Buona descrizione, purtroppo inquinata da 1 torsione "questurina"
http://sherif.clarence.com/
Una delle prime conseguenze dell'embargo in Irak era l'aumento della
criminalità. La gente, per sopravvivere, commetteva infatti ogni tipo di
reato, a cominciare dai piccoli furti. Uno dei campi di attività criminale
più organizzati era, già prima della guerra, quello delle antichità:
semplici impiegati svendevano pezzi dissotterrati illegalmente o rubati nei
magazzini e, in alcune zone, bande armate non esitavano ad assaltare le
località archeologiche pur di svuotarle dalle antiche vestigia. Ma, nel
bene o nel male, il regime di Saddam manteneva la situazione sotto
controllo. Uno dei primi scenari del cosidetto "dopo-guerra" invece, che
tutti noi ricordiamo, era quello dell'orgia di saccheggio che ha toccato
palazzi presidenziali, istituzioni governative, ambasciate, banche,
esercizi commerciali, abitazioni private ecc. Le forze americane - occupate
a difendere il ministero del Petrolio - non hanno mosso un dito se non
tardivamente, dopo che è scoppiato lo scandalo del saccheggio del museo,
oggetto di un mio articolo sul Aljazira ed argomento ripreso pochi giorni
fa dalla Stampa in un articolo di un'intera pagina.
La decisione di Saddam, prima dello scoppio della guerra, di rilasciare
tutti gli "ospiti" delle prigioni irachene ha ovviamente contribuito a
rendere ancora più disastrosa la situazione. In un'atto sconsiderato e
oserei dire criminale quanto quello di Saddam, una delle prime decisioni
dell'ex-amministratore militare (anche se comunemente chiamato civile)
dell' Irak, Paul Bremer, era lo scioglimento dell'esercito e delle forze
dell'ordine irachene, a favore della costituzione di nuove forze militari
totalmente dipendenti dalle forze americane, meno equipaggiate e più
ridotte. In quel modo, sono venute a mancare le minime garanzie di legalità
nel paese. Da allora, si è scatenato il caos assoluto: bande armate non
esitano a sparare pur di rubare un portafoglio o una macchina, tanto
nessuno li perseguita. In alcuni quartieri bisogna addirittura guidare con
la pistola in pugno per non rimetterci la pelle. In un clima del genere,
ovviamente, è fiorito ogni tipo di attività criminale, inclusa quella dei
rapimenti.
La "resistenza" o il "terrorismo" con tutto questo, finora, c'entrano ben
poco. Sarebbe più corretto infatti parlare di una mafia organizzata che,
aiutata dal caos, ha cominciato a fare grossi affari proprio sulla pelle
degli iracheni, vittime anch'essi di queste bande. Molti genitori iracheni
per esempio hanno assunto guardie del corpo oppure scortano personalmente i
figli in giro, per evitare che vengano rapiti e non rilasciati se non dopo
l'avvenuto pagamento di un riscatto ammontante a cifre come 8.000 dollari
per bimbo, somme ovviamente sporpositate per un paese disastrato come
l'Irak attuale ma che vengono comunque pagate dai genitori che si
indebitano un po' dapertutto pur di riavere i propri figli. Questo
succedeva molto tempo prima dell'inizio dei rapimenti dei giornalisti,
operatori o lavoratori stranieri e della mediatizzazione di queste azioni.
Ma questo ovviamente faceva poca notizia e quindi quasi nessuno ne parlava.
Queste bande, ad un cero punto, hanno sicuramente capito che era molto più
redditizio rapire stranieri che iracheni o persone di altre nazionalità
calcolando che un governo occidentale - ostaggio della propria pubblica
opinione, sopratutto se impegnato nelle forze della coalizione - farebbe di
tutto pur di salvare un proprio cittadino da una situazione critica e
sicuramente sborserebbe di più. I governi arabi invece - poco influenzabili
dalle pubbliche opinioni - ragionano nello stile "se uno se ne va, altri
cento nascono" e quindi sono poco interessati ad impegnarsi per un
salvataggio, a meno che non si tratti di un personaggio importante. Questa
è almeno la percezione che i cittadini arabi hanno dei propri governi in
questi casi ed è per quello che quando viene rapito un arabo o un musulmano
(come già successo) l'opinione pubblica conta molto di più sul buon umore
dei rapitori che sull'impegno dei propri governi. Mi ricordo infatti ancora
quel video girato con autisti arabi rapiti in cui un autista diceva
"Mamma...se mi vedi in Tv, non ti spaventare: sappi che sto bene. Mangio
bene e dormo bene. I fratelli iracheni ci trattano benissimo, e tutto
questo è solo per spaventare gli infedeli e farli uscire dall'Irak. Non ti
preoccupare" cosi come quell' autista turco appena rilasciato ieri, che nel
video abbracciava i propri rapitori e baciava il Corano che gli veniva
regalato. Ovviamente lo fanno per ingraziarsi i rapitori, dal momento che
altri loro connazionali e correligionari, poveri diavoli andati li a
lavorare come loro - e di cui sentiamo ovviamente parlare molto poco - sono
stati uccisi lo stesso.
Dietro i rapimenti quindi, non è da escludere ci siano, almeno in prima
battuta, mafie organizzate che lo fanno a scopo di lucro. Non essendo di
stampo politico, a queste organizzazioni sono poco interessate a chi e cosa
sta facendo la prossima vittima designata in Irak. L'importante è
prenderla, poi si vedrà come quotarla sul mercato. Qualcuno sostiene
addirittura che lo facciano per conto di terzi, mandanti più importanti e
lontani: la tesi del "mandante", sottigliamente indicato come politico, è
stata già tirata fuori con la faccenda di Quattrocchi, ma poi si è rivelata
una tesi infondata. Adesso ritorna in galla con la vicenda dei giornalisti
francesi: qualcuno in effetti sospetta che dietro il loro rapimento ci
fosse la precisa volontà di umiliare la Francia per non aver appoggiato le
forze della coalizione e che ci sia stato un tentativo di sabotaggio della
loro liberazione dal momento che nell'ultimo comunicato i rapitori
avvertono che non accetteranno di essere attaccati alla consegna, come già
avvenuto l'ultima volta.
