[NuovoLaboratorio] testimonianza....

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Autore: Elisabetta Filippi
Data:  
Oggetto: [NuovoLaboratorio] testimonianza....
Ricevo questa mail dal Dottor. Emad di Tulkarem, responsabile del Medical
Relief anche a Qalqylia....

Elisabetta

Storie di morti con spettatori senza spettacolo.

Estate, un’estate calda ed umida fra Tulkarem e Qalqylia, città incarcerate
dei Territori Palestinesi Occupati.
Il sole picchiava forte, avevamo trascorso tutto il giorno sotto il sole, di
villaggio in villaggio, di riunione in riunione. Parlando, ascoltando,
bevendo tè con le foglie di menta e con zucchero in abbondanza.
Non si può rifiutare, l’ospite è sacro e sarebbe una grande offesa rifiutare
le bevande ed il cibo offerto con il classico “fada’le” – e, onestamente,
temuto per le quantità che si sa toccherà bere e mangiare.
Questo è qualcosa di molto comune a tutto il mondo povero e emarginato, la
generosità in offrire. I serbi allo stesso modo degli albanesi, i
palestinesi così come gli indiani d’America. Qualcosa che non abbiamo più
nel nostro “occidente”.
In un’occasione mi trovavo negli uffici di un’istituzione dell’Autorità
Nazionale Palestinese in attesa di iniziare una riunione. Il palestinese che
mi aveva ricevuto mi offrì il classico caffé arabo e in un perfetto spagnolo
con un impressionante accento cubano mi disse che “nella casa di un cubano
non manca mai un caffé per gli invitati”. E’ vero nella casa di un cubano
non manca mai un caffè per gli ospiti, esattamente come in Palestina…e in
ambedue i posti molto dolce.

Alle quattro del pomeriggio stavamo rientrando a Tulkarem, io con una
compagna palestinese, dirigente di un’organizzazione di donne, una delle
poche che hanno il coraggio di lavorare ( e vivere) nei campi rifugiati.
Sulla via del ritorno l’argomento principale non poteva che essere il posto
di blocco militare, era già tardi, chissà come lo avremmo incontrato, in
questi giorni c’era molto traffico che rendeva molto più difficile
attraversarlo. Gli israeliani stanno facendo dei lavori di costruzione ed
hanno creato un vero disastro con il traffico dei veicoli. Nessuno sa cosa
stanno facendo, alcuni pensano che stanno costruendo un ponte per far
passare sopra i palestinesi e sotto i coloni israeliani, altri dicono che
forse costruiscono un tunnel per i palestinesi per impedirgli di utilizzare
le strade assegnate ai coloni israeliani, altri credono che è una rotonda
quella che stanno costruendo. Di sicuro sappiamo che in meno di una
settimana hanno spianato un’intera collina, hanno cambiato tutto il
paesaggio, in una notte hanno rimosso e reinstallato il posto di blocco.
Nemmeno i soldati di guardia sanno in cosa termineranno i lavori in corso.
E’ parte della guerra psicologica, creare incertezza. Un giorno aprono le
porte il giorno dopo le chiudono, un giorno passano gli uomini il seguente
solo le donne, un giorno controllano i documenti impiegando ore ed il
seguente si passa senza mostrarli, e così via. Ogni giorno nell’incertezza
di poter raggiungere il lavoro, di attraversare il posto di blocco, di
essere fatto prigioniero, di essere separato dalla famiglia, di dover
mandare ad avvisare la famiglia affinché qualcuno venga correndo per
richiedere il rilascio di chi si trova già ammanettato, bendato ed
inginocchiato sotto la minaccia di un fucile. E’ parte della guerra
psicologica e del divertimento dei soldati israeliani che annoiati giocano
al tiro al bersaglio, puntano il fucile alla testa della gente che si
avvicina al posto di blocco in fila, uomini e donne, bambini ed anziani.
Alla fine a nessuno importa dove termineranno i lavori al posto di blocco,
quello che tutti sperano è che non ci mettano più i soldati di guardia,
possono installare le telecamere, i metal-detectors, li possono separare dai
coloni ma non vorrebbero più dover subire le umiliazioni alle quali li
sottopongono costantemente i soldati.

