Allego intervista a Eduardo Galeano su Il Manifesto di ieri
Galeano sarà a Lucca il giorno 21 settembre invitato dalla Scuola per la Pace
TRA VOCI E CORPI / INTERVISTA
Contro la tirannia della paura con parole senza pelle né grasso
Eduardo Galeano PARLA LO SCRITTORE URUGUAIANO «Sono diventato un perfezionista, capace di morire per un avverbio, di tirare fino alle cinque della mattina se non trovo un aggettivo. In America Latina le cose stanno cominciando a cambiare, bisogna unirsi contro la paura e contro la tradizione dell'impotenza che spinge a accettare l'indegnità come destino»
MARCO DOTTI
JONNI COSTANTINO
«Si tratta solo di storie, tante piccole storie scritte per raccontare un'altra storia». Difficilmente Eduardo Galeano accetterebbe di presentare con parole diverse il suo ultimo lavoro, Le labbra del tempo (Sperling & Kupfer editori, 2004, 352 pagine, 16 euro), da ieri in libreria nella versione di Marcella Trambaioli, una delle sue traduttrici più attente e fedeli. Il libro consiste di racconti minimi, incastonati tra alcune incisioni anonime, piccole macchie poetiche provenienti dalla regione peruviana di Cajamarca, che Alfredo Mires Ortiz ha raccolto per illustrare il volume. Anche le storie piene di poesia, spesso involontaria, che Galeano ascolta per strada, o nel corso dei suoi viaggi, sono storie «anonime», che lui sostiene di limitarsi «a tradurre e interpretare», liberando «il coefficiente di bellezza o di orrore» già latente, fra le loro pieghe. In Italia per presentare il suo libro, Eduardo Galeano ha fatto tappa a Piacenza, dove è stato ospite della rassegna «Carovane», nel cui contesto si è svolta questa conversazione.
La sua è una scrittura molto «leggera», piana, ironica, tesa quasi al disincanto. Quanta fatica le costa accordarsi al suono di questa «petite musique»?
Molta fatica. Pago un prezzo altissimo. Col passare degli anni il peso è aumentato perché sono più intransigente, sono diventato un perfezionista, capace di morire per un avverbio, di tirare fino alle cinque della mattina perché non trovo un aggettivo. Mi costa moltissimo cercare la parola, incontrarla. È molto difficile afferrarla, fugge via. Riscrivo i testi una, due, cinque, dieci, venti volte, e sacrifico molto. Quando le cose non tornano, mi ripeto: «non c'è musica. La musica è un'altra». Costa fatica, sì, troppa fatica. È quasi un dolore fisico, ma è pure una festa. La sensazione di comunione col mondo che ti dà il linguaggio nudo non ha paragoni. È un'allegria grandissima. Perché, in quel momento, sulla carta non è rimasta neppure una parola che non sia nata dalla necessità. Non una parola che non sia legittima, perché le sole parole legittime sono quelle che nascono dall'urgenza di dirle: è la mia unica regola, tutte le altre sono sciocchezze.
Anche per questo predilige le forme brevi e i procedimenti quasi aneddotici?
Amo le forme brevi, e la brevità in genere, perché, come gli inglesi, anch'io credo che «less is more». Sono passati molti anni da quando ho terminato di scrivere Le vene aperte dell'America latina. Da allora ho cercato di scrivere in spazi sempre più corti, sviluppando una prosa scarna, semplice, nuda. Senza pelle, né grasso, fatta esclusivamente di ossa e di carne. Posso sperare di raggiungere questo risultato solo al termine di un processo di riscrittura che mi impone di tornare costantemente su ogni testo, tagliando le parole superflue. Tradotto in termini editoriali, al posto di «edizione aumentata e corretta», nel mio caso dovrei dire «edizione abbreviata e corretta».
Juan Rulfo ha consumato una vita su questo lavoro. Anni, all'apparenza improduttivi, trascorsi a scarnificare la lingua.
Fu il mio maestro. Un giorno mi fece vedere la matita con cui lavorava. Era una matita comunissima, di quelle che da un verso hanno la mina con cui scrivere, e dall'altro una gomma per cancellare gli errori. «Osserva bene», mi disse indicando la punta della matita, «non è con questa, ma con quest'altra che scrivo». Scriveva cancellando. Il problema è come far sì che la realtà, che è tanto complessa, contraddittoria, misteriosa, inafferrabile, possa essere comunicata. Come riuscire a raccontarla, come raccontare ciò che non tollera di essere afferrato, tanto meno dalla parola. La realtà in ogni sua dimensione: ciò che è, ciò che non è, ciò che sembra essere, la veglia e il sogno, il senno e la follia della realtà. Come riuscire a tradurre tutto questo se non con le vibrazioni essenziali che possono sperare di trattenere un'eco, come la risonanza di un diapason. La parola deve avere questo effetto di musicalità. Poiché il linguaggio letterario è un linguaggio musicale, per riconoscerne la qualità occorre scandirlo a voce alta, per capire se il significato «suona». Quando questo riesce, quando ciò che racconto lo racconto come devo, allora - nell'instante stesso in cui lo sto scrivendo - accade.
