[NuovoLaboratorio] Tulkarem 26 agosto

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Autor: Elisabetta Filippi
Data:  
Temat: [NuovoLaboratorio] Tulkarem 26 agosto
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Elisabetta




Tulkarem, 26 agosto 2004

Tutti i giorni, da circa sette giorni, è un rito nel piccolo terreno di
fronte alla Croce Rossa Internazionale.
Prima arrivano gli uomini, puliscono un poco, mettono a posto le sedie,
controllano che i chiodi piantati nel muro della casa contigua al terreno
siano sicuri. Dovranno sopportare un peso maggiore e non devono fallire.
Subito dopo arrivano le donne con i bambini. Ognuna porta con sé una
fotografia incorniciata, alle volte ne porta due, tre o più. Sono fotografie
di diverse misure, alcune più vecchie altre più recenti.
Sono fotografie di giovani, uomini e donne, tutti senza età, riconoscibili
solo per il numero di anni che sono stati loro assegnati da trascorrere
nelle carceri israeliane.
Sono le fotografie dei giovani ribelli palestinesi detenuti nelle carceri
israeliane da tempo definito per tempi indefiniti.
Sono le uniche immagini recenti che molte delle madri, che arrivano una ad
una nel luogo del presidio di fronte alla Croce Rossa Internazionale,
possiedono dei figli e delle figlie incarcerate.
A misura che le madri arrivano appendono le foto ai chiodi nel muro della
casa contigua al terreno dove si sta svolgendo il presidio.
Alla sera se le porteranno via di nuovo per appenderle nella sala principale
della casa; la sala dove ricevono gli ospiti, dove non mancano mai i grandi
comodi cuscini ed il tè di erbe aromatiche, simboli dell’ospitalità araba.
Quello che è iniziato in questi giorni d’estate è un rito silenzioso e
triste nel mezzo del rumore di questa città incarcerata e di tutte le città
dei Territori Palestinesi Occupati.
Sono i comitati dei famigliari dei prigionieri politici palestinesi che
stanno accompagnando lo sciopero della fame che i prigionieri hanno
proclamato per rivendicare il diritto a ricevere le visite dei familiari,
l’eliminazione delle pratiche umilianti delle perquisizioni corporali e le
perquisizioni delle celle, la fine degli abusi e maltrattamenti da parte
delle guardie, dell’uso dei bastoni per picchiare e dei gas asfissianti
nelle celle, l’eliminazione della pratica di isolamento totale per tempo
indefinito, per rivendicare il diritto dei bambini detenuti a non essere
messi in cella con adulti, spesso criminali israeliani, dei detenuti a
ricevere assistenza medica e legale, a poter ricevere i famigliari in
condizioni adeguate, a ricevere libri e poter proseguire gli studi per
corrispondenza, ai telefoni nei corridoi per comunicarsi con i famigliari,
ad una alimentazione sufficiente e dignitosa e a molto altro ancora.
Nell’estate calda ed umida di Tulkarem non c’è vento e le bandiere
sventolano a fatica. La bandiera palestinese (verde come la terra, nera come
il lutto, rossa come il sangue, bianca come la speranza), la bandiera di
Hamas (verde come i colori dell’Islam), quella delle Brigate dei Martiri di
Al Aqsa (gialla e nera), quella del Fronte Popolare per la Liberazione
Nazionale e quella del Fronte Democratico per la Liberazione Nazionale
(rosse ambedue come vecchi dinosauri in maggior e minor misura), per una
volta tutte insieme, per una volta uniti nella lotta, per un volta l’unità
determinata da quelli che stanno dentro è rispettata da tutte le bandiere.
Questa volta tutti rispettano il calendario stabilito delle attività di
lotta, per le manifestazioni nelle città palestinesi, per la concentrazione
a Ramallah, per lo sciopero generale in tutti i Territori Occupati, per lo
sciopero generale a Gerusalemme.
L’emozione nel vedere le bandiere unite è grande, è la speranza (debole in
verità) che questa volta abbiano raggiunto un accordo per l’unità nella
lotta.
Inevitabile la curiosità fra noi che risediamo qui, inevitabile abbondare
nelle analisi e nell’entusiasmo. Tutti a scrivere comunicati e lettere di
appoggio, ad organizzare manifestazioni e presidi in fronte alle ambasciate
israeliane in tutto il mondo. Chissà questa volta potremmo tutti insieme
ottenere qualcosa. I compagni del Sud Africa e dell’Irlanda del Nord
ricordano e sperano anche loro.
Purtroppo per tutti l’illusione è di pochi giorni.
Sin dai primi giorni di lotta iniziano le divisioni interne.
Qualcuno mi racconta che non si tratta di divisioni sostanziali, ma solo
sull’ordine di priorità delle richieste.
Per uno di questi strani meccanismi della lotta palestinese, non c’è stato
accordo previo sulle priorità rivendicative, su quanto si spera ottenere e
sin dove arrivare.
Qualcuno ritiene che il momento non è il più adeguato. Il mondo è troppo
occupato nell’elencare i successi della sicurezza nei giochi olimpici;
medaglia d’oro in assoluto alla sicurezza. Vinta la possibilità di attacchi
terroristi che, evidentemente, a nessuno importava realizzare e/o
finanziare.
Impossibile persino ripetere le clamorose gesta delle Pantere Nere, per
nessuno degli sportivi di nessuno dei paesi in lotta. Nessuno lo ha nemmeno
contemplato come possibilità, nessuno probabilmente ha più tanta capacità
organizzativa per manifestare contro le volontà globali; nessuno, fra gli
sportivi, si azzarda a sfidare i poteri globali pena essere additato di
terrorista, squalificato e forse anche incarcerato per sempre.
Nel mondo globale senza frontiere non conta più a nulla un passaporto, ciò
che conta è la classe sociale di appartenenza e quali interessi si è
disposti a difendere.
Oggi conta molto di più mostrarsi con la camicetta dello sponsor che non con
il guanto nero ed il pugno alzato. I poveri che difendono gli interessi dei
ricchi ottengono il diritto di cittadinanza nel mondo globale dell’alleanza
globale retto dall’impero globale.
Chi, invece, difende gli interessi dei poveri, degli oppressi, degli
occupati, non trae più beneficio dal possedere una o l’altra nazionalità.
Raquel e Tom nei Territori Palestinesi Occupati prima, Baldoni in Iraq fra
gli ultimi, hanno pagato con la vita il difendere i diritti degli occupati;
i governi americano, inglese e italiano non hanno portato bandiere né
elargito medaglie, mentre invece si sono affrettati in calare il silenzio.
Peter e Giuliano, detenuti in Israele per avere manifestato contro il muro
di separazione il primo e aver ripreso il video della sua detenzione a mano
dei soldati israeliani il secondo, sono stati tacitamente disconosciuti dai
rispettivi governi inglese ed italiano. Non una dichiarazione, non uno
sforzo per mediare per la loro liberazione.
Il messaggio è chiaro, ormai non esiste alcun “privilegio” di nazionalità e
molto meno di cittadinanza per chi non si colloca dentro la sfera del
dominio imperiale.

