Autore: Pasquale Martino Data: Oggetto: [Lecce-sf] Quando l'Italia perse Enrico
Rina Gagliardi su "Liberazione", 11.6.2004
Quando l'Italia perse Enrico
Quando, l'11 giugno 1984, fu annunciata la morte di Enrico Berlinguer,
l'Italia intera fu scossa da un'emozione enorme, del tutto inedita nei
confronti di un politico che era poi il leader dell'opposizione e,
soprattutto, era il "capo" dei comunisti italiani. Fu davvero lutto
nazionale, come in Italia non era mai accaduto e come presumibilmente non
accadrà mai più: l'omaggio di Sandro Pertini («Lo andrò a prendere e lo
porterò con me, come un figlio») rappresentò alla perfezione questo
sentimento collettivo, anzi corale. La percezione di una perdita che
impoveriva il Paese e lasciava tutti un po' più soli - non solo gli amici
più cari e i compagni più affezionati, ma anche i critici più severi e gli
avversari più risoluti.
Da dove nacque questo scatto di connessione sentimentale? C'era stata,
certo, la drammaticità della morte - quel comizio interrotto, quegli
interminabili minuti di sofferenza, quella lotta tenace, fino all'ultimo
secondo possibile, per affermare la forza della parola. E c'erano stati quei
quattro lunghi giorni di agonia. La figura del segretario del Pci guadagnava
così una dimensione eroica, mitica, proprio nel momento della sua massima -
e fatale - fragilità, consentendo a molti, all'Italia migliore,
un'identificazione profonda. Se ne va un uomo giusto, fu il titolo del
manifesto, scritto di pugno da Luigi Pintor, che riuscì a rendere evidente,
più di chiunque altro, questa raggiunta dimensione "universale". Eppure,
tutto questo non basta a spiegare il clima di quelle giornate, l'intensità
dei funerali, il riflesso politico di massa che, nel voto europeo che si
tenne poco dopo, avrebbe consentito al Pci di diventare il primo partito
d'Italia e di superare la Dc per la prima volta nella sua storia.
C'era dell'altro, in quella risposta, e si legava, più o meno
consapevolmente alla politica, alle sorti del comunismo e della sinistra
italiana. Negli anni '80, dopo il vistoso fallimento della politica di unità
nazionale e, in sostanza, della strategia del compromesso storico,
Berlinguer aveva avviato una fase molto intensa di ricerca e di innovazione.
Il tema attorno a cui ruotavano questa ricerca e questa innovazione era la
diversità: la diversità dei comunisti. Per tanti fu occasione di ironia, se
non di scherno esplicito. Ma era questa, in realtà, la sola leva che poteva
consentire al Pci una ricollocazione strategica, un recupero delle proprie
radici - operaie e di classe - una nuova proposta di sinistra che fosse
capace di superare la dimensione "politicista". Del resto, Berlinguer aveva
capito la portata della sfida quando, nell'80, con un gesto inaudito di
scavalcamento del sindacato riformista di Luciano Lama, si era presentato,
da solo, davanti ai cancelli della Fiat. E quando, pochi mesi prima di
morire, aveva tutto investito nella lotta sulla scala mobile, tagliata dal
famigerato «decreto» craxiano di san Valentino, che aveva rotto l'unità
sindacale. Il fatto è che la politica-politica, anche per un totus politicus
come Berlinguer, sembrava aver esaurito i suoi spazi più significativi: se
il rapporto organico con la Dc, con il partito del centro cattolico, aveva
dato di sè prove pessime, l'alleanza di sinistra, con il nuovo Psi di
Bettino Craxi, era ancor più impraticabile. Quasi come le prime formule, un
po' confuse, che Berlinguer si era inventato proprio all'inizio del
decennio - il «governo degli onesti», il governo di alternativa
democratica - destinate a cadere nel vuoto. Anche per questo, nel Berlinguer
sofferente e innovativo dei suoi ultimi anni affiora un interesse inedito
verso i movimenti e le nuove culture critiche, come l'ambientalismo e il
femminismo.
La «diversità», appunto, era il dato politico - non solo morale - attorno al
quale il Partito comunista avrebbe potuto non solo e non tanto "resistere" o
conservare il suo patrimonio, ma rilanciare un'opzione trasformativa capace
di fronteggiare il rampante "riformismo senza riforme" del nuovo Psi.
Proprio qui, nel confronto diretto con Bettino Craxi, la diversità comunista
poteva emergere quasi senza bisogno di essere spiegata.
Un gruppo di gangster si è impadronito del Partito socialista italiano.
Questo fatto è destinato a modificare in profondità la politica italiana:
così Enrico Berlinguer aveva introdotto, nel '79, una riunione della
Direzione del Pci, circondato dal gelo non solo dei "miglioristi"
notoriamente filosocialisti. Ma questo era il succo del suo giudizio sul
craxismo e sul leader del Psi, «un uomo che pensa solo al potere per il
potere», come aveva detto in più d'un'intervista. Del resto, tra Craxi e
Berlinguer la differenza era abissale, anche sul piano personale. A
cominciare dal fisico: lui, minuto, affaticato, fragile, l'altro, alto e
grande, un vero e proprio armadio. Quelle rare volte che s'incontrarono, non
riuscirono a imbastire uno straccio di conversazione normale: Berlinguer,
come è noto, centellinava le parole, Craxi usava esprimersi con lenta
solennità retorica, e poi improvvisamente taceva. Così, tra un silenzio e
l'altro, e penosi tentativi di battute, i «vertici di sinistra» ebbero tutti
un risultato fallimentare. Ma come negare a Berlinguer, oggi, la preveggenza
della questione morale come questione cruciale dell'Italia di finesecolo?
Non è detto che il Berlinguer degli anni della svolta sarebbe davvero
approdato ad una organica strategia di sinistra. Quel che si può dire, è che
di questo possibile esito c'erano molti segnali, insieme, certo, alla
percezione di una difficoltà straordinaria, e, soprattutto, di una sconfitta
imminente. In questo senso, la morte di Enrico Berlinguer è stata fino in
fondo una morte politica. Un atto estremo, fino al sacrificio di sè, di
passione politica. Anche per questo, l'Italia intera capì di aver perduto
una figura straordinaria. Un politico "antico" che avrebbe potuto
"proteggerla" dal rischio, galoppante, della degenerazione,
dell'omologazione, della modernizzazione senza modernità.