[Lecce-sf] Dal manifesto di oggi

Delete this message

Reply to this message
Autore: rabelot@libero.it
Data:  
Oggetto: [Lecce-sf] Dal manifesto di oggi
Buona lettura
melissa
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------




Dal ghetto al culto delle differenze. Modelli di accoglienza per migranti
Stranieri in patria


L'esperienza del multiculturalismo è la risposta alla cultura della segregazione che ha caratterizzato tanto le società antiche che quelle moderne. Ma alla sua base c'è l'idea di comunità etnicamente omogenee e potenzialmente nemiche. Ed è all'interno di questo modello di integrazione che fioriscono i grandi o i piccoli ghetti dove i migranti possano trovare rifugio nel loro viaggio in terra straniera
La reazione politica alla crisi del modello multiculturale enfatizza il valore e l'apporto di ogni cultura alla vita sociale. L'integrazione è quindi resa possibile dall'intervento regolatore dello stato. Ma la via d'uscita dallo smarrimento dei migranti è nella tensione alla cooperazione di uomini e donne che hanno reciso i legami con visione statica delle proprie identità e culture etniche
SERGIO CUSANIPINO TRIPODI
Nella storia delle società europee e in quella statunitense sono emersi alcuni modelli culturali per affrontare i flussi migratori con cui quelle stesse società hanno affrontato i flussi migratori: quello endoculturale; l'altro basato su una concezione multiculturale delle relazioni all'interno di una nazione; il modello interculturale e, infine, quello transculturale. In base al modello seguito, o più semplicemente alle consuetudini sociali derivanti, si sono altresì costituite prassi differenti di accoglienza e di inserimento dei migranti nelle realtà d'arrivo tali da configurare corrispondenti economie politiche delle migrazioni.

Il modello endoculturale è apertamente xenofobo. La presenza straniera è rifiutata allo scopo di proteggere culture, società, religioni ed economie locali. Gran parte degli attuali stati autoritari, seppur in modo molto differente tra di loro, si inscrivono in questo modello. Ma anche le società antiche o moderne non lo hanno disdegnato. Ma anche se è stato presente nelle società di ogni tempo, il modello endoculturale è sempre fallito. In primo luogo perché la xenofobia proietta la sua autolesionista ombra non solo contro le popolazioni di altri stati, ma anche all'interno della nazione in cui il razzismo si manifesta.

Le frontiere oltre le quali cercare un nemico possono infatti essere individuate nell'ambito del medesimo stato, regione, provincia, comune, quartiere, dato che la xenofobia concepisce potenzialmente chiunque come straniero. E tuttavia, gli uomini e le donne migrano da sempre e nessuna «Grande Muraglia» è mai riuscita ad arrestarne il flusso. Più che a bloccare le migrazioni, il modello endoculturale è dunque uno strumento per relegare gli stranieri in una condizione di inferiorità permanente e per scagliare contro un facile e circoscritto nemico i problemi irrisolti di ogni società. L'«endoculturalità» esprime una particolare economia politica della paura che sarebbe un errore trattare esclusivamente con categorie morali.

Economia della paura

L'economia politica della xenofobia assegna infatti alle società d'arrivo tre vantaggi: l'uso dei saperi dei migranti a basso costo; 2) la loro esclusione dai diritti sociali; 3) trattarli come capro espiatorio e sacrificarli (cacciarli) durante le fasi di crisi economica. Per questi elementi, la xenofobia più che un moto dell'anima andrebbe analizzata sul piano socio economico come una particolare forma di rendita di posizione. Ovviamente, gli stati democratici, che declamano nelle loro carte costituzionali universalismo e uguaglianza, rifiutano il modello xenofobico endoculturale, ma non rinunciano certo alla rendita derivante dall'uso dei migranti.

Il modello multiculturale è invece il primo modello di accoglienza che si afferma nelle società democratiche moderne e coniuga rifiuto della xenofobia e «capitalizzazione» della rendita. Non è certo una novità affermare che lo stato dove maggiormente si è sviluppato sono gli Stati uniti, anche se la «multiculturalità» viene ancora teorizzata e insegnata nella quasi totalità delle scuole e delle società del pianeta. Il multiculturalismo è stato ed è tuttora un tentativo di anestetizzare la xenofobia e il razzismo senza però perderne i vantaggi.

