[Cm-milano] Fw: [neurogreen] Sviluppo, crescita, valorizzazi…

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Autore: ajorn
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Oggetto: [Cm-milano] Fw: [neurogreen] Sviluppo, crescita, valorizzazione
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From: "magius" <magius@???>
To: <neurogreen@???>
Sent: Monday, September 13, 2004 11:22 PM
Subject: [neurogreen] Sviluppo, crescita, valorizzazione


Il manifesto di Neurogreen parla di catastrofi... Oggi ho letto su
Repubblica (inserto Affari e Finanza) che lo chief-economist di Morgan
Stanley, in controtendenza con il mantra sulla crescita alla Greenspan,
dice che le famiglie in Usa sono talmente indebitate che entro massimo
cinque anni prevede un crash verticale dell'economia Usa, una
"argentinizzazione" degli Stati Uniti (verrebbe da dire, se la cosa non
fosse tragica, cosi finalmente la smettono di sprecare risorse in
armamenti e guerre).. Beh, credo che per la fondazione di un discorso
sull'ecologia radicale, varrebbe la pena di definire meglio le idee di
crescita e sviluppo. In particolare, sarebbe interessante discutere della
parola di moda in un certo ambiente ecologista, lo "sviluppo sostenibile".
Mi chiedo: è possibile uno sviluppo sostenibile? Cioe' il problema non sta
nello "sviluppo" ma nel cosa si produce? Cambiando cioe le merci prodotte
(rendendole eco-compatibili) è possibile continuare a pensare in termini
di crescita e sviluppo indefinito? O piuttosto non è il processo di
valorizzazione dell'esistente, la sua trasformazione in merce, ad essere
il problema originario?

In attesa di qualche risposta, intanto, come uno dei possibili spunti di
riflessione, vi mando questo bell'articolo di Serge Latouche apparso su
Z-Magazine (in italiano).

magius

---


Abbasso lo sviluppo sostenibile! Evviva la decrescita conviviale!
di Serge Latouche

http://www.zmag.org/Italy/latouche-decrescitaconviviale.htm




"Non vi è il minimo dubbio che lo sviluppo sostenibile sia uno dei
concetti più nocivi" Nicholas Georgescu-Roegen, (corrispondenza con J.
Berry, 1991).(1)

Viene definito ossimoro (o antinomia) una figura retorica consistente
nel giustapporre due parole contraddittorie, come "l'oscura chiarezza",
cara
a Victor Hugo, "che viene giù dalle stelle...". Questo espediente inventato
dai poeti per esprimere l'inesprimibile è sempre più utilizzato dai
tecnocrati per far credere all'impossibile. Così, una guerra pulita, una
globalizzazione dal volto umano, un'economia solidale o sana, ecc. Lo
sviluppo sostenibile è una di queste antinomie.


       Già nel 1989, John Pessey della Banca Mondiale catalogava 37 diverse
accezioni del concetto di "sustainable development".(2) Il solo rapporto
Brundtland (World commission 1987) ne conteneva ben sei. François Hatem,
che
al tempo ne aveva individuate 60, propose di suddividere le teorie al
momento disponibili sullo sviluppo sostenibile in due categorie:
ecocentriche e antropocentriche, secondo che avessero come obiettivo
principale la protezione della vita in generale (e quindi di tutti gli
esseri viventi, o quantomeno di quelli che non sono già condannati), o il
benessere dell'uomo.(3)


       Sviluppo sostenibile, o come far durare lo sviluppo


       Esiste quindi un'apparente divergenza dei significati
sostenibile/durevole. Per alcuni lo sviluppo sostenibile/durevole è uno
sviluppo rispettoso dell'ambiente. L'accento insiste quindi sulla
conservazione degli ecosistemi. Lo sviluppo in questo caso significa
benessere e qualità della vita soddisfacente e non ci si pone troppi
interrogativi sulla compatibilità dei due obiettivi, sviluppo e ambiente.
Questo atteggiamento è abbastanza diffuso tra i militanti del mondo
associativo e tra gli intellettuali umanisti. L'attenzione verso i grandi
equilibri ecologici deve arrivare fino a rimettere in discussione certi
aspetti del nostro modello economico di crescita, addirittura del nostro
stile di vita. Ciò potrebbe condurre alla necessità di inventare un altro
paradigma di sviluppo (ancora uno! Ma quale? Non si sa). Per altri,
l'importante è che lo sviluppo in quanto tale possa durare all'infinito.
Questa è la posizione degli industriali, della maggior parte dei politici e
di quasi tutti gli economisti. A Maurice Strong, che dichiarava il 4 aprile
1992: "Il nostro modello di sviluppo, che porta alla distruzione delle
risorse naturali, non può tenere. Dobbiamo cambiare", fanno eco i propositi
di Gorge Bush (senior): "Il nostro livello di vita non è negoziabile".(4)
Sugli stessi toni, a Kyoto, Clinton dichiarava senza peli sulla lingua:
"Non
firmerò niente che possa nuocere alla nostra economia"(5) Com'è noto, Bush
junior ha fatto di meglio...


