[Badgirlz-list] donne, universita' e poco lavoro: profonda i…

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Autore: fazio@bastardi.net
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Oggetto: [Badgirlz-list] donne, universita' e poco lavoro: profonda italietta

Quando le opportunità non sono pari
Più donne laureate, ma senza lavoro


Scelgono le facoltà umanistiche, per questo restano disoccupate È il modello
del Nord-Est: fabbrica ai maschi e cultura alle figlie


Gli imprenditori del Nord-Est lasciano le proprie aziende ai figli maschi che
spesso finiscono per studiare solo lo stretto necessario. Risarciscono le
figlie consentendo loro di frequentare l’università e tutt’al più le nominano
in qualche consiglio d’amministrazione di famiglia. Spiega Antonio
Schizzerotto, sociologo dell’università Bicocca di Milano: «Il capitale
reale, la fabbrichetta, va ai maschi, la laurea, invece, che rappresenta il
capitale culturale, va alle donne. A lungo termine l’effetto sarà devastante:
avremo un’enorme massa di donne istruite senza potere e uomini potenti
praticamente analfabeti». Le pari opportunità sono state dunque interpretate
così, creando una nuova asimmetria. A partire dagli anni Ottanta, piccoli
imprenditori e professionisti veneti, ma più in generale di tutta la Terza
Italia, hanno iniziato a differenziare gli investimenti sui figli. Il guaio è
che le figlie finiscono per portare a casa lauree essenzialmente umanistiche,
rimanendo fortemente penalizzate sul mercato del lavoro e nell’organigramma
delle aziende di famiglia. Spulciando tra i dati della Fondazione Nord Est
viene fuori un risultato paradossale: nelle terre dove ci sono più aziende
che campanili la percentuale delle donne titolari d’impresa è più bassa che
nel resto d’Italia. Se la figlia di un imprenditore entra in azienda finisce
per occuparsi dell’ufficio stampa e della comunicazione, quasi mai ha ruoli
decisionali. Il suo destino rimane quello di madre, colta ma destinata a
restare ai margini del vero mercato del lavoro. Ricca, ma subalterna.


CHI RICORRE AL CEPU - Quello del Nord-Est è un caso limite? Esprime i ritardi
culturali di una nuova classe imprenditoriale cresciuta troppo in fretta?
Oppure sviluppa fino alle estreme conseguenze un fenomeno che riguarda tutte
le laureate italiane, da Aosta a Siracusa? Le rilevazioni esistenti, di fonte
Istat, Almalaurea, ministero dell’Istruzione, segnalano concordemente come il
tasso di partecipazione delle donne italiane all’università sia cresciuto a
ritmi elevati. Nell’arco di 30 anni il trend di scolarizzazione si è
rovesciato, le donne hanno prima raggiunto e poi sorpassato gli uomini.
Nell’anno accademico 2002-2003, su 100 immatricolati ben 55 sono femmine, a
riprova di una più alta propensione a proseguire gli studi. Secondo
Almalaurea, consorzio che raggruppa 35 atenei italiani, su 94 mila laureati
dell’anno 2003 oltre 55 mila sono donne. Vanno meglio agli esami, si laureano
prima, per di più con un punteggio mediamente più alto. Non hanno bisogno di
andare al Cepu, che infatti ha una clientela composta in larga parte da
maschi. Se la laurea è sempre più «rosa», per una sorta di legge del
contrappasso le donne scontano comunque una posizione subalterna sul mercato
del lavoro. Ci mettono più tempo a trovarlo e quando lo trovano guadagnano
molto di meno (il 27% in media). La causa principale è una: la scelta che da
teenager hanno fatto iscrivendosi ad alcune facoltà e non ad altre.
Continuano a laurearsi in discipline femminilizzate come lettere, lingue,
psicologia e biologia.Mancano quasi del tutto laureate in ingegneria,
informatica e fisica. Il gap è enorme: un ingegnere gestionale, secondo
l’Istat, nel 93% dei casi trova lavoro al massimo nel giro di tre anni, per
una laureata in lingue le chance di conquistare una busta paga scendono al
62%, ben trenta punti in meno.