In questo modello, la comunità etnica è posta al centro della vita politica e costituisce l'architrave fondamentale della struttura sociale. È declamato il culto della convivenza, ma ciascuna comunità viene spesso relegata in spazi separati: convivenza, infatti, non vuol dire uguaglianza. Nel multiculturalismo, ciascuna cultura rivendica la propria superiorità sulle altre al punto che il modello della segregazione viene sostituito con quello della separazione. Ovviamente, la società statunitense rifiuta, per via giuridica, di «ghettizzare» lo straniero, ma al suo interno sono proliferati i ghetti delle variegate comunità separate, che convivono l'una accanto all'altra nello spazio urbano senza che questo attenui la reciproca ostilità.

Inoltre, uno degli effetti del multiculturalismo è la crescita di una «cultura della separazione» nella quale il migrante o decide di diventare in tutto e per tutto simile all'autoctono o si condanna a vita nell'ergastolo della cultura e della comunità d'origine. Al di là della fine del regime segregazionista, la società statunitense è dunque quanto mai lontana da un modello universalistico. Si fonda viceversa sulla presenza di comunità separate e potenzialmente nemiche che cercano di conquistare crescenti rendite di posizione nella redistribuzione delle risorse. Ciascuna comunità ha infatti i suoi luoghi, le sue scuole, i suoi quotidiani, le sue radio, le sue tv, le sue lobby di potere. Nello stato che professa l'individualismo più sfrenato, senza adesione al legame comunitari su base etnica si è dunque autentici stranieri.

Riti di passaggio

Nel modello multiculturale, il migrante trova nella società d'arrivo le condizioni per il perpetuarsi della lingua, della cultura e della società d'origine, ma così facendo compie il passo del gambero, coltivando la memoria e la nostalgia come viatici del nuovo cammino in terra straniera.

In altri termini, il multiculturalismo esige che la comunità chiusa etnoculturale sia un passaggio obbligato e privilegiato nei rapporti tra singoli e potere. La posizione sociale di ciascuno dipende in buona misura dalla forza della comunità di appartenenza e dal proprio peso in essa. Il modello multiculturale è stato sicuramente il primo vaccino contro il razzismo e ha consentito la convivenza tra comunità separate, gelose della propria storia e delle proprie tradizioni. E tuttavia, ciascuna comunità rimane convinta della propria superiorità. Per questo motivo, la società multiculturale diventa un unico grande ghetto sociale nel quale le varie comunità etniche, indipendentemente dalla loro ricchezza, manifestano reciproco disprezzo e ostilità al punto che le tensioni razziali esplodono periodicamente in rivolte generalizzate che sfuggono a qualsiasi struttura conflittuale classica. Inoltre, nelle società multiculturali è vigente un apartheid organizzato con il consenso delle parti, dove la rappresentanza e il controllo sociale sono in rapporto inversamente proporzionale alla posizione sociale delle varie comunità etniche. Infine, va sottolineato che all'interno di ogni comunità si riproducono gerarchie, discipline, strutture di dominio più assolute di quelle statuali e con deboli sistemi di tutela dei diritti individuali. La parola d'ordine più propria delle società multiculturali è: separare per dominare.

Il modello interculturale si afferma invece in Europa proprio a partire dai limiti dell'esperienza multiculurale ed è fortemente influenzato dalla antropologia cosiddetta differenzialista che si è diffusa nel secondo dopoguerra.

Antropologia della differenza

Nel modello antropologico differenzialista, infatti, tutte le culture non solo hanno pari dignità, ma sono uguali tra di loro. Le culture vengono quindi riconosciute e valorizzate non nella separazione in ghetti etnico-comunitari, ma nel reciproco confronto continuo. Non esistono culture superiori e inferiori, ma solo culture differenti che esprimono un grande valore dell'intera umanità. L'«interculturalità» esprime dunque un vero e proprio culto delle differenze, ma concepisce le culture come valore da proteggere, tutelare, conservare. Il singolo è sempre pensato come membro di un gruppo comunitario, anche se la comunità di provenienza viene spesso rappresentata come un fenomeno folcloristico privo di contenuti identitari primitivi come il sangue e il suolo. La diversità viene così spuntata dell'arma letale della superiorità che possedeva nel modello multiculturale. Il diverso non è più un nemico, anzi è «bello».

I punti forti del modello interculturale possono essere così sintetizzati: 1) ha costituito il secondo vaccino contro il razzismo; 2) la differenza si produce nell'uguaglianza; 3) la valorizzazione di sé avviene senza negazione dell'altro; 4) a qualsiasi cultura viene riconosciuta legittimità d'esistenza e parità di trattamento. Questi elementi positivi non cancellano quelli negativi: la creazione di identità posticce (si pensi all'identità araba dei beurs francesi) magari peggiori e più oppressive di quelle originali; 2) la produzione di un'estetica dell'uguaglianza che si è rivelata impotente nei confronti delle profonde differenze sociali tra diverse comunità o addirittura all'interno delle comunità; 3) «la comunità impossibile» spesso si trasforma in comunità terribile.

