I conti con la storia
Conti, revisori e revisionisti
Contabilità e giudizio
di VITTORIO BEONIO BROCCHIERI
L'espressione "fare i conti", con qualcuno o con qualcosa, ha sempre una
sfumatura vagamente minacciosa o quantomeno ansiogena. Suggerisce l'idea di
un appuntamento cui non ci si può sottrarre. La sensazione di sgradevolezza
è accentuata dal fatto che, nelle versioni divulgative dei vari
revisionismi in circolazione, è proprio la macabra accezione
ragionieristica di questa espressione che sembra prendere il sopravvento.
Deportati, infoibati, fucilati, vengono puntigliosamente contabilizzati,
rivendicati, rinfacciati in una degenerazione rancorosa degli entusiasmi
cliometrici che hanno pervaso la storiografia di qualche decennio fa. Il
sangue dei vinti si rovescia torrenziale sui vincitori di ieri i quali, per
contro, vedono spietatamente messe in discussione le loro meste certezze.
Un recente (15 maggio 2004) servizio trasmesso dal TG2 dimostrava
inoppugnabilmente che il bombardamento di Guernica non aveva praticamente
fatto alcuna vittima e poi, anche se fosse, il fronte correva lì vicino e
quindi l'episodio va derubricato da "deliberata atrocità contro la
popolazione civile" a "legittima azione di guerra con (pochi) danni
collaterali". E questo per tacere dei tentativi di ridimensionamento di
tragedie ben maggiori.
Non vorrei sembrare però sembrare ingeneroso, tanto più che la mia
formazione di storico economico mi induce a guardare con una certa simpatia
ad ogni tentativo di quantificazione, consapevole delle difficoltà e dei
rischi insiti in questo tipo di esercizio. Difficoltà tecniche e
documentarie innanzitutto, ma non solo. Su quale "Libro nero" vanno
iscritte certe vittime? I morti delle foibe vanno imputati al comunismo
titino o al nazionalismo jugoslavo? E le vittime delle catastrofiche
carestie della Russia sovietica sono il risultato di errori di politica
economica o un genocidio intenzionale dei kulaki? E, andando a ritroso nel
tempo, i martiri della Vandea vanno considerati innanzitutto vittime
dell'ideologia giacobina o di più complessivi processi di modernizzazione
sociale ed economica di tipo capitalistico?
Sorgono poi delicati problemi nel determinare, per così dire i "tassi di
conversione" delle atrocità, come vediamo, in questi giorni nel caso
iracheno. Un decapitato quanti seviziati vale? (A meno che non si
preferisca, con una certa spregiudicatezza contabile, trasformare le voci
passive in attive, affermando che le sevizie dimostrano, con il loro essere
rese pubbliche, la superiorità morale di chi le ha commesse ma poi si è
scusato). Inoltre si può sempre trasferire l'addebito delle atrocità su
altri conti. Se il nazismo viene interpretato essenzialmente come una
reazione - sia pure una sovrareazione - al bolscevismo, in fondo ciò
significa che la responsabilità dei suoi crimini ricade in ultima analisi
su quest'ultimo.
La revisione di questo genere di contabilità ha avuto quindi una parte
importante nelle procedure revisionistiche. Oltre l'ovvia componente
emotiva, essa produce un effetto di legittimazione scientifica, legato alla
quantificazione, nonostante, come si diceva, la storia quantitativa non sia
più molto à la page.
Il ricorso a questo tipo di cliometria ha quindi una funzione
essenzialmente retorica. A questo proposito è forse interessante esaminare
alcuni altri elementi dell'arsenale persuasivo del revisionismo
storico-politico attuale, soprattutto italiano. Uno di questi è la fiera, e
vittimistica, rivendicazione della proprio isolamento rispetto a quella che
viene definita sprezzantemente la "storiografia ufficiale". Il revisionista
si raffigura, e forse persino si percepisce sinceramente, come un eretico,
un iconoclasta perseguitato dai guardiani di un'ortodossia opprimente. E
questo nonostante la sua posizione, spesso confortevole, nell'ambito del
sistema dei media, in quello universitario o, più in generale, nel "campo
culturale". Trattandosi di intellettuali, questo atteggiamento risponde
forse prima ancora a motivazioni psicologiche che a strategie di
comunicazione. Per quanto spossa sembrare stravagante, si ha spesso
l'impressione che questa immagine corrisponda ad una percezione sincera.