Vuol dire che plasma la realtà, altra realtà?
Esattamente. Perché tutto ciò che è successo, succeda un'altra volta. È un'incessante rinascita attraverso il linguaggio. Ciò che è stato, sarà ancora una volta. Ma non nello stesso modo. La rinascita avviene per scarti. In chi racconta, in chi ascolta o legge, tutto ciò che torna, torna in forme sempre nuove.
Dunque, ciò che si ottiene, alla fine, è una specie di mosaico, dove ogni storia altro non è che la sintesi policroma di altre storie. Come la pagina su cui ogni scrittore traccia i propri segni, pare che anche il costume di Arlecchino in principio fosse bianco. Le pezze che lo ricoprono, o per meglio dire lo compongono, sarebbero apparse solo in seguito, registrando i segni di tutti i corpi sfiorati dalla maschera nel corso della vita. Ne risultò, infine, l'abito che conosciamo. Potremmo applicare questa immagine anche alla sua scrittura?
Proprio come nel caso di Arlecchino, anche io raccolgo storie, frammenti di storie che restano attaccate ad altre storie, e danno vita ad altre storie ancora, sempre uguali e sempre nuove. Presso gli indiani del Nuovo Messico, in quel vasto territorio che un tempo era messicano e ora è occupato dagli Stati Uniti d'America, si è mantenuta un'antica tradizione, quella dello «storyteller». Si tratta di una statuetta di ceramica, molto graziosa, uomo o donna secondo i casi, che ha tante piccole figure attaccate. Altri uomini e altre donne che salgono dalle narici, escono dalle orecchie o dagli occhi. Per tradurre questa figura in termini letterari, potremmo dire che lo «storyteller» è un uomo «pieno di gente». La sensazione che si prova raccontando storie - trasfigurandole quindi, non illudendosi di riportarle così come si ascoltano - è che proprio in questo andirivieni, in questa andata e in questo ritorno, tra ciò che uno ascolta, dice, racconta, trasfigura, si riscopre una moltitudine di corpi e di storie.
Dove raccoglie le sue storie?
Giorno per giorno, dove capita. Fra tutte quelle che «incontro» per strada e mi vengono raccontate, le storie che preferisco sono quelle dall'apparenza più quotidiana. Io sono uno che si perde sempre, anche in casa mia. Credo di andare in bagno, ma mi accorgo che sono entrato in camera da letto, vado in camera da letto e mi ritrovo in cucina... Un giorno mi sono perso a Cadice, una città che amo e conosco molto bene. Ero al mercato, ho chiesto informazioni, e un uomo mi ha detto: «Vai, e fa quello che la strada ti dice». È una frase semplice, ma semplicemente impossibile. Perché quell'uomo non mi stava dando una banale informazione, mi stava spiegando cosa può essere il viaggio nel mondo. «Fa quello che la strada ti dice». Segui le sue indicazioni, se vuoi andare per il mondo. Perché la strada ti parla, e ti sta dicendo che tutto vale la pena, ogni cosa deve essere ascoltata. Tutto. Anche il silenzio. Il silenzio è un linguaggio, un linguaggio molto ricco e articolato. E quando parla il silenzio, allora la parola non può risuonare. Il silenzio è carico di tutte le parole, e deve essere ascoltato.
Anche in questo ritorna la sua idea di «necessità del dire»?
Penso al linguaggio «primitivo», alla gente che usa poche parole, che non ha cultura. Uso questa parola, solo per spiegarmi meglio. Dal punto di vista degli esperti, i «primitivi» sarebbero persone di poco conto, perché possiedono un linguaggio «povero». Per non essere «povero», cosa dovrebbe essere, «miliardario»? Invece è impressionante e spaventosa la ricchezza che custodiscono. Al contrario, il linguaggio di molti «eruditi» è di una povertà imbarazzante e penosa, perché non nasce dalla necessità del dire. Alla base del linguaggio c'è sempre una necessità espressiva. In America latina si verificano casi sempre più frequenti in cui gli indigeni sono costretti a parlare lo spagnolo, che molti di loro generalmente non dominano. Pur conoscendo solo poche parole, la corruzione cui sottopongono la lingua ha un impatto espressivo talmente forte da provocare una specie di rottura. Dove l'esperto vede un errore, io vedo una breccia. Una ferita, un taglio espressivo, una nuova risorsa del linguaggio. Qualche tempo fa, per un congresso mi trovavo a Lima, una città grigia, sempre coperta di nuvole. Per strada, mi è capitato di vedere un indio, con lo sguardo rivolto al cielo. Ricordo bene le sue parole: «Povero cielo, che vorrebbe piangere, ma non può». Trovo questa frase di grande bellezza poetica, sebbene nominasse una verità oggettiva. Anche i bambini molto piccoli hanno questa capacità poetica, ma poi la perdono. Come diceva George Bernard Shaw: «all'età di sette anni dovetti interrompere la mia educazione per andare a scuola».
Ha scritto che «la guerra è la prosecuzione della tv con altri mezzi», mettendo la frase in bocca a un von Clausewitz redivivo intento a fare zapping. Pensa la stessa cosa anche di Internet?