L’EFFETTO-MADRE - Giovanna C., trentenne napoletana, si è laureata da quattro
anni in conservazione dei beni culturali. «È una laurea nuova, ci
assicuravano che avrebbe avuto un sacco di sbocchi occupazionali. Niente di
più falso, non trovo nessuna collocazione sul mercato. Prima ho fatto un
master di specializzazione, poi sono finita in Medio Oriente con una Ong a
fare progetti di sviluppo. Ora sono a spasso. Pago la scelta che ho fatto a
18 anni quando scherzando dicevo: "Meglio estetista che ingegnere"». La madre
di Giovanna, Luisa, ex insegnante e ora psicologa, sostiene che sua figlia
non avrebbe mai fatto una scelta legata ai soldi: «Le ragazze hanno un
orologio biologico, devono fare figli. Quindi ben venga il part-time o un
lavoro tranquillo da maestra. Rispetto le donne che vogliono fare le manager
o le ingegnere, ma per loro mettere su famiglia sarà molto più difficile». Il
modello di Giovanna e Luisa, per i sociologi, è catalogato alla voce «effetto-
madre». Spiega Franca Bimbi, sociologa della famiglia e parlamentare della
Margherita: «La responsabilità della scelta umanistica è quasi sempre delle
famiglie. Una ricerca di qualche anno fa dimostrava che le madri ex
sessantottine, che vengono da un passato movimentista, ora augurano alle
figlie innanzitutto compatibilità tra lavoro e famiglia: di conseguenza le
spingono a un lavoro flessibile, non troppo impegnativo». Commenta
Schizzerotto: «La madre rappresenta il modello tradizionale, ha conosciuto
solo i corsi femminilizzati e finisce per proporre alle figlie lo stesso
modello». Ma se negli anni Settanta chi aveva scelto un lavoro compatibile
con la famiglia finiva comunque a insegnare o nella pubblica amministrazione,
oggi le loro figlie restano disoccupate oppure co.co.co. a vita. Enrico
Panini, segretario della Cgil Scuola, ricorda che «su 800 mila insegnanti il
20% è personale supplente. Ci sono 150 mila precari, spesso ragazze che
guadagnano 600-700 euro al mese».


I NUOVI GINECEI - In molte università le facoltà umanistiche assomigliano a
ginecei. Nelle facoltà italiane di lettere il 71,9% degli iscritti è una
donna, in quelle di psicologia il 77,4, a lingue l’80,8, nel cosiddetto
gruppo insegnamento l’87,9%. Scherza Chiara B., 24 anni di Bergamo, iscritta
a lingue da un anno: «L’unica cosa che mi dispiace è che in aula siamo tutte
femmine. Nemmeno un ragazzo da abbordare, incredibile». Sa che il lavoro non
arriverà facilmente. «Ma non avrei mai frequentato matematica, ingegneria né
informatica.La laurea è una cosa mia, personale, anche se sarà inutile. A me
piace viaggiare e parlare con gli stranieri». Vittoria R. di Torino si era
iscritta a economia e commercio. «Con un padre commercialista e una madre
ragioniera era consequenziale, ma ora mi sono spostata a psicologia. Siamo
tutte donne. Sarà più difficile guadagnarsi da vivere, molte mie amiche hanno
fatto la stessa scelta solo per aspirare a un part-time e non lavorare
troppo». Nelle facoltà scientifiche i dati sono opposti. A ingegneria i
ragazzi sono l’83,3% del totale, nel gruppo scientifico arrivano al
77,1. «Sembra che ci sia una diversità, quasi ineliminabile, fra le scelte di
studio dei due sessi, una sorta di processo di segregazione formativa», ha
scritto Paola Ungaro in un saggio su donne e università. Una segregazione che
alimenta nuove disparità lavorative: ai maschi le professioni da uomo, alle
donne i servizi e l’istruzione. Come 30 anni fa.
Secondo il demografo Massimo Livi Bacci, tutto ciò porta i segni di una
modernizzazione zoppa. «Il peso della tradizione letteraria e pedagogica è
ancora fortissimo, il nostro Paese non sa contare, sotto l’aspetto aritmetico
è deficitario. Da sempre in Italia i numeri sono affari degli uomini, e la
società non ha fatto niente per invertire il trend e per avvicinare alle
materie scientifiche le ragazze». È tanto vero che al Politecnico di Torino
le autorità accademiche hanno lanciato il «Progetto donna: professione
ingegnere». È una corsia preferenziale per il sesso femminile. Sono previste
200 borse di studio da 900 euro e il bando ufficiale recita che «alcuni
pregiudizi sono saldamente ancorati in seno alla famiglia e alla società. I
genitori o gli insegnanti dissuadono le ragazze dal seguire una formazione
che le condurrebbe a professioni tradizionalmente maschili in cui la presenza
delle donne non è ancora completamente accettata». Secondo Maria Schiavone,
responsabile del progetto, «il problema è sentito anche all’estero, tanto è
vero che in Inghilterra c’è l’ipotesi di tornare alle classi uniche per
avvicinare le donne alla tecnologia: in quelle miste sono i ragazzini a
monopolizzare l’uso dei computer».