Il presidio di fronte alla Croce Rossa Internazionale è affollato di gente
che va e viene. Molti sono presenti per appoggiare la lotta, in gesto
solidale con i familiari, altri fanno presenza affinché vedano che ci sono,
per timore ad essere considerati traditori od opportunisti, altri sono
presenti per vedere chi è presente, chi sono i più coinvolti, chi parla con
chi e magari dopo passare l’informazione agli israeliani o ai servizi di
Arafat, ma la maggioranza è presente per la disperazione per non avere
notizie dei loro familiari detenuti nelle carceri israeliane, per rompere la
solitudine dei familiari dei detenuti, per trasmettere solidarietà e
riconoscimento ai detenuti in lotta.
Disperazione e dolore unisce a molti in gesti e parole di reciproca
comprensione.

Oggi le donne si sono sedute separate dagli uomini, hanno disposto le sedie
in fila sotto i teloni per proteggersi dal sole cocente. Sono lì con tutto
il loro dolore e tutta la loro determinazione. Ogni tanto si presenta un
uomo e le invita a gridare slogans che nessuno potrà ascoltare fuori dalle
mura del muro di separazione che circonda le città palestinesi.
L’uomo si alza, si ferma in piedi di fronte alle donne e le invita a
gridare. Gli uomini presenti e seduti di fronte non gridano slogans e non è
una questione di religione ma di ruoli, del potere di dominazione che
pretendono esercitare i dominati, qualcosa di molto comune agli uomini di
tutto il mondo e, chissà, sarà per questo che il mondo va come sta andando.