Confesso che sono pentito: ho parlato molto male di questo strumento, per via di alcuni pregiudizi che avevo. E certamente, non ho cessato di essere diffidente. A volte credo che la macchina «lavori di notte», che in qualche modo ci condizioni, e mentre noi crediamo di servircene è lei che si serve di noi. Comprendo quanto tutto ciò sia semplicistico, è solo un sospetto, non una convinzione profonda. Comunque, anch'io mi servo del computer, ma solo per spedire agli editori la versione finale di ciò che scrivo a mano. Così mi salvo dal demone dei refusi tipografici e dai fraintendimenti che spesso funestano le attività redazionali quando si devono trascrivere i testi. Ma nutro sempre il sospetto che, un giorno, saremo programmati dai computer, mossi dall'automobile, comprati dalle carte di credito e dai supermercati. Sarà un pregiudizio, il mio, e come tale ingiusto, ma nasce dal profondo turbamento che mi dà una società che ci induce a convertirci in strumenti del nostro strumento, dove i mezzi diventano fini. Nel suo film Bowling a Columbine, Michael Moore ha spiegato, in termini diversi, servendosi del linguaggio che gli è proprio, questo processo di riduzione, che è al tempo stesso un processo di costruzione della paura, una paura che sta contagiando ogni cosa. La sua diffusione avviene come un gas paralizzante di ogni aspetto della vita. C'è una dittatura del «non si può». Non si può fumare, non si può amare, non si può parlare, non si può ricordare. C'è un timore diffuso e paralizzante che impedisce di vivere. E la paura viene usata come pretesto dal terrorismo: quello «privato», perché chi fabbrica la paura è il terrorismo di Stato, che non può certo confessare le proprie intenzioni. Questa forma di terrorismo si serve del timore e del fanatismo per imporre il proprio dominio attraverso la logica del «non si può». È questo fatalismo, che potremmo chiamare ideologia dell'impotenza, che blocca i governi progressisti dell'America latina creando un muro di gomma contro cui sbattono tutte le migliori intenzioni di riforma. Questa ideologia, questa paura, questo fanatismo vengono strumentalizzati in maniera molto efficace dagli organismi economici internazionali, a cominciare dal Fondo monetario. Non c'è governo che possa agire contro questa «ideologia». Le cose, in America latina, cominciano però a cambiare. Cominciano soltanto, ma se i governi programmassero di muoversi insieme sarebbe un primo passo, importante, contro il finto progressismo che sa dire solo «non si può». Bisogna unirsi contro la paura e contro la tradizione dell'impotenza che spinge ad accettare l'indegnità come destino. L'indegnità, che è una cosa di per sé intollerabile, attraverso questa tradizione della paura diventa un destino ineluttabile. Un mondo paralizzato dalla paura è un pericolo terribile che rischia di segnare il cammino della libertà.
Nell'ultimo capitolo del suo libro A testa in giù lei parla di un «diritto al delirio». Che ruolo attribuisce, dinanzi allo sfascio che ci circonda, a questo diritto?
È un testo in cui mi identifico molto. Io credo che per potersi collocare, in un mondo che sta veramente a testa in giù, bisogna cambiare lo sguardo, perché tutto dipende dal punto di vista. Per poter vedere davvero com'è il mondo occorre conoscere il nostro punto di vista. Dal punto di vista di un verme, un piatto di spaghetti è un'orgia. La realtà è molteplice, diversa, troppo complessa per farsi racchiudere da un principio o da una verità universale. Ogni «centro del mondo», in quanto verità universale che nega ogni altro punto di vista, e quindi nega l'idea stessa dell'altro, è pericolosa. Bisogna essere profondamente rispettosi della diversità del mondo, che è una diversità di punti di vista. Nel mio ultimo lavoro, Le labbra del tempo, c'è un testo titolato proprio in questo modo, «Punti di vista». Nella mitologia degli indios Ishir, come in tutta la mitologia universale, gli uomini rubano qualcosa agli dei. Prometeo rubò il fuoco, gli Ishir hanno rubato i colori. Grazie a loro il mondo non è più grigio. Qualche tempo fa, Ticio Escobar, un mio amico paraguaiano, accompagnò un'équipe televisiva europea che voleva filmare scene di vita quotidiana di questi indigeni. C'era una bambina che seguiva come un'ombra il regista francese, il quale aveva dei bellissimi occhi azzurri. Quando il regista le chiese come mai lo seguiva, la bambina rispose che voleva sapere di che colore vedesse il mondo. «Del tuo stesso colore», le rispose il regista. La bambina, indispettita, replicò: «E lei che cosa ne sa di che colore vedo io le cose?» La più grande ricchezza risiede nella diversità degli occhi che guardano il mondo, nella quantità di mondi che il mondo contiene. Per questa ragione dobbiamo cercare con ogni mezzo di salvare la pluralità di sguardi e di mondi che, giorno dopo giorno, viene non minacciata, ma massacrata da questa cosa che qualcuno si ostina a chiamare globalizzazione, mentre altro non è che una riduzione dei punti di vista ad un unico punto di vista. La sottrazione dei mondi alle diversità che li abitano.
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