I coloni israeliani sono immigranti arrivati di recente, invitati dal
governo israeliano, per colonizzare i Territori Palestinesi Occupati. Molti
non sanno nemmeno cosa gli aspetta però si adeguano al gioco una volta
arrivati, è molto ciò che gli offrono e non lo vogliono perdere: casa,
lavoro, auto, scuola, divertimenti, soldi, comodità, armi e potere. Armi per
“difendersi” dai palestinesi e potere per assassinarli, quando e come
vogliono. Quando vanno a raccogliere le olive, quando vanno al pozzo a
prendere l’acqua, quando vanno a seminare la terra rimasta dall’altro lato
della colonia occupata, quando semplicemente attraversano la strada. I
coloni sono gruppi paramilitari, non hanno regole, sono più temuti degli
stessi soldati. La maggioranza proviene dall’ex Unione Sovietica, qualcuno
dall’Africa, altri pochi dall’Europa e dall’America. Qualcuno ha radici
ebree, altri semplicemente si approfittano dei privilegi che offre loro il
governo israeliano per venire a colonizzare. Nei primi tre mesi cercano di
insegnar loro la lingua ebrea, la religione ebrea, li “convertono” e
assegnano loro una casa in una colonia. Non si capiscono nemmeno fra di
loro, la maggioranza continua a parlare il proprio idioma, russo, inglese,
francese, spagnolo. La conversione è più apparente che reale e così i russi
si possono trovare a bere birra nelle strade durante lo “Shabat” (il sabato,
il giorno sacro degli ebrei).
Nelle colonie dei russi si può trovare qualsiasi cosa, droga, donne
prostitute volontarie o obbligate introdotte dall’est europeo in traghetti
clandestini, traffico di armi di qualsiasi tipo, mercato di dollari falsi,
auto rubate, ospedali camuffati, una vera e propria organizzazione mafiosa.
Lo stato di Israele ha preteso basare la sua esistenza sull’identità
religiosa; ma la fede religiosa è qualcosa di difficile da controllare, ed
ora lo stato di Israele è uno stato senza identità, dibattuto fra destra e
sinistra, fra coloni privilegiati e poveri di Tel Aviv, fra una dittatura
autorizzata e protetta del suo primo ministro e la forzatura democratica che
cercano di vendere i mass media del mondo, fra l’Antico Testamento e
l’ateismo. E’ uno stato che non capisce se stesso, dove il colono russo non
ha nulla a che vedere con l’ebreo di Gerusalemme. E’ uno stato che potrebbe
implodere per le sue stesse contraddizioni interne, sarebbe persino
auspicabile se non fosse che è uno stato che possiede uno dei più avanzati
poteri biotecnologici, chimici e nucleari del mondo. E’ uno stato
pericoloso, molto più di quello che poteva essere l’Irak di Saddam o
l’Afganistan dei contadini poveri. E’ uno stato ubicato in terra occupata,
composto da gente importata, è uno stato senza paese che nonostante la
minaccia che rappresenta per tutti la sua esistenza conflittiva gode della
silenziosa complicità mondiale.

Arriviamo al posto di blocco e come previsto era affollato di automobili,
camion e autobus. Le automobili dei coloni che vogliono entrare in Israele,
i taxi e gli autobus sempre di fretta che sorpassano le file e bloccano
tutti. I camion che, forti della loro stazza, non rispettano i diritti degli
altri. Così oggi i soldati sono obbligati a dirigere il traffico. La
confusione è totale e tutti finiamo paralizzati dal traffico. Da circa
un’ora cercavamo di attraversare il posto di blocco militare senza esito,
ormai nessuno rispetta più la sua corsia, coloni o palestinesi alla stessa
maniera. Le categorie etniche in questo caso vengono meno, contano di più
quelle sociali, chi guida un camion, un autobus o un microbus passa per
primo, non importa la targa del suo veicolo (palestinese o israeliana).
Improvvisamente ci si ferma davanti un veicolo chiuso con i vetri oscurati,
viene contromano, scendono due soggetti in abiti civili con la kippa in
testa (capellino ebreo), scendono e iniziano a dirigere il traffico per
liberare il posto di blocco.
Mi fermo a guardarli e perdo il diritto a passare, mi suonano e mi gridano
tutti i conduttori dietro, e mi sollecitano di passare ed io mi chiedo
perché nessuno si chiede nulla. Perché gli interessa solo attraversare la
strada, perché fingono di non vedere? Perché non corrono ad avvisare tutti i
ricercati di nascondersi? Ci sono i corpi speciali israeliani al posto di
blocco! Sarà che mi sbaglio, che mi lascio condizionare dalle esperienze di
un altro mondo?
Lo dico alla compagna palestinese che è in macchina con me, “sono i corpi
speciali, oggi assassineranno qualcuno”.
Infine riusciamo ad entrare a Tulkarem, stanche e con molta tensione…per il
traffico del posto di blocco.
La città si muove come sempre, nel circolo rinchiuso.

