articolo firmato da Naomi Klein e Jeremy Scahil, pubblicato da The Guardian
il 16 settembre scorso e tradotto per Reporter Associati da Tito Gandini e
Stefano Minutillo Turtur.
"Quando Simona Torretta ritornò a Baghdad nel marzo 2003 nel bel mezzo dei
bombardamenti, i suoi amici iraqeni salutandola le dissero che era pazza:
"Erano così sorpresi di vedermi, mi dissero, perché sei tornata qui. Torna
in Italia, sei pazza!". ma Simona Torretta non tornò in Italia. Rimase
durante l'invasione, continuando la missione umanitaria che aveva iniziato
nel 1996, quando per la prima volta visitò l'Iraq con l'ong "anti-sanzioni"
Un Ponte Per Baghadad. Quando Baghadad cadde nelle mani degli americani,
Simona decise comunque di restare, questa volta per portare medicinali alla
popolazione sofferente per l'occupazione militare. Sempre dopo che la
resistenza iraqena iniziò a colpire gli stranieri e i giornalisti
internazionali, mentre gli operatori umanitari fuggivano, Simona tornò
ancora. "Non posso restare in Italia"- disse la giovane volontaria 29nne ad
un regista di documentari . Oggi la vita di Simona Torretta è in pericolo,
insieme alle vite della sua collega Simona Pari e dei due collaboratori
iraqeni, Ra'ad Ali Abdul Aziz e Mahnouz Bassam. Ma qual'è la vera storia di
questo sequestro?
Otto giorni fa, i 4 furono prelevati da un commando direttamente dalla
casa/ufficio di Baghdad e da allora non si sono più avute notizie. In
assenza di informazioni da parte dei loro sequestratori, le controversie
politiche scoppiano attorno l'incidente. I sostenitori della guerra sono
soliti dipingere i pacifisti come degli ingenui, che sostengono allegramente
la resistenza che invece risponde alla solidarietà internazionali con
rapimenti e decapitazioni.
Intanto un sempre maggior numero di leaders islamici affermano che il raid
nella sede di Un Ponte Per Baghdad non è stata opera dei mujahidin, ma
dell'intelligence internazionale, al fine di screditare la lotta della
resistenza. Nulla riguardo questo rapimento costituisce un somiglianza con
gli altri sequestri.
Molti sono stati attacchi occasionali perpetuati su strade. Simona Torretta
e i suoi colleghi sono stati "freddamente" prelevati nel loro ufficio. E
mentre i mujahidin iraqeni nascondono scrupolosamente la loro identità
dietro ampie sciarpe, i rapitori erano a volto scoperto e sbarbati, alcuni
vestiti in uniforme. Un assalitore era chiamato dagli altri "signore". Gli
ostaggi sono un uomo e tre donne.
I testimoni rivelano che il commando ha interrogato tutto lo staff della
sede prima di identificare le due Simona per nome e che Mahnouz Bassam, la
donna iraqena, è stata trascinata urlante per il velo; un oltraggio
religioso scioccante per un'azione in nome dell'Islam. Molto strana è anche
la dimensione dell'operazione: invece dei soliti 3/4 combattenti, 20 uomini
armati e alla luce del sole, apparentemente incuranti di essere visti. La
"Green Zone" è sorvegliata da molti checkpoint militari; il rapimento è
stato effettuato senza alcuna interferenza da parte della polizia iraqena e
delle truppe americane; benchè il periodico "Newsweek" ha svelato che un
convoglio militare americano passò vicino alla sede della Ong italiana circa
15 minuti dopo il rapimento.
Le armi: gli assalitori erano armati con AK-47, fucili, pistole con
silenziatore e armi che stordiscono. Armi difficilmente utilizzate dai
mujahidin, dotati di rudimentali Kalashnikov.
Ancora più strano è questo dettaglio: i testimoni affermano che diversi
sequestratori erano vestiti con le uniformi della Guardia Nazionale iraqena
e si sono dichiarati come uomini di Ayad Allawi, primo ministro iraqeno ad
interim. Un portavoce del governo iraqeno ha successivamaente smentito un
coinvolgimento dell'ufficio del premier Allawi. Sabah Kadhim, portavoce del
ministero degli interni, ha ammesso che i rapitori indossavano uniformi
militari e giubbotti anti-proiettile.