       Lo sviluppo sostenibile è come l'inferno, lastricato di buone
intenzioni. Non mancano esempi di compatibilità tra sviluppo e ambiente a
dimostrarlo. Evidentemente, l'attenzione all'ambiente non è necessariamente
contraria agli interessi individuali e collettivi degli agenti economici.
Un
direttore della Shell, Jean-Marie Van Engelshoven, si può permettere di
dichiarare: "Il mondo industriale dovrà essere in grado di rispondere alle
attuali aspettative se vuole, in modo responsabile, continuare a creare
ricchezza in futuro". Jean-Marie Desmarets, l'Amministratore Delegato di
Total, parlava allo stesso modo prima del naufragio dell'Erika e
dell'esplosione della fabbrica di fertilizzanti chimici di Tolosa...(6) Con
un certo senso dell'umorismo, i dirigenti di BP hanno deciso che la loro
sigla non avrebbe più dovuto leggersi "British Petroleum", ma "Beyond
Petroleum" (oltre o dopo il petrolio)...(7)


       La coincidenza di interessi ben definiti può, effettivamente,
realizzarsi in teoria e in pratica. Esistono industriali persuasi della
compatibilità tra gli interessi della natura e gli interessi dell'economia.
Il Business Council for Sustainable Development, cinquanta dirigenti di
grandi imprese rappresentati da Stephan Schmidheiny, consulente di Maurice
Strong, ha pubblicato un manifesto presentato a Rio de Janeiro poco prima
dell'apertura della conferenza del 92: Cambiare rotta, riconciliare lo
sviluppo dell'impresa e la protezione dell'ambiente. "Come dirigenti
d'impresa - proclama il manifesto - condividiamo il concetto di sviluppo
sostenibile, che permetterà di rispondere alle esigenze dell'umanità senza
compromettere le opportunità delle generazioni future".(8)


       Ed è questa, effettivamente, la scommessa dello sviluppo sostenibile.
Un industriale americano esprime il concetto in modo molto più semplice:
"Vogliamo che sopravvivano sia lo strato di ozono che l'industria
americana".


