[Cm-roma] Il nuovo maccartismo (scusate, e' lungo!)

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Il nuovo maccartismo

06/09 storie e reportage, STATI UNITI: Negli Stati Uniti del dopo-11 settembre si è scatenata la caccia alle streghe. Non più contro i comunisti, ma contro chi osa contestare il presidente Bush nella lotta al terrorismo


6 settembre 2004 - C’è chi ha perso il lavoro perché ha contestato Bush durante la campagna elettorale. Chi è stato sbattuto in cella per una notte perché portava un cartello polemico con il presidente. E anche chi è stato picchiato per aver osato dare spazio a chi ricordava la violenza in Iraq e le torture di Abu Ghraib. Storie dell’America del dopo-11 settembre, dove l’ossessione contro il terrorismo ha creato un pericoloso clima da caccia alle streghe.

Un’atmosfera che gli Usa hanno già vissuto cinquanta anni fa, all’inizio della guerra fredda, quando chiunque fosse sospettato di essere comunista veniva perseguito dal governo, e un’audizione del senatore repubblicano Joseph McCarthy poteva bastare per essere additato a quinta colonna dei sovietici e vedersi stroncata la carriera. Oggi è cambiato il nemico, l’ostilità è magari più sottile e la discriminazione non è diventata di Stato, ma le analogie restano. E c’è chi, riferendosi a quel periodo, parla ora di “nuovo maccartismo”.

“L’amministrazione Bush sta sistematicamente attaccando le libertà civili di questo Paese – dice Matthew Rothschild, editorialista della rivista The Progressive – con leggi come il Patriot Act, che danno alla polizia enormi poteri e restringono il diritto alla privacy dei cittadini. C’è un’atmosfera strana, un brivido nell’aria, quando qualcuno osa parlare male del presidente”. Una considerazione che il giornalista fece già nel gennaio 2002, quando scrisse un articolo sul nuovo fenomeno. Da allora, Rothschild tiene una rubrica intitolata “osservatorio sul nuovo maccartismo”, che raccoglie tutti i casi di intimidazione contro chi esprime pareri negativi su Bush. In due anni e mezzo, la lista è arrivata a comprendere 120 episodi.

Uno degli ultimi riguarda Glenn Miller, un grafico che il 17 agosto è andato – su permesso dell’azienda pubblicitaria per cui lavora – ad ascoltare un comizio del presidente nel West Virginia. Sentendogli collegare l’11 settembre alla guerra in Iraq e vantarsi dello stato dell’economia Usa, Miller è sbottato, gridando per far arrivare le sue domande a Bush. Subito sono comparsi due responsabili della campagna, minacciando di arrestarlo. Ma la sorpresa, per Miller, è arrivata il giorno dopo, quando gli è stato comunicato il suo licenziamento “perché le sue azioni erano inaccettabili e avevano un effetto negativo sull’azienda”. I suoi datori di lavoro hanno usato come pretesto il fatto che un cliente della società, il distretto scolastico della contea, si era indignato per il suo comportamento. Una circostanza che in seguito il sovrintendente del distretto ha seccamente smentito.

Un altro esempio di come in questo momento una parte degli States considera gli oppositori del presidente: in luglio un gruppo di attivisti pacifisti ha simulato, al passaggio del convoglio presidenziale in una parata, la pila di prigionieri nudi resa famosa da una delle foto scattate ad Abu Ghraib. La reazione della folla è stata immediata: “Hanno cominciato a insultarci pesantemente – ha raccontato uno di loro –. Poi un tipo è venuto là e ha detto ‘Non mi frega di quante persone dobbiamo ammazzare, finché il prezzo della mia benzina rimane basso’”. Nel giro di pochi minuti è arrivata la polizia, ammanettando tutti gli attivisti senza nessuna accusa precisa. “Ho sentito che un agente andava in giro chiedendo ai sostenitori di Bush se avevano foto dove si vedevano i nostri genitali, perché sarebbe stato più facile condannarci per oscenità. Ma avevamo addosso le mutande”, ricorda uno degli arrestati.

“La situazione è ulteriormente peggiorata, rispetto a quando scrissi quell’articolo – spiega Rothschild –. Nell’America di oggi si può essere arrestati per aver tenuto su un cartello contro Bush. Di solito l’accusa è il disturbo della quiete pubblica, ma in realtà è un pretesto per un arresto completamente illegale. Nella maggior parte dei casi si viene rilasciati nel giro di 24 ore, giusto il tempo di rimuovere individui indesiderati dai luoghi dove si reca il presidente. Ma il Primo Emendamento della costituzione, che tutela la libertà di pensiero e di espressione, è sempre più sotto assedio”.

Il problema non è solo il pugno duro usato dalla polizia. Sono le reazioni dei sostenitori più irriducibili della guerra al terrorismo, che a volte passano alle minacce – nonché alla violenza – contro chi critica la politica della Casa Bianca. Lo ha provato sulla sua pelle Lori Haigh, una gallerista d’arte di San Francisco che aveva esposto un quadro raffigurante le torture nelle carceri irachene. Prima le hanno lanciato uova e spazzatura contro l’entrata della galleria. Poi ha ricevuto lei stessa circa 200 tra minacce di morte, e-mail e telefonate inquietanti. Una mattina un uomo è entrato nella galleria e le ha sputato in faccia. Infine, qualche giorno dopo un altro uomo ha bussato alla porta, e appena Lori ha aperto lui l’ha colpita con un pugno in faccia, rompendole il naso e facendole perdere i sensi.

Il “nuovo maccartismo” colpisce anche gli intellettuali, come è capitato a Chris Hedges, un giornalista del New York Times in passato vincitore del premio Pulitzer. Nel maggio dell’anno scorso, due mesi dopo l’intervento Usa in Iraq, Hedges fu il primo a parlare alla cerimonia di laurea del prestigioso – e tendenzialmente “liberal” – Rockford College. Disse che gli Stati Uniti “si stavano avviando verso un’occupazione che avrebbe danneggiato il loro prestigio e il loro potere, nonché la loro anima e la loro sicurezza”. Bastò per scatenare la reazione di una parte del pubblico, che lo fischiò e interruppe ripetutamente il suo discorso. Quando spiegò che “non ci libereremo dei terroristi che ci odiano usando le bombe. Anzi, diventeranno ancora di più. Dopo l’invasione dell’Iraq siamo meno sicuri, e pagheremo per questo”, alcune persone si alzarono dalle poltrone e cercarono di salire sul palco per fargli rimangiare quelle parole.

Ma questa nuova atmosfera è percepita dall’americano medio, che si interessa poco di politica, oppure è considerata una faccenda che riguarda pochi pacifisti? “Sempre più persone sono preoccupate di non poter esercitare come prima i loro diritti – spiega Rothschild, si rendono conto che è sempre più difficile dire quello che si pensa. Poco tempo fa ero a un incontro di un’associazione di anziani nel Wisconsin, non proprio l’identikit tipico dei contestatori. C’era grande interesse, facevano tante domande”. E le parole del giornalista devono aver fatto un certo effetto, almeno su qualcuno: “Alla fine dell’incontro – continua Rothschild – una donna mi si è avvicinata. Voleva abbonarsi a The Progressive. Ma mi ha chiesto se potevamo farglielo arrivare a casa avvolto in una carta non trasparente, per paura che i vicini vedano che legge una rivista fortemente contraria a Bush”.

Alessandro Ursic

(http://www.peacereporter.net/it)








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