Quest'ultimo aspetto si può cogliere in tante periferie metropolitane europee, in particolare in Francia, dove il fenomeno beur ha messo in profonda crisi l'ideologia interculturale. L'ossessione per l'identità culturale, ritenuta un elemento fondamentale di integrazione sociale, ha prodotto molti mostri, tra cui quello del razzismo differenzialista, l'ultimo maquillage della destra europea. E' in questo contesto che trae alimento l'idea della comunità come fonte di benessere e di salvaguardia identitaria. Il modello interculturale ha altresì creato dei veri e propri feticci comunitari tra i migranti d'Europa - e soprattutto tra i loro figli - che in questo modo devono affrontare un doppio rifiuto sociale: sono considerati arabi dai francesi e francesi dagli arabi.

Tutti i modelli fin qui considerati eleggono la comunità a elemento più consono dell'espressione sociale degli individui e dei migranti. L'utilità di tali approcci deriva fondamentalmente non dai sui presupposti di verità, ma dalla sua efficacia in termini di controllo sociale. I flussi migratori, in qualunque modo si siano storicamente affermati, costituiscono infatti la più importante messa in discussione delle identità comunitarie. Ne sono addirittura il più importante vaccino. Per migrare occorre infatti essere disponibili a rompere i propri legami comunitari distaccandosi dalla realtà d'origine e pronti a destituire di fondamento i legami comunitari delle società d'arrivo.

Irripetibili singolarità

Il migrante che nelle società di arrivo è costretto a rifugiarsi nell'appartenenza comunitaria non vede preservata la propria cultura di origine, ma conosce lo stigma razzista che lo considera inferiore. Per questo motivo, il migrante che aspira alla propria libertà deve anzitutto recidere i legami comunitari che lo vincolano a una condizione di subalternità nei confronti del mercato del lavoro spesso di tipo schiavistico nel quale la gerarchia di comando e di oppressione spesso esercitata da appartenenti alla propria società di origine.

Il quarto modello è quello transculturale, che si sta affermando negli interstizi di ciascuna società malgrado le istituzioni e gli stati che nulla fanno per promuoverlo. Il modello transculturale prende atto che non vi sono mai culture autorigenerantesi all'infinito: semmai accetta il dato di fatto che ogni cultura è tesa alla sua trasformazione continua. Un fattore tanto più evidente nelle società contemporanee dove è possibile rintracciare stili di vita, costumi, abitudini, riti simili in tutto il pianeta. In altri termini, ogni uomo o donna, tanto più se migrante, vive in un continuo condizione di transito nel quale convivono più culture.

Nel modello transculturale ogni differenza non allude dunque a privilegi né ad alcuna discriminazione. Semmai esige che gli uomini e le donne, migranti o meno, godano delle medesime universali possibilità di movimento. Questo modello non tollera che alla libera circolazione di capitali e merci non si accompagni la libera circolazione di uomini e donne. Ogni persona, infatti, ha diritto di essere considerata e valorizzata nella sua unicità e irripetibilità. I punti forti di questo modello possono essere considerati i seguenti: 1) è un terzo vaccino, il più potente, contro il razzismo; 2) consente la messa in mora del dualismo individuo-comunità; 3) consente una gestione pragmatica dei livelli d'inserimento sociale privi di obblighi in vincoli comunitari; 4) favorisce l'autonomia individuale nel decidere il proprio percorso esistenziale. Le sue parole d'ordine chiave sono l'interazione e la cooperazione, perché le gabbie possono proteggere uno spazio, ma l'aria se ne fa sempre beffa.



ERRORI DI REGISTRAZIONE

Nel commento di Rossana Rossanda alla lettera del Cardinale Ratzinger (22 agosto) sono scivolati diversi errori di registrazione. A parte la scrittura di Jahvè ridotto a Jave, la citazione di Paolo va letta «in Cristo non sono maschio e femmina» invece che «non ci sono»; la tendenza diabolica non è «a uccidere il suo corpo» ma «a decidere del suo corpo»; e «non è nuziale il rapporto di Dio con Israele» è seguito da un punto interrogativo perché non è una negazione, al contrario. Ce ne scusiamo con Rossana Rossanda e con i lettori.