Oggi è presente anche l’ambasciatrice d’Irlanda in un gesto di solidarietà e
ricordo di altri tempi, dello sciopero della fame condotto dai militanti
dell’IRA nelle carceri britanniche.
C’è chi ricorda lo sciopero della fame dei kurdi-turchi e dei militanti del
Partito Comunista Turco in Turchia che è costato la vita a molti fra i
prigionieri e fra i loro familiari.
Memori del silenzio mondiale che ha coperto la morte di kurdi e turchi,
pensiamo di avere il dovere di appurarci in informare, manifestare,
appoggiare. Ognuno inizia ad attivare i propri contatti nel mondo della
comunicazione globale. Radio popolari alternative, riviste via internet e
messaggi di posta elettronica si sono mobilitate immediatamente in tutto il
mondo no-global.
Ciò nonostante il silenzio non si rompe. La cortina di fumo dei mezzi di
comunicazione ufficiali, delle multinazionali dell’informazione sono più
potenti dei mille rivoli che confluiscono nel grande fiume della
comunicazione globale e lì si perdono.
A maggiore capacità di diffusione, a maggiore possibilità di lanciare il
messaggio all’aria, a più mezzi utilizzati, corrisponde una minore
probabilità di raggiungere il grande pubblico, minore probabilità e/o minore
capacità di incidenza.
E’ un’equazione inversa che non dovrebbe essere, è da rifletterci.

Mi dirigo verso il presidio. Nel mezzo delle fotografie appese alla parete
qualcuno ha messo la fotografia di Saddam Hussein. E’ immediata la domanda e
la preoccupazione sul senso di mescolare il dittatore vinto con la lotta dei
prigionieri politici palestinesi che dovrebbe avere obiettivi rivendicativi
chiari e definiti, inequivocabili se si vuole vincere, giacché in gioco c’è
la vita di chi la vita l’ha già data.
Allo stesso modo è immediata la risposta fra l’innocente ed il determinato:
anche Saddam è un prigioniero, è un prigioniero di guerra degli americani, è
un prigioniero senza diritti.
E’ vero, Saddam è stato consegnato al libero arbitrio degli Stati Uniti,
spogliato di tutti i diritti riconosciuti ai prigionieri di guerra,
incarcerato dagli stessi che una volta lo appoggiavano, è la storia che si
ripete, è la storia che non sappiamo vincere.

