PRECARI
IL `77 che non c'è
BENEDETTO VECCHI
Dopo la giornata di sabato nei media e nelle stanze della politica istituzionale si aggira un fantasma, l'esproprio proletario. E giù titoli e commenti sul ritorno del movimento del '77. Mai, però, questa linea di continuità tra l'assalto al ristorante Cantunzein di Bologna e le azioni dirette del 6 novembre è stata più artificiale come in questa occasione. In primo luogo, perché diversi sono gli obiettivi e la forme di lotta che separano il presente dal passato. Chi nel Settantasette compiva espropri proletari lo faceva a volto coperto, riteneva che la crisi economica alla metà degli anni Settanta - allora l'inflazione era a due cifre, l'industria conosceva una profonda ristrutturazione, facendo così balzare al dieci per cento la disoccupazione - negava a un soggetto sociale qualsiasi possibilità di accesso sia al mercato del lavoro che al consumo. I «non garantiti» entravano così nei supermercati per «prendersi la merce» negata. Oggi, la parola d'ordine è «reddito per tutti», con un'accentuazione sul «per tutti», perché la precarietà non viene considerata una prerogativa di una minoranza, ma una condizione generalizzata per gran parte della realtà sociale italiana. Ed è per questo motivo che le azioni sono state compiute prevalentemente a volto scoperto. E se questa è la prima differenza che si coglie tra il Settantasette e il presente, ce ne sono di altre e altrettanto significative.
In questi trent'anni l'Italia è cambiata e profondamente. Oggi chi entra nel mercato del lavoro sa benissimo che il tempo indeterminato è un miraggio nel deserto dilagante del lavoro «atipico». Nessuno ne è immune, neanche i santuari del lavoro industriale e dei servizi. E un miraggio sono anche i diritti sociali di cittadinanza di cittadinanza che hanno costituito, nel bene e nel male, l'orizzonte dell'azione sindacale e politica del movimento operaio europeo. Lo shop surfing di sabato scorso proponeva questo ordine del discorso e non altro.
E' auspicabile una presa di parola della galassia che ha manifestato a Roma per dare la sua «versione dei fatti» e rinviare così al mittente i paralleli con il Settantasette. Ne trarrebbe giovamento la discussione pubblica nel nostro paese, segnata, e inquinata, da un'attitudine dominante a leggere e giudicare un movimento sociale attraverso le lenti deformanti di quanto accaduto due generazioni fa. Perché così facendo si censurano dei comportamenti, per negare il problema.
Sono mesi, se non anni che gruppi eterogenei di precari si mobilitano attorno a ciò che caratterizza la loro vita quotidiana. Molti di loro sono stati e sono attivisti anche del «movimento dei movimenti». E tuttavia hanno maturato una distanza critica rispetto a quelle mobilitazioni, perché ritenute incapaci di modificare la loro vita quotidiana. Con realismo, hanno inoltre constatato che attorno a una precisa condizione lavorativa, sociale e esistenziale le risposte, o non c'erano o erano di apologia o di amministrazione mitigata dell'esistente. Da qui il disincanto verso tutto il centrosinistra allargato a Rifondazione comunista. Può sembrare poco, ma nell'Italia di oggi la presenza di un ancor esile movimento sulla precarietà è una novità politica e sociale che merita attenzione. Anteporre alla comprensione i «fantasmi del passato», o i rituali richiami al bon ton su come si manifesta o il refrain che la spesa sociale nuoce «alla causa» è infatti la negazione del problema e non la sua soluzione.
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Alex Foti, foreign rights editor
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