       Sviluppo tossico


       Vale la pena guardare più da vicino, tornando ai concetti, per
verificare se la sfida ha ancora senso. La definizione di sviluppo
sostenibile del rapporto Brundtland tiene conto solo della durevolezza. Si
tratta di un "processo di cambiamento per il quale lo sfruttamento delle
risorse, l'orientamento degli investimenti, i cambiamenti tecnici e
istituzionali avvengono in modo armonico e rinforzano il potenziale attuale
e futuro dei bisogni dell'uomo". Non ci si deve illudere, tuttavia. Non è
della protezione dell'ambiente che parlano i potenti - certi imprenditori
ecologisti parlano persino di "capitale sostenibile", il colmo
dell'ossimoro! - ma prima di tutto dello sviluppo.(9) Ed ecco la trappola.
Il problema del concetto di sviluppo sostenibile non è tanto nel termine
sostenibile, che è tutto sommato una bella parola, quanto nella parola
sviluppo, che è decisamente un "termine tossico". A ben vedere
sostenibilità
significa che l'attività umana non deve produrre un livello di inquinamento
superiore alla capacità dell'ambiente di rigenerarsi. Non è altro che
l'applicazione del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas:
"Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la
continuità di una vita autenticamente umana sulla terra". Tuttavia, il
significato storico e pratico dello sviluppo implicito nel programma della
modernità, è fondamentalmente contrario alla sostenibilità così concepita.
Si può definire lo sviluppo come un'impresa volta a mercificare i rapporti
tra le persone e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di
trarre profitto dalle risorse naturali e da quelle umane. La mano
invisibile
e l'equilibrio degli interessi ci garantiscono che tutto procede per il
meglio nel migliore dei mondi possibili. Perché preoccuparsi? La maggior
parte degli economisti, che siano liberali o marxisti, sostengono una
visione che permette allo sviluppo economico di perdurare. Così
l'economista
marxista Gérard d'Estanne de Bernis dichiara: "Non staremo qui a disquisire
di semantica, non ci chiederemo neanche se l'aggettivo "durevole"
(sostenibile) aggiunga qualche cosa alle definizioni classiche di sviluppo,
teniamo conto della realtà e parliamo come tutto il mondo [...] E' chiaro
che sostenibile non rimanda al concetto di durata ma a quello di
irreversibilità. In questo senso, qualunque sia l'interesse delle
esperienze
prese in considerazione, il fatto è che il processo di sviluppo in paesi
come l'Algeria, il Brasile, la Corea del Sud, l'India o il Messico non si è
rivelato "durevole" (sostenibile): le contraddizioni irrisolte hanno
spazzato via i risultati degli sforzi compiuti e condotto a una
regressione".(10) Effettivamente, se si accetta la definizione di sviluppo
indicata da Rostow come "self-sustaining growth" (crescita
auto-sostenibile), l'aggiunta dell'aggettivo durevole o sostenibile al
termine sviluppo è inutile e costituisce un pleonasmo. Ciò è ancora più
evidente nella definizione di Mesarovic et Pestel.(11) Per loro è la
crescita omogenea, meccanica e quantitativa che è insostenibile, mentre una
crescita "organica" definita dall'interazione delle parti con l'insieme è
un
obiettivo sopportabile. Storicamente questa definizione biologica è
precisamente quella dello sviluppo! Le sottigliezze di Herman Daly, che
tenta di definire uno sviluppo a crescita zero non stanno in piedi, né in
teoria, né in pratica.(12) Come sottolinea Nicholas Georgescu-Roegen: "Lo
sviluppo sostenibile non può in alcun caso essere separato dalla crescita
economica. [...] In verità, chi ha mai potuto pensare che lo sviluppo non
implichi necessariamente una forma di crescita?"(13) Infine, si potrebbe
affermare che aggiungere l'aggettivo sostenibile al concetto di sviluppo
non
significa certo rimettere seriamente in discussione lo sviluppo esistente,
quello che domina il pianeta da due secoli, ma semplicemente concepirlo in
un'accezione ecologica. E' alquanto improbabile che ciò basti a risolvere i
problemi.


       La crescita zero non è sufficiente


       Infatti, le caratteristiche durevole o sostenibile non rimandano allo
sviluppo "realmente esistente", ma al concetto di riproduzione. La
riproduzione sostenibile ha regnato sul pianeta più o meno fino al XVIII
secolo. Tra gli anziani del terzo mondo ci sono ancora degli "esperti" di
riproduzione sostenibile. Gli artigiani e i contadini che hanno conservato
buona parte dell'eredità ancestrale nel modo di agire e di pensare vivono
spesso in armonia con il proprio ambiente; non sono predatori della
natura.(14) Ancora nel XVII secolo, con gli editti sulle foreste, i
regolamenti sugli abbattimenti per la ricostituzione dei boschi, la
coltivazione di querce che ancora ammiriamo destinate alla costruzione di
vascelli 300 anni dopo, Colbert si dimostra un esperto di "sustainability".
I suoi provvedimenti sono il contrario della logica mercificatrice. Ecco,
si
dirà, una forma di sviluppo sostenibile. Ma allora lo si deve dire di tutti
quei contadini che hanno piantato nuovi olivi e nuovi fichi dei quali non
avrebbero mai visto i frutti, pensando alle generazioni future e questo
senza esservi obbligati da nessuna legge, semplicemente perché i loro
genitori, i loro nonni e tutti coloro che li avevano preceduti avevano
fatto
la stessa cosa.(15) Ormai, neanche la riproduzione sostenibile è più
possibile. Ci vuole tutta la fede degli economisti ortodossi per pensare
che
la scienza del futuro risolverà tutti i problemi e che la sostituibilità
illimitata della natura attraverso l'artificio sia possibile. Come si
chiede
Mauro Bonaïuti, possiamo davvero continuare a ottenere lo stesso numero di
pizze diminuendo sempre la quantità di farina e aumentando il numero dei
forni o quello dei cuochi ? E anche qualora si dovesse riuscire a sfruttare
nuove energie, sarebbe sensato costruire "grattacieli senza scale né
ascensori, esclusivamente sulla base della speranza che un giorno
trionferemo sulla legge di gravità ?"(16) Contrariamente a quanto sostenuto
dall'ecologismo riformista d'un Hermann Daly o d'un René Passet, lo status
quo e la crescita zero non sono né possibili, (né auspicabili...). "Noi
possiamo riciclare le monete di metallo usate, ma non le molecole di rame
disperse dall'uso".(17) Questo fenomeno, che Nicholas Georgescu-Roegen ha
battezzato la "quarta legge della termodinamica", è forse discutibile in
termini di teoria astratta, ma non dal punto di vista dell'economia
concreta. Dall'impossibilità che ne consegue di una crescita illimitata non
risulta, secondo lui, la necessità di un programma di crescita zero, ma
quello di una decrescita. "Non possiamo - scrive - produrre frigoriferi,
automobili o aerei a reazione 'migliori e più grandi' senza produrre anche
dei rifiuti 'migliori e più grandi'".(18) Quindi, il processo economico è
di
natura entropica. "La terra ha dei limiti - sottolinea Marie-Dominique
Pierrot - e trattarla come qualcosa che si possa sfruttare all'infinito
attraverso la mitizzazione del concetto di crescita, significa condannarla
a
scomparire. Non si può invocare la crescita illimitata e accelerata per
tutti e allo stesso tempo chiedere che ci si preoccupi delle generazioni
future. Il richiamo alla crescita e la lotta alla povertà costituiscono
solo
delle formule magiche e delle parole d'ordine buone per tutte le stagioni.
Si tratta dell'idea magica della torta della quale basta aumentare le
dimensioni per nutrire tutto il mondo e che rende 'innominabile' la
questione della possibile riduzione delle parti di alcuni".(19) La nostra
ipercrescita economica oltrepassa già largamente la capacità di carico
della
terra. Se tutti i cittadini del mondo consumassero come gli americani medi
i
limiti fisici del pianeta sarebbero già ampiamente superati.(20) Se
prendiamo come indice del "peso" ambientale del nostro stile di vita
"l'impronta" ecologica di questa categoria in termini di superficie
terrestre necessaria, otteniamo risultati insostenibili sia dal punto di
vista dell'equità nei diritti di sfruttamento della natura, che dal punto
di
vista della capacità di rigenerarsi della biosfera. Prendendo in
considerazione i bisogni di risorse e di energia necessarie ad assorbire i
rifiuti e gli scarti della produzione e del consumo e aggiungendoci
l'impatto dell'habitat e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori del
World Wide Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo pro
capite
dell'umanità è di 1,8 ettari. Un cittadino degli Stati Uniti consuma in
media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo quindi molto
lontani dall'uguaglianza planetaria e ancora di più da uno stile di
civilizzazione sostenibile, che si dovrebbe limitare a 1,4 ettari,
nell'ipotesi che la popolazione attuale resti stabile.(21)