Sono quasi le sette di sera, esco fuori, nessuno in strada, la gente è ferma
sulle porte. Nella porta dei vicini ci sono più donne del solito.
Qualcosa di grave è successo.
Le donne parlano fra loro ed hanno gesti di disperazione, si coprono il viso
con le mani, guardano la strada in fronte, si portano le mani alla testa e
le alzano gridando “Allah aj’bar”.
Qualcosa di molto grave è successo.
Subito dopo arrivano alcuni giovani, portano con sé molta rabbia,
colpiscono con forza con le mani le porte delle case, dietro li seguono
altri, portano un cadavere coperto da una bandiera verde.
Passano per le strade colpendo le porte delle case, gridano slogans e
inneggiano ad Allah.
Non esiste solidarietà che conti in questi momenti, anche noi chiudiamo il
cancello, passano davanti a noi e gridano con rabbia e violenza. Non capiamo
ciò che ci dicono, pero capiamo ciò che pensano: stranieri infedeli
colpevoli.

Poco dopo arriva un amico, era nel luogo dello sconto a fuoco, anche uno dei
suoi cugini è stato assassinato, ci racconta i fatti.
Erano riuniti in una piazzola nel centro della città, vicino al nostro
ufficio. I negozi erano ancora aperti, un gruppo di giovani era riunito
chiacchierando. Altri giovani, armati, li hanno raggiunti e si sono fermati
a chiacchierare.
Questione di pochi minuti, è arrivato un veicolo chiuso dai vetri oscurati,
le persone riunite si disperdono fuggendo, dal veicolo scendono ed iniziano
a sparare, a tutti indistintamente.
Lo scontro a fuoco dura pochi minuti, i sei giovani armati giacciono a terra
feriti. Pochi minuti dopo arrivano i soldati per appoggiare l’azione dei
corpi speciali. Nessuno si può avvicinare, i giovani sono a terra ancora
vivi, stanno perdendo sangue, molto sangue. Gli agenti speciali se ne vanno,
i soldati assumono il controllo ed i giovani a terra continuano a
dissanguarsi lentamente. Arrivano le ambulanze e le jeeps militari
impediscono loro l’accesso. Scendono i medici e vengono allontanati a punta
di fucile. La gente nei dintorni continua a stare nascosta sbirciando e
ascoltando i lamenti dei giovani feriti a terra senza aiuto. Qualcuno è
riuscito a raggiungere un bambino ferito nello scontro a fuoco, lo
trascinano nel giardino di una casa, lo passano ad un’altra, lo fanno
saltare dall’altra parte di un muro, e così di casa in casa sino a dove
l’ambulanza lo può raggiungere e portare all’ospedale di nascosto.
Un anziano era rimasto immobile, davanti all’uscio di casa, non era entrato,
non si era nascosto, era illeso. Alza il suo bastone e lo agita verso i
soldati, grida ai soldati, i giovani stanno morendo dissanguati, prende un
pietra e la tira ai soldati, riceve una pallottola e giace a terra pure
lui.
Trascorre circa un’ora e ritornano gli agenti speciali a finire il lavoro,
controllano i giovani, sono ancora vivi. Li assassinano uno a uno con un
colpo di grazia alla testa. E’ un’esecuzione al di fuori di ogni diritto. E’
un’esecuzione che nessuna cinepresa filmerà e nessuna televisione
trasmetterà.
Gli agenti speciali portano la kippa, è come portare una bandiera. Si
avvicinano ai corpi quasi dissanguati e sparano. E’ come portare un coltello
alla gola e tagliare, è come eseguire una decapitazione. La differenza
chissà sono i lamenti di chi si sta dissanguando inerme a terra, sono le
morti che non producono spettacolo e che hanno spettatori impotenti e
spaventati, sono le ragioni che sono esattamente opposte.

Sei giovani assassinati, quattro di loro erano ricercati, gli altri
semplicemente si trovavano nei pressi. Un bambino ferito, un anziano ferito
ed arrestato. Alla fine dell’operazione si portano via l’anziano di
ottant’anni.
La città è in lutto. Le moschee sono chiuse, l’Imam pronuncia i nomi dei
giovani morti dagli altoparlanti e dichiara tre giorni di lutto. Tutti si
stringono intorno alle famiglie. Il giorno dopo il funerale, la città è
deserta, nessuno apre i negozi, nessuno apre gli uffici. Un gruppo di
giovani circola vigilando e minacciando affinché tutti rispettino il lutto
dichiarato.
La città deserta e, da oggi in poi, molto più difficile circolare per le
strade.

Simonetta Rossi

L’assassinio dei feriti della stessa maniera presentata sopra è divenuta
pratica costante dei soldati e corpi speciali israeliani. Questa pratica
pretende alimentare il timore, il dolore e l’odio fra i palestinesi.
Due giorni fa altrettanti giovani sono stati assassinati in Nablus allo
stesso modo.
Non fanno spettacolo.
Nessuno grida contro il terrorismo israeliano, nessun giornale riporta gli
eventi nella loro crudezza, tutti riportano un ragazzo con le mani alzate ed
una cintura kamikaze, fa più spettacolo.

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