Mi si avvicina una delle donne con una fotografia a colori di suo figlio,
ventitrè anni e una condanna all’ergastolo. Cerca di spiegarmi i fatti, mi
racconta la storia, la capisco molto poco a causa dell’idioma ma non
importa, è una storia come tante della gioventù ribelle incarcerata nelle
sue speranze e sogni di libertà.
Il mondo del potere globale potrà gridare al terrorista, gli occhi gonfi
della madre parlano di qualcosa di molto più semplice, parlano di un
tentativo di ribellione, parlano di una forza di occupazione che ha rubato
prima la sua terra e dopo la gioventù di suo figlio.
Non avevo ancora finito di parlare con la prima madre che mi se ne avvicina
un’altra. Tira fuori un fagottino avvolto in una borsa di plastica che aveva
ben custodita nel petto – tutte le donne del mondo custodiscono le cose che
amano nella stessa maniera -, la apre e prende due fotografie. Mi spiega che
sono i suoi due figli gemelli, hanno venti anni. Uno è stato condannato
all’ergastolo, l’altro non lo vede da cinque anni, non sa come sta, lo hanno
catturato prima del fratello, non gli hanno ancora fatto un processo perché
semplicemente non può essere accusato di nulla. Si trova in detenzione
amministrativa indefinita. Lo hanno catturato per catturare il fratello. Ha
questi due figli ed uno più piccolo che sta giocando nei dintorni e si
avvicina per guardare le fotografie dei fratelli. Le lacrime iniziano a
scorrere e si allontanano, mentre altre donne si avvicinano.
Una madre, abbastanza anziana che cammina con difficoltà, è in sciopero
della fame per la sua unica figlia, detenuta da più di cinque anni e che non
ha potuto più vedere. Appare la fotografia di una giovane di diciassette
anni, senza il tradizionale velo islamico, dai capelli lunghi e neri.
Nell’altra mano ha le fotografie degli altri due figli, pure loro
prigionieri. Loro è riuscita a vederli in rare occasioni, accompagnata dalla
Croce Rossa Internazionale che era riuscita ad ottenere il permesso per fare
entrare i familiari in Israele per visitare i detenuti nelle carceri, tutte
ubicate dall’altro lato del muro di separazione.
Per chi si trova detenuto nelle tende-prigioni nel deserto la possibilità di
vedere i familiari sono remote, ciò nonostante sono stati raggiunti dalla
cospirazione della lotta ed ora si trovano in sciopero della fame.
Una dopo l’altra continuano mostrando le fotografie, le storie dei giovani
che si sono uniti alla lotta contro l’occupazione, dove il solo desiderio di
libertà ha potuto più di qualsiasi analisi sulle opportunità e sui metodi.
E una dopo l’altra continuano raccontando del loro interminabile dolore,
occhi rossi e gonfi, desiderio di parlare, richiesta di appoggio, appoggio
psicologico ed appoggio internazionale. Richiesta di intervenire sui nostri
governi affinché rompano le relazioni commerciali, politiche e militari con
il governo di Israele.
Richieste di donne in lotta, di madri disperate per poter almeno vedere i
figli e le figlie, “perlomeno ogni tanto” dicono consapevoli del potere che
stanno fronteggiando e delle scarse possibilità di vittoria.
Appello di madri dagli occhi gonfi contemplando fotografie senza tempo sulle
quali pesano gli anni interminabili del tempo incarcerato.
Quando ormai me ne sto andando, arrivano due madri con le fotografie dei
rispettivi figli di sedici anni, anche loro condannati senza tempo per aver
lanciato una molotov contro un carro armato nella solitari lotta di David
contro Golia. I due erano amici inseparabili e ora sono detenuti, separati.
Arriva il padre di un altro, con la fotografia in mano, era il figlio
minore. Avvicinano le tre foto, ognuno ha in mano la foto di suo figlio e si
stringono le mani. Erano tre gli amici inseparabili, mi spiega il padre
appena arrivato, suo figlio è martire, assassinato dagli israeliani. Gli
altri due non hanno saputo darsi pace di fronte all’amico assassinato e si
sono preparati per lottare contro i carri armati alla prima incursione al
campo profughi, come hanno potuto e con ciò che avevano, vennero fatti
prigionieri. Ora lui vorrebbe almeno che gli amici di suo figlio venissero
liberati e accompagna le madri nel presidio in appoggio ai prigionieri in
sciopero della fame. Contemplano le tre foto insieme, vicine ed è come far
rivivere i tre amici.
Le tre foto unite, lo stesso profondo dolore negli occhi gonfi, la stessa
forza nelle tre mani unite, la stessa lotta di padri e figli, gli stessi
figli e figlie di un popolo spogliato della sua terra, dei suoi diritti,
delle sue vite, dei suoi figli e figlie, imprigionati e schiavizzati nel
mondo globale che di schiavi si nutre e che a schiavi condanna.

Questo è stato il mio ultimo giorno in Tulkarem, città palestinese occupata
ed incarcerata dal muro di separazione costruito da Israele con l’appoggio
ed il finanziamento del governo degli Stati Uniti e con una complice
condanna mondiale.

Simonetta Rossi

5.892 prigionieri politici sono incarcerati nelle carcere israeliane o nei
campi di detenzione, di questi 351 sono minori di 18 anni, 786 sono detenuti
senza processo in “detenzione amministrativa”.
Circa 2.000 bambini palestinesi sono stati detenuti fra settembre 2000 e
giugno 2003. I bambini sino a 14 anni costituiscono il 10% di tutti i minori
detenuti. I minori hanno denunciato essere stati oggetto di torture fisiche
e psicologiche e di essere detenuti in condizioni inumane.
Recentemente gli avvocati difensori hanno deciso di non presentarsi ai
processi in protesta per i processi farsa e per non essere nemmeno ascoltati
dai giudici.
Lo sciopero della fame dei prigionieri politici e dei loro familiari si è
concluso il 3 settembre. Sulle concessioni fatta da Israele non c’è molta
informazione, alcuni sostengono che non ci sono state concessioni di fatto e
che si sono incrementate le misure repressive.
L’unico prigioniero che ha proseguito per un’ulteriore settimana lo sciopero
della fame è stato Marwan Barghouthi, leader moderato di una delle frazioni
armate della lotta palestinese, condannato a cinque ergastoli e la cui
liberazione proposta dagli Herzebollah libanesi in uno scambio di cadaveri
israeliani contro prigionieri è stata ostacolata dallo stesso Arafat.

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