Ma, allora è stato un rapimento condotto dalla resistenza iraqena o
un'operazione segreta della polizia? O qualcosa di peggio: un ritorno del
"mukhabarat", il servizio segreto di Saddam che eliminava i dissidenti del
regime, di cui non si è saputo più nulla? Chi può aver coordinato un'azione
simile e chi può portare giovamento un attacco contro questa Ong da sempre
contro la guerra?
Da lunedì scorso il governo italiano riporta una sola teoria. Lo Sceicco
Abdul Salam Al-Kubaisi, autorevole esponente religioso sunnita in Iraq, ha
riferito ai giornalisti di aver ricevuto una visita da parte di Simona
Torretta e Simona Pari il giorno prima del rapimento. "Erano impaurite"-
afferma lo sceicco -"Mi hanno detto che qualcuno le ha minacciate". Alla
domanda su chi vi fosse dietro queste minaccie, Kubaisi ha risposto
"sospettiamo l'intelligence internazionale".
Per Kubaisi, la rivendicazione del rapimento è inusuale; egli è legato a
gruppi della resistenza ed ha mediato il rilascio di diversi ostaggi. Le
dichiarazioni di Kubaisi sono state ampiamente riportate sui media arabi e
su quelli italiani, mentre sono assenti sulla stampa di lingua inglese. I
giornalisti occidentali sono contrari a parlare di spie e cospirazioni,
soprattutto per paura.
Ma in Iraq, spionaggio ed operazioni segrete non costituiscono cospirazioni;
sono la realtà quotidiana.
Secondo James L. Pavitt, direttore della CIA, l'Iraq è il paese con più basi
d'intelligence Usa dai tempi della guerra in Viet Nam, con circa 500/600
agenti sul territorio. Allawi stesso ha collaborato con CIA, MI6 e
Mukhabarat nell'eliminazione dei nemici del regime di Saddam.
Un Ponte Per Baghdad è sempre stato contrario all'occupazione militare.
Durante l'assedio di Falluja in aprile, ha coordinato, rischiando in prima
persona, diverse missioni umanitarie. Le forze americane hanno chiuso le
strade per Falluja e vietato l'accesso ai giornalisti, mentre si preparaveno
a punire l'intera città per l'orrendo assassinio di 4 mercenari americani.
In agosto, quando la marina statunitense toglieva l'assedio da Najaf, Un
Ponte Per Baghdad andò dove le forze militari d'occupazione non volevano
testimoni. E il giorno prima del loro rapimento, Simona Torretta e Simona
Pari avevano detto allo sceicco Kubaisi che stavano progettando un'altra
rischiosa missione a Falluja. Negli otto giorni dal sequestro, appelli per
il loro rilascio sono giunti da ogni parte del mondo e da ogni comunità
religiosa e culturale: Jihad islamica, Hezbullah, Associazione degli
studenti islamici ed altri diversi gruppi della resistenza iraqena hanno
condannato l'azione.
Un gruppo della resistenza parlando da Falluja ha detto che il rapimento
lascia pensare ad un collegamento con le forze d'intelligence
internazionali. Particolarmente evidente è l'assenza di importanti voci,
come quella della Casa Bianca e dell'ufficio di Allawi. Nessuno dei due ha
detto una sola parola sul sequestro.
Quello che vogliamo far saper è questo: se il rapimento finirà nel sangue,
Washington, Roma ed il governo "fantoccio" iraqeno ne approfitteranno per
giustificare la brutale occupazione dell'Iraq; un'occupazione per la quale
Simona Torretta, Simona Pari, Ra'ad Ali Abdul Aziz e Mahnouz Bassam hanno
rischiato la loro vita per opporvisi.
E noi non ci sorprenderemo se si scoprisse che il piano era questo da
sempre".
Jeremy Scahill, attivista di "Democracy Now", è una giornalista free-lance e
lavora negli Usa per stazioni radio e tv indipendenti, Naomi Klein,
scrittrice, è l'autrice di "No Logo" e di "Fences and Windows".
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