La nozione di "storiografia ufficiale" costituisce in questo contesto una
ambigua fictio polemica. Essa sembra alludere all'esistenza di una
storiografia che costituisce l'emanazione diretta del potere politico, come
nel caso delle storiografie ufficiali dei regimi totalitari del Novecento.
Evidentemente l'esistenza di una "storiografia ufficiale" in questa
accezione forte, nell'Italia repubblicana è difficilmente sostenibile,
soprattutto se ci si riferisce alla storiografia lato sensu di sinistra,
dato che potere politico - e potere economico - stavano quasi sempre
altrove. Nonostante questo - soprattutto da parte di esponenti politici e
culturali a vario titolo eredi della destra neo e post fascista, ma non
solo - l'espressione "storiografia ufficiale" viene utilizzata in questo
senso quasi letterale. E' la storiografia dei "vincitori" che si richiamano
alla Resistenza, dai cattolici, ai liberali, alla sinistra azionista,
socialista e comunista, che ha dettato la sua legge ai "vinti", alle loro
ragioni, al loro vissuto e alla loro memoria. Come alternativa si invoca
una storiografia finalmente libera da ogni faziosità, nella quale l'intera
comunità nazionale possa riconoscersi. Da un lato l'antitesi fra
"vincitori" e "vinti" esprime un mero giudizio di fatto - c'è chi ha vinto
e chi ha perso - dall'altro si insiste sulla dimensione psicologica, etica
o esistenziale all'origine delle diverse posizioni, o più banalmente sulla
"buona fede" di chi ha combattuto su entrambi i fronti. In ogni caso si
tende ad eludere la questione del significato storico-politico delle scelte
compiute. Al permanente carattere fazioso e ideologico del dibattito
storico e politico italiano viene presentato talvolta come esempio da
imitare quello delle grandi nazioni europee, nelle quali il senso di
appartenenza nazionale fa premio sulle appartenenze fazionarie. In questo
c'è del vero, ma non bisogna dimenticare che, ad esempio nel caso francese
o in quello inglese, questo idem sentire nazionale poggia soprattutto
sull'incorporazione del significato storicamente positivo di una rottura
rivoluzionaria, non sulla sua obliterazione. La Francia e la Gran Bretagna
attuali sono figlie della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Bill of
Rights più che dei loro re taumaturghi. Anche fra i Tories più conservatori
non credo siano molti i fautori della restaurazione giacobita e anche la
droite francese si riconosce pienamente nell'eredità rivoluzionaria.
Più spesso il riferimento polemico a una "storiografia ufficiale" si
riferisce però a una interpretazione semplicistica dell'idea di egemonia
culturale. La differenza non è di poco momento. Un conto è denunciare una
storiografia emanazione del potere politico, un altro lamentare la
prevalenza, all'interno di un campo culturale al quale viene riconosciuta
una sua autonomia, di alcune correnti. In questo caso lo stesso dato di
fatto appare più discutibile. Se non c'è dubbio che la storiografia
genericamente "antifascista" abbia dominato incontrastata nel secondo
dopoguerra, meno evidente è il fatto che la storiografia specificamente
marxista abbia esercitato un'egemonia così assoluta. E in ogni caso di
questa presunta egemonia - nei vari ambiti culturali e artistici - viene
fornita troppo spesso una lettura grottescamente caricaturale, come il
risultato di un abile, ben orchestrato complotto, mentre le ragioni
andrebbero semmai ricercate nell'incapacità della borghesia italiana di
darsi una adeguata cultura modernizzatrice. Come ha scritto Anna Maria
Ortese, il comunismo italiano è stato in realtà spesso solo "un liberalismo
d'emergenza".