       Uscire dall'economicismo


       Possiamo discutere queste cifre, ma purtroppo sono confermate da un
numero imponente di indici (che sono d'altra parte serviti a stabilirle).
Per sopravvivere o durare è quindi urgente organizzare la decrescita. Se
siamo a Roma e dobbiamo andare a Torino in treno e per sbaglio abbiamo
preso
la direzione di Napoli, non basta rallentare la locomotiva, frenare o
fermarsi, bisogna scendere e prendere un altro treno nella direzione
opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai
nostri
figli, non dobbiamo semplicemente moderare le tendenze attuali, bisogna
decisamente uscire dallo sviluppo e dall'economicismo, così come dobbiamo
uscire dall'agricoltura a sfruttamento intensivo che ne è parte integrante,
per farla finita con le mucche pazze e le aberrazioni transgeniche. La
decrescita dovrebbe essere perseguita non soltanto per preservare
l'ambiente, ma anche per restaurare quel minimo di giustizia sociale senza
la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e
sopravvivenza biologica sono strettamente connesse. I limiti del "capitale"
natura non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nella
suddivisione delle parti disponibili, ma anche un problema di equità tra i
membri attualmente viventi dell'umanità. La decrescita non significa
necessariamente un immobilismo conservatore. L'evoluzione e la crescita
lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata
ben
temperata, sempre in armonia con le esigenze della natura. "La società
tradizionale era sostenibile perché aveva adattato il proprio stile di vita
all'ambiente - conclude Edouard Goldsmith - e la società industriale non
può
sperare di sopravvivere perché, al contrario, ha cercato di adattare
l'ambiente al proprio stile di vita".(22) Pianificare la decrescita
significa, in altri termini, rinunciare all'immaginario economico, cioè
alla
convinzione che di più per tutti significhi più uguaglianza. Il benessere e
la felicità si possono raggiungere a costi inferiori. La saggezza di molte
culture suggerisce che la felicità si realizza nella soddisfazione di una
quantità sensatamente limitata di bisogni. Riscoprire la vera ricchezza
nella promozione di relazioni sociali conviviali in un mondo sano si può
fare con serenità nella frugalità, nella sobrietà, persino con una certa
austerità nei consumi materiali. "Una persona felice - sottolinea Hervé
Martin - non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di
suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non acquista continuamente
oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa solo marginalmente
all'attività economica della società."(23) Una decrescita voluta e ben
impostata non impone alcun limite nell'esercizio dei sentimenti e alla
promozione di una vita conviviale, anche dionisiaca.(24)