Il ruolo delle mafie organizzate che operano a scopo di lucro spiegherebbe
come mai persone apparentemente lontane dalla cerchia delle possibili
azioni di rapimento, come i giornalisti o gli operatori umanitari, ci
finiscano lo stesso. Ovvero spiega il "perché?" che tutti si sono posti
dopo l'uccisione di Baldoni e dopo quest'ultimo rapimento. E perché un
ostaggio turco viene rilasciato mentre un'altro, turco lo stesso, viene
ucciso. E' più che legittimo suporre che quando quelle bande non riescono
ad ottenere quello che vogliono in termini di denaro, o giustiziano
l'ostaggio oppure lo rivendono a qualche banda di integralisti che lo
sgozza senza battere ciglio e senza guardare in faccia nessuno. Come
commentava giustamente Lia , questi ultimi (ma anche i primi) non si
mettono a sindacare sulle motivazioni che hanno portato ognuno in Irak:
loro si trovano in mano un ostaggio straniero, per il quale hanno speso
energie e soldi e lo usano, consci del valore che rappresenta per la sua
società, altrimenti è tutto il "business" che salta. Le
esecuzioni-macelleria, ancora più mediatizzate e teatrali, garantiscono
l'efficacia delle minacce e quindi una maggiore "collaborazione" ed
"attenzione" da parte dei mediatori che dovrebbero interessarsi di casi
simili in futuro e trattare i pagamenti.
Un' opinionista, di cui mi sfugge il nome ora, ha detto che la tragedia di
Baldoni ha dimostrato che in quest'epoca mediatizzata, la guerra ha perso
la sua dignità: nessun giornalista inglese si sarebbe sognato di fare il
corrispondente da Berlino all'epoca della seconda guerra mondiale, perché
sarebbe stato fucilato immediatamente. In altre parole, conferma che su un
teatro da guerra, poco conta ciò che stai facendo davvero, basta ciò che
rappresenti con la tua nazionalità. E la stessa operatrice di Un Ponte per,
appena rapita, in un'intervista a la 7 ha detto che il loro operato "veniva
guardato con ostilità" nonostante fossero li ad aiutare la popolazione
perché tutte le dinamiche che hanno accompagnato la loro presenza erano
ambigue (il video è sul sito del Corriere). Questo ovviamente peggiora
ancora di più la situazione e fa si che il loro "valore" sul mercato dei
rapimenti sia pienamente legittimato agli occhi delle varie fazioni che
agiscono sul territorio iracheno.
Sono quindi due le considerazioni da fare: la prima relativa ai giornalisti
ed operatori umanitari che vengono rapiti ed uccisi con tanto di richieste
contradittorie che spaziano dall'abrogazione di una legge al ritiro delle
truppe passando dai riscatti. Essi dimostrano che ci sfugge ancora qualcosa
nell'ingranaggio interno che regola l'operato e le relazioni tra le varie
fazioni combattenti in Irak. Le richieste di pagamenti in contanti in
particolare (5 milioni per i francesi, l'ultima offerta) gettano molte
ombre sulle vere motivazioni di queste azioni e quindi sulla logica in base
alla quale vengono condotte (scelta dell'obiettivo, richieste, tempi ecc).
Studiare quell'ingranaggio a fondo ci aiuterebbe a prevenire queste azioni
e sopratutto a sbloccarle prima che sia tardi per l'ostaggio: è più facile
trattare con chi vuole denaro che con chi sgozza per "convinzione". Certo,
cedere al ricatto del denaro è odioso ma almeno una vita è salva senza
dover scendere - cosa che nessuno fa ovviamente - a compromessi politici,
ben più umilianti. Molti lavoratori americani sono stati rapiti in Sud
America, e l'unica strada per liberarli era quella del pagamento dopo
lunghe ed estenuanti trattative che abbassavano le cifre richieste.
L'impuntarsi invece, non volendo nemmeno cedere al ricatto del denaro,
significa condannare l'ostaggio facendolo passare in mano ai
fondamentalisti che non esitano ad uccidere sapendo che le loro richieste
politiche non verranno mai accolte. La domanda che la società si deve porre
è quindi questa: siamo disposti a pagare o a sacrificare quelle persone?
La seconda invece è relativa ai meccanismi interni che scandiscono la vita
dei media e degli operatori umanitari in quel teatro di guerra. Quelle
dinamiche "ambigue" che mescolano e strumentalizzano l'impegno
giornalistico o umanitario in chiave militare o politica (come gli embedded
per esempio) stanno mettendo in grande rischio il personale non militare.
Ecco perché, prima di pronunciarsi sulle colpe di chichessia in articoli
sensazionalistici, che mischino motivazioni e sviluppi, nutrendo speranze e
poi abbattendole, sarebbe utile permettere al pubblico di sapere quali
siano esattamente i sottili giochi dietro questo tipo di attività in Irak,
quali sono esattamente le strategie che i mediatori mettono in atto durante
le varie fasi delle trattative di cui finora il pubblico ha sentito sempre
parlare senza mai capire in cosa consistessero esattamente perché è alla
società nel suo insieme che spetta la valutazione dei rischi da correre e
delle decisioni di prendere in merito alla vita di queste persone.