel 1995
arriverà a dire che «anche la crociata medievale per la difesa dei luoghi
santi è dissonante dal Vangelo»: si stava preparando la famosa «liturgia del
perdono» che caratterizzerà il Giubileo del 2000. In Giovanni Paolo II vi è,
soprattutto a partire dal primo incontro delle religioni ad Assisi (1986),
una ferma volontà di togliere ogni legittimità a guerre di religione e
scontri di civiltà.
L'altra novità, ancor più dirompente, è quella contenuta nel messaggio per
la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002, certamente l'apice
teologico del pensiero sulla pace del Papa attuale. È il messaggio che
giunge all'indomani della data spartiacque dell'11 settembre che ha
provocato un ripensamento della stessa concezione del termine «guerra» e che
ha in un colpo solo messo a nudo l'impotenza delle tradizionali vie di
composizione diplomatica o istituzionale delle crisi internazionali o
intranazionali. Ebbene, in quel documento Giovanni Paolo II si spinge ben
oltre la convinzione che «opera della giustizia è la pace»: egli infatti non
solo ribadisce che quando la giustizia è violata e ferita deve essere
ristabilita affinché possa farsi strada la pace, ma afferma che nella
giustizia da cui dipende la pace, nella giustizia che è fondamento della
pace, deve essere inscritto il principio del perdono.
È una novità assoluta, e il Papa è consapevole dell'audacia di quanto
afferma, soprattutto in considerazione del momento storico e delle
circostanze particolari in cui lo afferma. Anche perché non si tratta del
consueto invito all'esercizio di una virtù personale, «eroica» finché si
vuole, ma di una via proposta con forza all'intero consesso civile: «Solo
nella misura in cui si affermano un'etica e una cultura del perdono, si può
anche sperare in una politica del perdono, espressa in atteggiamenti sociali
e istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto più
umano». Etica, cultura, politica, atteggiamenti sociali, istituti giuridici:
è la risposta globale alla nuova tipologia di guerra creatasi con il
terrorismo internazionale. Quella del perdono perseguito come strumento
efficace di pace è, mi pare, la nuova frontiera del «pacifismo
istituzionale»: non solo, per usare le efficaci definizioni di Bobbio,
quello «giuridico, ovvero la pace attraverso il diritto», non solo quello
«sociale» nelle due diverse accezioni di conseguenza della rivoluzione
sociale e di eliminazione delle ingiustizie sociali, bensì il perseguimento
ostinato e dotato di strumenti concreti del perdono «a livello sociale», di
polis. «La convinzione a cui sono venuto ragionando e confrontandomi con la
rivelazione biblica - scrive il Papa, con rara partecipazione anche
emotiva - è che non si ristabilisce l'ordine infranto se non coniugando tra
loro giustizia e perdono. La giustizia non è sufficiente per la pace e il
perdono è immanente alla giustizia. Non c'è pace senza giustizia, non c'è
giustizia senza perdono!».
Mi pare che qui si apra lo spazio a un confronto serrato e nel contempo ad
ampissimo raggio: tutti ci dovremmo sentire coinvolti in questa sfida. Non
la guerra globale, non lo scontro di civiltà, ma lo sforzo tenace di tutti
gli uomini e le donne di buona volontà è necessario oggi all'umanità. Il
cammino è lungo e arduo, abbiamo qua e là mosso appena i primi passi, ma è
indispensabile il contributo e la ricerca delle migliori menti e dei
migliori cuori di tutte le discipline: non solo teologi e maestri delle
diverse confessioni cristiane e delle religioni, ma antropologi e sociologi,
filosofi e giuristi, teorici e testimoni attivi della non-violenza,
assemblee parlamentari e istituzioni nazionali e sopranazionali... È in
gioco, ancora una volta, la scelta tra ciò che è «alieno dalla ragione», la
guerra, e ciò che risponde alle attese dei cuori di tutti gli uomini e le
donne, la pace!