I cambiamenti introdotti dalla riforma Maroni
I giovani lavoreranno da 3 a 8 anni di più
La pensione percepita a fine carriera, nei migliori dei casi, non supererà il 60% dell'ultima retribuzione
ROMA - I giovani lavoreranno più a lungo, da un minimo di tre a un massimo di otto anni, rispetto alle regole della riforma Dini (1995). Ma, a meno che non abbiano avuto un lavoro ben retribuito e continuo, la pensione che riceveranno sarà comunque bassa. Nel migliore dei casi non supererà il 60% circa dell'ultima retribuzione. Ciò a causa del metodo di calcolo contributivo introdotto dalla Dini e confermato dalla riforma Maroni. Mentre i lavoratori anziani, che beneficiano del vecchio calcolo retributivo, possono arrivare fino all'80% e oltre dell'ultima busta paga. I giovani, quindi, sono quelli che più di tutti avrebbero bisogno di integrare la futura rendita con la pensione complementare. Chi farà questa scelta, però, dovrà rinunciare alla liquidazione (in tutto o in parte), per finanziare i fondi dove far maturare questa pensione di scorta. Sempre ammesso abbia un posto fisso e quindi il Tfr (trattamento di fine rapporto) e non sia invece un co.co.co. (collaborazione coordinata e continuativa) o un altro tipo di lavoratore atipico, che non ha diritto agli accantonamenti per la liquidazione. Insomma, sono ancora una volta i giovani a pagare il conto più salato. Lo avevano già fatto con la riforma Dini e tocca di nuovo a loro con la riforma Maroni.
57 ANNI ADDIO - La legge Dini prevedeva che tutti coloro che cominciavano a lavorare da gennaio 1996 in poi potevano andare in pensione a scelta fra 57 e 65 anni. Prima sarebbero andati e meno avrebbero preso, perché l'assegno veniva calcolato in base ai contributi di tutta la vita lavorativa. Il sistema precedente, quindi, premiava chi ritardava il pensionamento. La riforma Maroni cancella la fascia flessibile 57-65 anni e ripristina anche per chi è stato assunto dopo il gennaio 1996 le pensioni d'anzianità e di vecchiaia. Per la prima servono 60 anni d'età e 35 di contributi (le donne possono lasciare il lavoro a 57 anni ma con una penalizzazione sul calcolo della pensione) o 40 di contributi indipendentemente dall'età. Per la pensione di vecchiaia ci vogliono 65 anni per gli uomini e 60 per le donne.
4 MILIONI DI GIOVANI - Per esempio, con la Dini, un giovane che aveva cominciato a lavorare a 25 anni nel 1996 poteva ritirarsi a 57 anni nel 2028. Adesso, invece, come minimo dovrà lavorare 3 anni in più (per arrivare a 60 anni e 35 di contributi) per raggiungere, nel 2031, la pensione d'anzianità. Ma un giovane che invece ha trovato, dopo una serie di collaborazioni, il primo lavoro fisso a 30 anni dovrà lavorare 8 anni in più e arrivare a 65 anni per andare in pensione di vecchiaia. Prima, infatti, non potrà ritirarsi, non avendo raggiunto i 35 anni di contributi per l'anzianità. Quanti sono i giovani colpiti dall'allungamento dell'età pensionabile? Si può stimare che ogni anno circa 4-500 mila giovani comincino a lavorare. Dal '96 ad oggi sono quindi circa 4 milioni.
TFR - Lavorando più a lungo avranno una pensione più alta, ma sempre calcolata col contributivo (qui la riforma Maroni non ha cambiato nulla) e quindi al massimo uguale al 56,7% dell'ultima retribuzione (ritiro a 65 anni, con 35 anni di contributi per chi ha cominciato a lavorare dopo il primo gennaio 1996), secondo stime contenute nell'ultimo rapporto Inpdap. Per avere di più servirebbe investire nei fondi di pensione complementare. Qui la riforma introduce una novità: il silenzio-assenso, che costringerà i lavoratori a decidere tra la liquidazione, con un rendimento annuo certo del Tfr (l'1,5% più il 75% dell'inflazione) e il fondo integrativo i cui rendimenti dipendono dai mercati.
ATIPICI - Ovviamente, la scelta tra liquidazione e previdenza complementare riguarda i dipendenti privati e non i co.co.co. e gli altri atipici senza il Tfr (trattamento di fine rapporto). Per tutti i precari la riforma non prevede interventi. Per esempio, contributi figurativi tra un lavoro e l'altro, così da evitare il rischio di pensioni da fame, visto che i collaboratori versano all'Inps solo il 17%. E dovrebbero farlo per ben 35 anni per arrivare a una pensione pari ad appena il 35% dell'ultima retribuzione.
Enrico Marro
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