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       (1) Mauro Bonaïuti, La teoria bioeconomica. La "nuova economia" di
Nicholas Georgescu Roegen, Carocci, Roma 2001, p. 53. (<<)




       (2) J. Pezzey, Economic analysis of sustainable growth and
sustainable
development, World Bank, Environment Department, Working Paper n° 15, 1989.
(<<)




       (3) Christian Comeliau, Sviluppo dello sviluppo sostenibile, o
blocchi
concettuali? Tiers-Monde n° 137, gennaio-marzo 1994, pp. 62-63. (<<)




       (4) Jean Marie Harribey, L'economia economa, L'harmattan, Parigi
1997.
(<<)




       (5) Carla Ravaioli, "Lettera aperta agli economisti. Crescita e crisi
ecologica". Manifesto libri 2001, p. 20. (<<)




       (6) Green magazine, maggio 1991. Questo esempio, come i precedenti, è
tratto da Hervé Kempf, L'economia alla prova dell'ecologia. Hatier, Parigi
1991, pp. 24/25. (<<)




       (7) Carla Ravaioli, op.cit., p. 30. (<<)




       (8) Cambiare rotta, Dunod, l992, p. ll. (<<)




       (9) Carla Ravaioli, op. cit., p. 32. (<<)




       (10) Gérard de Bernis, Sviluppo sostenibile e accumulazione,
Tiers-Monde n° l37, p. 96. (<<)




       (11) Mesarovic et Pestel, Strategie per sopravvivere, Mondadori,
Milano 1974. (<<)




       (12) Un aumento del reddito (in senso hicksiano) senza danno al
capitale naturale permetterebbe di affermare che una crescita sostenibile
rappresenta una contraddizione in termini, non uno sviluppo sostenibile. V.
Gianfranco Bologna, "Italia capace di futuro" WWF-EMI, Bologna 2001, pp. 32
e ss. (<<)




       (13) NGR 1989 p. 14, Bonaïuti, op. cit., p. 54. (<<)




       (14) A dispetto della civetteria con cui viene contestata la saggezza
dei "buoni selvaggi", questa si fonda semplicemente sull'esperienza. I
"buoni selvaggi" che non hanno rispettato il loro ecosistema sono scomparsi
nel corso dei secoli... (<<)




       (15) Questa osservazione di Castoriadis richiama la saggezza
millenaria già evocata da Cicerone in "De senectute". Il modello dello
"sviluppo sostenibile" che realizza il principio di responsabilità è
descritto da un verso di Catone: "Pianterà un albero a vantaggio di un
altro
tempo". Lo commenta così: "Di fatto l'agricoltore, per anziano che sia, al
quale viene chiesto per chi lo pianta, non esita a rispondere: 'Per gli dei
immortali, che vogliono che non mi accontenti di ricevere questi beni dai
miei antenati, ma che li trasmetta anche ai miei discendenti' ". Cicerone,
Catone il vecchio (De senectute), VII-24, Les belles lettres, Parigi, 1996,
p. 96. (<<)




       (16) Bonaïuti Mauro, La "nuova economia" di Nicholas
Georgescu-Roegen.
ed. Carocci, Roma 2001, pp. 109 et 141. (<<)




       (17) Ibidem, p. 140. (<<)




       (18) Op. cit., p. 63. (<<)




       (19) Marie-Dominique Perrot, Globalizzare il non senso, L'Age
d'homme,
Losanna, 2001, p. 23. (<<)




       (20) Una bibliografia esauriente dei rapporti e dei libri pubblicati
sull'argomento dal famoso rapporto del Club di Roma in Andrea Masullo, "Il
pianeta di tutti. Vivere nei limiti perché la terra abbia un futuro". EMI,
Bologna, 1998. (<<)




       (21) A cura di Gianfranco Bologna, Italia capace di futuro, WWF-EMI,
Bologna, 2001, pp. 86-88. (<<)




       (22) E. Goldsmith, La sfida del XXI secolo, Le rocher, l994, p.330.
(<<)




       (23) Hervé René Martin, La globalizzazione raccontata a coloro che la
subiscono, Climats, 1999. p. 15. (<<)




       (24) Kate Soper, Ecologia, natura e responsabilità. Rivista del MAUSS
n° 17, primo semestre 2001, p. 85. (<<)


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NEUROGREEN
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